Buon Natale, Shadowhunters!
Sappiamo che la giornata di oggi per molti di voi non sarà particolarmente speciale, ma speriamo che stiate comunque trascorrendo momenti piacevoli. Per festeggiare in vostra compagnia, abbiamo pensato di portarvi un regalino… e quindi ecco una traduzione che rimandavamo da un po’!
Si tratta di una scena tagliata/extra de “Il Libro Bianco Perduto” (pubblicata in origine nell’esclusiva edizione Waterstones del libro), che ruota tutta intorno al nostro amato gruppetto di New York. Oltre ad Alec e Magnus, ci sono quindi Jace, Clary, Simon, Isabelle, Maia e Bat.
Il racconto è molto dolce, a tratti commuovente e decisamente esilarante. Ci auguriamo che contribuirà a migliorare la vostra giornata.
Vi mandiamo un mucchio di abbracci virtuali (e sappiate che nei prossimi giorni, tempo permettendo, arriveranno anche un altro paio di cosine…). Buona lettura!
Magnus e Alec stavano combattendo l’ennesima battaglia di una guerra ancora in corso – uno scontro che ogni settimana faceva a pezzi il loro vicinato. I frutti delle vittorie erano deliziosi; le sconfitte brutali.
Il campo di battaglia era il brunch domenicale a Williamsburg.
Mentre tornava dagli altri, che aspettavano tutti accalcati sul marciapiede, Alec fece una smorfia. Magnus stringeva Max con aria diffidente. Ad Alec era chiaro che gli altri dovevano aver già capito dalla sua espressione che portava cattive notizie. Non aveva senso nascondere la verità. Lasciò vagare lo sguardo sui quei volti speranzosi: il viso del suo parabatai, della fidanzata di lui, dell’amore della sua vita e del loro bambino. Gli spezzava il cuore dover dar loro la notizia.
“Un’ora e mezza,” disse.
“Un’ora?” ripeté Clary con orrore. “Per un tavolo?”
“E mezza.” Alec serrò la mascella. “Penso che dovremmo tenere duro. Stiamo comunque ancora aspettando che arrivi Simon.”
Clary lanciò un’occhiata preoccupata al cortile del ristorante, pieno zeppo di persone. “Sono mesi che parla di fare il brunch all’Old Filthy Joe,” ricordò con fare leale, “e questa è la sua festa.”
Simon si era diplomato all’Accademia Shadowhunters solo qualche settimana prima – un risultato che era stato accompagnato da un’orribile tragedia. Dopo che il suo migliore amico lì a scuola, George Lovelace, era morto durante il rituale dell’Ascensione, nessuno aveva avuto granché voglia di festeggiare. Ma adesso che era passato un po’ di tempo, Clary aveva sostenuto con fermezza che Simon si meritasse un momento per sentirsi orgoglioso di quello che aveva ottenuto. E Alec e Magnus erano sempre a favore dei brunch.
“Altrimenti non usciamo mai di casa,” aveva sentenziato Magnus scuotendo il capo. “Ce ne stiamo semplicemente a coccolare Max per tutto il giorno.”
Adesso se ne stavano in cerchio sul marciapiede. La giornata era un po’ grigiastra, e il sogno di Alec era stato di accomodarsi a un tavolo accogliente, bevendo tazze dopo tazze di caffè insieme ai suoi amici. E magari di mangiare anche delle uova.
I clienti nel cortile ridevano e ballavano nel mezzo del loro luminoso pranzo. Alec li odiava.
“È molto lussuoso,” osservò Jace, poco convinto.
“Sì, come mai?” domandò Clary a Magnus. “Pensavo che il quartiere di Williamsburg fosse tutto, sai, gallerie d’arte illegali in fabbriche abbandonate. Credevo vivessi qui per questo.”
“Quando voi eravate bambini, le cose stavano così, almeno in parte,” confermò Magnus con un sorrisino. “Ma adesso è tutto fatto di edifici multipiano e pasticcerie artigianali per cani.”
“Sono i cani a gestirle?” chiese Alec, proprio mentre il suo telefono cominciava a vibrare. Magnus gli rivolse un sorriso abbagliante. Max si guardava intorno come se stesse cercando di capire la battuta.
