“Lo faresti?” sbottò Gabriel con veemenza, rivolgendosi a Will. “Se fosse la tua famiglia?” Le sue labbra si arricciarono. “Non importa. Non è che tu conosca il significato della parola lealtà…”
“Gabriel.” La voce di Gideon era un rimprovero per suo fratello. “Non parlare a Will in questo modo.”
“Ha cominciato lui,” disse Cecily, muovendo di scatto il mento di direzione di Will, anche se sapeva perfettamente che era tutto inutile. Jem, il parabatai di Will, la trattava con la distante, dolce gentilezza che si riserva alle sorelline dei propri amici, ma sarebbe rimasto dalla parte di Will. Gentilmente, ma con fermezza, metteva Will sopra ogni altra cosa al mondo. Beh, quasi tutto.
Jem strinse le dita intorno alla stoffa della manica di Will. “Sei il mio parabatai,” disse. “Una volta mi hai detto che avrei potuto chiederti qualsiasi cosa.”
Jem portò indietro l’arco e scoccò la freccia; si conficcò nel fianco della creatura. Il massiccio demone verme si contorse, agonizzando, ondeggiando mentre agitava la sua grande testa cieca da un lato all’altro, sradicando cespugli con i suoi colpi. Le foglie riempirono l’aria e i ragazzi furono soffocati dalla polvere; Gideon si puntellò con la spada angelica, cercando di usare la sua luce per vedere.
“Sta venendo verso di noi,” disse a voce bassa.
E in effetti era così, il demone si trascinava faticosamente ma a velocità incredibile, la freccia che ancora sporgeva dalla sua umida pelle grigiastra. Uno scatto della sua coda colpì il bordo di una statua, lanciandola nell’asciutta piscina ornamentale, dove si frantumò in polvere.
“Per l’Angelo, ha appena schiacciato Sofocle,” notò Will. “Non si ha più rispetto per i classici oggigiorno?”
E l’oro del suo abito da sposa rovinato.
Le dita di Will sfiorarono quelle dell’altro ragazzo mentre toglieva l’arma a Jem: era la prima volta, pensò Charlotte, che lo vedeva toccare una qualsiasi altra persona di buon grado.
“Un’affermazione molto magnanima, Gideon,” disse Magnus.
“Sono Gabriel.”
Magnus agitò una mano in aria. “Ai miei occhi tutti i Lightwood sono uguali.”
Will si alzò lentamente in piedi. Non poteva credere di starlo facendo davvero, ma era chiaro che era così, chiaro come il cerchio d’argento intorno al nero negli occhi di Jem. “Se c’è una vita, dopo questa,” disse, “lascia che io ti incontri anche lì, James Carstairs.”
“Ci saranno altre vite.” Jem tese la mano e per un istante se le strinsero, come durante il rituale per diventare parabatai, raggiungendosi attraverso due anelli gemelli d’argento per intrecciare le dita l’uno con l’altro. “Il mondo è una ruota,” asserì. “Lo faremo insieme, che si tratti di levarsi o cadere.”
Will strinse la presa intorno alla mano di Jem, che tra le sue dita era sottile come un ramoscello. “Bene, allora,” disse, la gola chiusa, “dal momento che dici che ci sarà un’altra vita per me, preghiamo entrambi che io non combini un pasticcio colossale in questa.”
Tessa poggiò una mano contro la parete mentre scendeva le scale, intontita. Cos’è che aveva quasi fatto? Cos’è che aveva quasi detto a Will?
Gideon le sfiorò la guancia, lievemente, con le punte delle dita. “Lo sai che il tuo nome significa saggezza? È stato davvero un’ottima scelta.”
(Primo incontro tra Will e Jem, dal prologo di CP2): “Non stai morendo davvero,” disse Will, con un tono di voce stranissimo, “non è così?”
Tessa allungò la testa per guardare Will. “Conosci quella sensazione,” disse, “quando stai leggendo un libro, e sai che sta per esserci una tragedia; puoi sentire il freddo e l’oscurità arrivare, vedere la rete stringersi sempre di più intorno ai personaggi che vivono e respirano in quelle pagine. Ma sei legato alla storia come se fossi trascinato da una carrozza e non potessi mollare, e neppure cambiarne il corso.” Gli occhi azzurri di William erano scuri per la comprensione – era ovvio che avrebbe capito –, e lei si affrettò a continuare. “Mi sento come se in questo momento stesse succedendo la stessa cosa, solo che i personaggi non sono di carta, ma si tratta dei miei amati amici e compagni. Non voglio star seduta mentre la tragedia si abbatte su di noi. Vorrei aggirarla, ma non so come fare.”
“Hai paura per Jem,” disse Will.
“Sì,” gli rispose. “E ho paura anche per te.”
“No,” fece Will con voce rauca. “Non sprecare il tuo tempo con me, Tess.”
Tessa si sporse in avanti e gli prese la mano, stringendola tra le dita. Il tocco era come fuoco bianco nelle vene di Will: non poteva toccarle la pelle, solo la stoffa dei guanti, ma tutto ciò non importava. How you have kindled me, heap of ashes that I am, into fire. Si era chiesto, una volta, perché l’amore fosse sempre espresso in termini di combustione: fu l’incendio che gli si propagò in quell’istante nelle vene a rispondergli. “Sei buono, Will,” disse Tessa. “Non c’è persona al mondo che sappia meglio di me quanto tu sia buono.”
“Wow ei n ixie de,” disse, mentre si sistemava il violino sulla spalla sinistra, incastrandolo sotto al mento. Una volta le aveva detto che molti violinisti usano una spalliera, ma lui no: c’era un piccolo segno sulla sua gola, come un livido perenne, lì dove si posava il violino.
“Tu – hai fatto qualcosa per me?” chiese Tessa.
“Ti ho scritto qualcosa,” la corresse con un sorriso, e cominciò a suonare.
Londra, 1873.
“Will?” Charlotte Fairchild schiuse la porta della stanza d’allenamento dell’Istituto. “Will, sei qui?”
L’unica risposta fu un grugnito soffocato.
La porta si aprì completamente, rivelando una stanza ampia e col soffitto alto.
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