Alec si allontanò educatamente di qualche passo per rispondere; era Maia. “Un’ora e mezza,” le disse.
Lei rise. “Sì, lo immaginavamo. Bat e io abbiamo occupato uno dei separé giganti al piano superiore di Maggie’s, e voialtri dovreste tutti venire qui.”
“Stiamo aspettando Simon e Isabelle,” cominciò a risponderle Alec.
“Sorpresa! Ho intercettato io Simon e Isabelle!” lo interruppe Maia, chiaramente soddisfatta di se stessa. “Sono già qui. Hanno già ordinato un paio di mimosa. Dite ciao, ragazzi.”
“Ehi,” lo salutò un po’ in lontananza la voce di Isabelle. “Puoi prendere quanti mimosa vuoi insieme al brunch.”
“Voglio soltanto vedervi tutti!” si inserì Simon a voce alta. “Il nostro non è un lavoro con orari d’ufficio, possiamo andare a fare colazione all’Old Filthy Joe uno di questi martedì o qualcosa del genere. Raggiungeteci qui. Mangeremo il nostro peso in pierogi.”
“Vi faccio presente che con noi c’è un bambino,” sottolineò Alec.
“Lo sospettavamo,” rispose Maia. “Il personale ci ha confermato che anche i suoi mimosa saranno illimitati, ma dovrà portarsi dietro la tazza col beccuccio.”
“Maia!” la richiamò Alec, scandalizzato. “C’è anche Lily?”
“Alec,” gli ricordò lei con fare paziente. “I vampiri non mangiano il brunch.”
“Perché no?” chiese lui. “I brunch sono ottimi.”
“Oh, sai, sono davvero molto costosi,” fu l’intervento di Simon.
“Non mangiano cibo,” ribatté invece Maia. “E adesso è giorno. Porta qui la tua gente, Alec, il locale ci sta chiedendo di ordinare. Cominciano a rivolgerci occhiatacce. Sì, lo vedo che come ci guardate,” aggiunse, rivolta a un qualcuno di non identificato.
“Prendetevi un altro mimosa,” le consigliò Alec, e attaccò.
Si riunì agli altri, proprio mentre Clary diceva: “Credo che dovrebbe essere Magnus a sedurre il maître. È di certo quello tra noi con più esperienza.”
“Ma io ho un carisma radioso,” protestò Jace.
“Ho un bambino con me,” fece presente Magnus. “Se si vuol fare il seduttore, risulta un po’ un handicap.”
“Nessuno sedurrà nessuno,” ribatté con fermezza Alec. “Il resto del gruppo è da Maggie’s. C’è anche Simon,” aggiunse svelto, prima che qualcuno sollevasse delle obiezioni. “E vuole che lo raggiungiamo.”
Il Maggie’s era un vecchio ritrovo di Magnus: un piccolo ristorante polacco che era rimasto nello stesso angolo di Greenpoint per quarant’anni, riuscendo in qualche modo a sopravvivere a ogni cambiamento. Da quando Alec e i suoi amici avevano cominciato a frequentare lo stregone, era diventato un punto d’incontro anche per loro. Era un ristorantino fuori dal tempo, lercio in modo che al contempo faceva sentire a proprio agio e giustamente disgustava.
Per raggiungerlo ci volevano circa dieci minuti a piedi, durante i quali Alec chiese a Magnus se volesse passargli Max. Magnus si finse offeso. “Potrò anche non passare il tempo ad allenarmi come te,” disse, “ma sono in grado di camminare per il mio quartiere con un bimbo in braccio.”
“Magnus,” fece Alec. “Lascia che riformuli la frase. Mi piacerebbe portare un po’ Max.”
“Oh!” esclamò l’altro. “Beh, in tal caso…”
Max fu quindi staccato da Magnus e allacciato ad Alec, e il gruppo si rimise in marcia verso Maggie’s. Maia era riuscita a procurare loro uno degli enormi separé che si trovava sul piano ammezzato del locale, e che dava sul resto del locale. Ci stavano comodamente tutti e nove.
“Allora, spiegatemi,” esordì Jace mentre prendevano posto, “questo rituale mondano conosciuto come ‘brunch’.”
“Col vostro permesso,” disse Magnus; dal momento che non era più avvolto in un marsupio per neonati, si sgranchì. “All’interno dei confini della città di New York, qualunque pasto venga consumato durante il finesettimana, e in particolar modo di domenica, può essere considerato un brunch, e dunque l’occasione giusta per bere champagne durante il giorno.”
“Il costo da pagare è terribile, però,” aggiunse Clary. “Non puoi fare prenotazioni per il brunch. Tra parentesi, Jace, smettila di fingere di non avere idea di cosa sia una pizza o cos’altro solo perché sei uno Shadowhunter. Lo sai benissimo cos’è un brunch.”
“Suppongo di aver appreso una sua antica definizione dalla mia gente, lì tra le montagne dell’Europa Centrale,” rispose Jace in tono dubbioso, “perché mi era parso di capire che fosse un pasto consumato tra la colazione e il pranzo. Ora sono le due del pomeriggio.”
Isabelle poggiò una mano sulla spalla di Jace. “Il brunch è un modo di essere,” sentenziò. “Uno stato mentale.”
Simon era seduto di fronte ad Alec e Magnus; si allungò per solleticare Max sotto al mento. Il bambino ridacchiò. “Guardati,” gli disse con ammirazione. “Ti avevano lasciato su dei gradini, ma adesso sei qui.”
“Da Maggie’s?” replicò Alec, ironico.
“Nella grande città. Ce l’hai fatta, piccolo!” Max produsse una serie di versetti di gioia che non erano propriamente delle parole e agitò le manine. “Esatto!” esultò Simon. “Muovi quelle dita!”
Isabelle gli diede un colpetto sulla spalla. “Non parlargli di com’è stato lasciato sui gradini!” sussurrò. “Lo farà sentire turbato.”
“Già, in effetti ha proprio l’aria turbata,” concordò Simon. Aveva offerto il suo cucchiaino a Max, che adesso lo stava osservando con grande attenzione.
Seguì un frastuono generale di menù e ordinazioni. Il Maggie’s era conosciuto anche, tra le varie cose, per i suoi pancake con gocce di cioccolato, ognuno grande quanto le ruote di una bicicletta; Alec si assicurò che Jace ne ordinasse due porzioni da condividere, come al solito.
Maia, che era seduta accanto a Simon, incrociò lo sguardo di Alec. “Ho sentito dire che tua madre sta pensando di smettere di gestire l’Istituto.”
Alec la guardò. “Qualche settimana fa ha accennato alla possibilità di ritirarsi, a un certo punto. Ma a te chi l’ha detto?”
Lei si strinse nelle spalle. “Chiacchiere tra Nascosti. Chi è che prenderà il comando al posto suo, allora? Qual è lo scoop?”
Gli Shadowhunters si guardarono tra loro. Nessuno offrì volontariamente alcuna informazione.
“Potrei farlo io,” affermò Jace, e la maggior parte dei presenti ridacchiò in risposta. “Cosa c’è?” chiese.
Isabelle gli rispose: “È solo che non sembra il genere di cosa che ti andrebbe di fare.”
“Non ho detto che mi va di farlo,” precisò lui, “solo che potrei.”
“Ma vuoi farlo?” insisté Isabelle.
“No,” ribatté Jace. “No. Sto solo dicendo che sarei bravissimo come capo dell’Istituto. Ma non è che abbia particolarmente bisogno di dimostrarlo, niente del genere.”
Clary aggiunse: “Sono contenta che tu abbia stabilito che saresti bravissimo in qualcosa di cui non ti vuoi occupare. Ma qualcuno dovrà farlo. Cioè, uno di noi Shadowhunters di New York. Altrimenti il Conclave ci manderà una persona a caso interessata ad avere una promozione.”
“Non potete permetterglielo,” ribatté con enfasi Bat, e tutti si voltarono a guardarlo, sorpresi. “Ci manderanno qualcuno fuori i testa.”
Jace ingollò la sua tazza di caffè e poi annuì. “Manderanno Marjorie Vogelspritz da Amburgo, che ci costringerà a mettere in ordine alfabetico l’armeria.”
Alec scrollò le spalle. “Manderanno Leon Verlac da Parigi, che tenterà di sedurre tutti quanti. Uomini, donne, fate che somigliano a piante antropomorfe. Chiunque.” Max ridacchiò, e Alec fu costretto a ricordare a se stesso che il bambino ridacchiava in modo assolutamente casuale, e non perché avesse capito la battuta.
“Un’osservazione stranamente specifica,” osservò Simon.
“L’incubo ricorrente che ho è assai specifico,” ribatté Alec, cupo. “Il punto, comunque, è che non so quando si ritirerà mia madre. Potrebbe restare ancora per mesi o anni, non ne ho idea. Ha solo… cominciato a parlarne.”
“Bene, ora basta con le faccende da Shadowhunters,” li rimproverò Magnus. “Sono arrivate le nostre bevande; dovremmo fare un brindisi all’uomo del momento.”
“Ma anche questa è una faccenda da Shadowhunters,” protestò Clary.
“Sì, però è una faccenda da Shadowhunters che ha a che fare con le feste,” rispose Magnus, “e, come saprete di certo, tutte le faccende che hanno a che fare con le feste sono faccende mie.” Sollevò il bicchiere. “A Simon, l’ultimo idiota ad aggiungersi alle fila dei Nephilim!”
“Sono quasi certo che quella fosse la mia battuta,” ribatté Jace. “Cioè, non la parte dell’‘idiota’. Congratulazioni, Simon, ma ricordati di non essere più un inarrestabile e invulnerabile vampiro in grado di camminare sotto la luce del sole.”
“Vorrei rispondere ‘ben detto’,” si inserì Clary, “ma il modo in cui hai concluso la frase è troppo deprimente.”
“Quindi tre urrà per Simon!” aggiunse Jace rapidamente.
“Ben detto!” urlò Clary, e tutti acclamarono Simon Lovelace, Shadowhunter nuovo di zecca. Alec studiò la sua espressione: gli era parso stranamente assente durante i brindisi di Magnus e Jace, e ora stava scuotendo il capo, come per schiarirsi le idee; alla fine tornò a concentrarsi. Sorrise e prese un bicchiere, e poi continuò a bere.
“Simon?” lo chiamò Isabelle, ma Simon sollevò un dito, e tutti quanti rimasero diligentemente in silenzio per qualche istante mentre lui finiva il drink.
“Bene,” disse, rimettendo con forza il bicchiere sul tavolo. “Sono rimasto lontano da New York per parecchio tempo, quindi mi servono aggiornamenti. Cosa sta succedendo nel Mondo Nascosto? Che fanno tutti? Come ha fatto la città a sopportare la mia assenza? E come ha gestito il peso dell’arrivo di Max Lightwood-Bane, il più grande dono per la grandezza di New York dai tempi di John Lennon…”
“Nessuno ha idea di cosa tu stia dicendo, tesoro,” gli fece notare Isabelle con voce gentile, dandogli dei colpetti sul braccio.
“Maia!” esclamò Simon. “Tu che fai di bello?”
“Uhm,” disse Maia. “Sto gestendo la libreria, in verità.”
“Che libreria?” domandò Simon.
“La libreria,” rispose lei. “Garroway Books.”
“Oh!” fece Simon. “Davvero grandioso.”
“La libreria si riceve insieme al branco di licantropi?” le chiese Magnus, divertito.
“Sì,” confermò Bat in tono cupo.
“No,” lo corresse Maia. “Luke è ancora il proprietario, e in realtà ci sentiamo quasi tutti i giorni. È solo che passa la maggior parte del tempo nella sua fattoria. Ed essere un licantropo non ti paga le bollette. Non è possibile fare i licantropi di professione. E sapevo già che Luke è un buon capo, quindi…”
“Voglio che tu sappia,” disse Simon a Bat in tono solenne, “che ti ho sempre considerato un DJ professionista, ma un licantropo amatoriale.”
“Grazie,” gli rispose Bat. “Sono d’accordo. Per me, essere un licantropo è più un hobby che una vocazione, mi capisci?”
“Per prima cosa, se il mio vice,” gli ricordò Maia. “E poi, in qualità di tuo capobranco insisto che tu debba fare sei turni a settimana in libreria. Ti fa bene. Magari leggerai pure un libro.”
Bat scosse il capo, rivolto verso Magnus. “Il potere l’ha fatta impazzire.”
“E poi,” continuò a dire Maia a Simon, ignorando completamente Bat, “abbiamo cominciato a tenere le riunioni dell’Alleanza in soffitta, il che è proprio carino. Mi piacerebbe ancora che tu venissi, una di queste volte. Non riesco a pensare a nessun altro Shadowhunter che sia stato prima un Nascosto. Cioè, in genere è il contrario.”
Simon aveva un’espressione un po’ addolorata. “Tecnicamente sono uno Shadowhunter solo da qualche giorno,” disse. “Magari quando ci avrò preso un po’ di più la mano.”
“Posso essere la prossima a fare un resoconto?” si inserì Isabelle, alzando una mano con fare eccitato. Simon parve sollevato.
“Certo,” le rispose, e Alec capì che Isabelle l’aveva appena salvato – che nell’atteggiamento gioviale di Simon c’era qualcosa che a lungo andare avrebbe potuto incrinarsi, e che se si fosse incrinato sarebbe poi andato in pezzi. Era un bene che Simon avesse Isabelle. Che si avessero entrambi a vicenda.
“Io,” annunciò Isabelle, “sto ospitando il mio ragazzo nella cameretta che occupo sin da bambina.”
“Oh, lo sapevamo già,” le ricordò Clary in tono leggero.
“Che strano. Non è strano?” La domanda di Isabelle era per Jace.
“Clary ha una camera tutta sua,” ribatté Jace.
“Sì, ma non ci dorme mai.”
Alec osservò Jace: dalla sua espressione si poteva capire che aveva prima elaborato una risposta terribile da darle, poi si era chiesto se fosse o meno il caso di condividerla, e infine aveva scelto di evitare. Era orgoglioso dei passi che il suo parabatai stava finalmente, anche se in modo ancora graduale, muovendo verso la maturità.
“Non ho la sensazione di stare in una cameretta,” butto lì Simon, entrando nel discorso. “Mi sembra di trovarmi in un dojo di arti marziali. Molto lussuoso, non fraintendetemi. Per essere un dojo, è davvero all’ultima moda.”
“Se gestissi tu l’Istituto, potresti avere una stanza più grande,” gli fece notare Alec con un sorriso.
“Okay, ora sono interessato,” dichiarò Jace.
“Isabelle, ci sono tipo trenta camere da letto nell’Istituto,” disse Clary. “Sceglietene una nuova e basta. Prendetene tre e usatele a rotazione.”
“Beh, noi…” esordì Simon, e poi si interruppe.
Alec guardò la sorella con curiosità.
“Stiamo cercando casa,” spiegò lei.
Alec raddrizzò la schiena. “Beh, ben per voi!” esclamò. Max applaudì. “Sì, facciamo un applauso a zia Isabelle che sta per prendere una casa tutta sua!”
“Uh, grazie,” gli rispose lei.
Magnus si sporse in avanti per dire: “È felice perché d’ora in poi non sarà più il figlio cattivo che ha lasciato la casa dei genitori.”
“No, no, sono io che comincio a essere la figlia cattiva che vive ancora con i genitori,” protestò Isabelle.
“E io comincio a essere il fidanzato scansafatiche che vive a scrocco a casa loro,” aggiunse Simon.
Max lasciò andare un improvviso pianto di infelicità.
“Lo so,” gli rispose Simon. “È davvero ingiusto.”
“Il piccolo ha un ottimo senso del giudizio,” commentò Magnus, mentre annuiva e sorseggiava con fare raffinato il suo champagne. Poi si protese verso il figlio. “Perché fai così il capriccioso? Puoi dire bapak? Significa papà. Di’ bapak, piccolino.” Max smise di lamentarsi per un istante, il tempo necessario per agitare le dita in direzione di Magnus, e poi ricominciò a piangere.
“Penso che abbia solo bisogno di fare una passeggiata,” disse Alec in tono di scuse, sollevandolo dal seggiolone. “Ci sono un sacco di cose di cui tener conto, e un mucchio di rumore.”
“Per un mirtillo come lui è tanto da gestire,” concordò con fare comprensivo Isabelle.
“Ehi,” ribatté Simon, offeso. “Max è un rarissimo mirtillo dalle grandi corna.”
“Ho notato,” gli rispose in tono leggero Jace, mentre Alec si alzava dalla sedia tenendo con grande attenzione il figlio tra le braccia, “che Max è in grado di lanciare un potente incantesimo che trasforma il cervello di chiunque si trovi a un raggio di due metri in del pudding. È davvero talentuoso.”
Clary lo prese scherzosamente in giro. “Non è una magia. Max è semplicemente il miglior neonato di sempre.” Rispose all’occhiata che le lanciò Jace dandogli un colpetto sul braccio. “Fatta eccezione per te, ovviamente, tesoro.”
“Non sono geloso del bambino,” protestò lui.
Magnus incrociò lo sguardo di Alec, che in risposta scrollò leggermente le spalle. Max non aveva ancora smesso di piangere; anzi, sembrava starsi preparando ad aumentare di molto il volume. “Vado a fare una passeggiata,” annunciò Alec, allontanandosi dal tavolo. Aveva esaminato il locale e determinato dove avrebbe potuto trovare – vista la folla all’ingresso e la quantità di persone sedute a mangiare – un po’ di quiete per tranquillizzare Max. Provò un forte senso di gratitudine nei confronti del ristorante per aver fornito ai genitori il più meraviglioso dei servizi: un bagno singolo.
In netto contrasto con i luminosi colori arcobaleno del resto del locale, il bagno era di un bianco immacolato, reso quasi accecante dal sole che filtrava attraverso le finestre satinate. Ampie e piatte lastre di pietra bianchissima li circondavano da ogni dove: pareti, soffitto, pavimento. L’unico dettaglio diverso in tutta la stanza erano le immagini riflesse nello specchio incorniciato, che si trovava proprio sopra al lavandino bianco e ai suoi rubinetti altrettanto bianchi: il volto di Alec Lightwood e, poco più in basso, il visino blu di suo figlio.
Alec aprì l’acqua per creare una sorta di rumore bianco, e poi cominciò a far rimbalzare con gran delicatezza il bambino tra le sue braccia, proprio come piaceva a lui. Non aveva previsto nulla di simile. E non intendeva il brunch, ovviamente; quello se l’era aspettato. Ma non aveva mai davvero pensato alla paternità. Se in passato gliel’avessero chiesto, probabilmente avrebbe scrollato le spalle e risposto che, sì, magari un giorno avrebbe avuto un figlio, ma la cosa non gli interessava particolarmente. Sapeva che Magnus non aveva mai cresciuto un bambino, e aveva sempre creduto che questo dicesse tutto sulla sua posizione sulla paternità – pur avendo avuto un mucchio di tempo per provarla, aveva deliberatamente scelto di non farlo. Ma ogni interrogativo sul se diventare o meno padre era sparito nell’esatto istante in cui Alec si era ritrovato a domandarsi se diventare o meno il padre di Max, e non lo sorprendeva che Magnus avesse risposto di sì con la sua stessa prontezza.
L’amore che provava per suo figlio continuava a sorprenderlo e sbalordirlo ogni singolo giorno. Adesso Max sembrava essersi calmato, e stava guardando il suo riflesso nello specchio, gli occhioni spalancati per la curiosità.
“Ecco papino,” gli disse Alec, abbassando il capo per parlare con dolcezza all’orecchio del bambino. Indicò lo specchio. “Vedi papino? E proprio sotto di lui, chi mai potrebbe essere? Ma è Max!”
Max lo guardò con fare dubbioso, osservandolo di sbieco.
“Sei troppo piccolo per capire che quello nello specchio sei tu,” chiarì Alec, “ma ti prometto che è così. Siamo io e te.”
“Pà,” rispose Max.
“Io, te e bapak,” mormorò tra sé Alec, col cuore che gli esplodeva d’amore.
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