Carissimi Shadowhunters,
con un evidente ritardo sulla nostra tabella di marcia, vi portiamo la traduzione del primo extra de “La Catena di Spine”: la lettera di Matthew per James (esclusiva dell’edizione Waterstones).
Ci teniamo a sottolineare che il contenuto della lettera è SPOILER DEL ROMANZO, quindi sconsigliamo a quanti non l’avessero letto/terminato di procedere.
Il secondo extra – sempre una lettera, ma da Jesse per Lucie – arriverà invece domenica. 😉
Buona lettura!
Caro James,
quando abbiamo discusso del mio viaggio e dei luoghi che desideravo visitare, forse ricorderai come io abbia accennato che – pur preferendo non vincolarmi a nessun programma o itinerario ben preciso – ci sono tre città in Europa che morirei piuttosto che perdermi: Vienna. Berlino. E, ovviamente, Venezia. I tuoi occhi si sono illuminati quando ho citato quest’ultima città, e dunque ti ho promesso che ti avrei mandato un messaggio dalla Città delle Maschere non appena vi fossi giunto.
Beh, sono qui da tre giorni, e desidero condividere con te le mie impressioni. Passeggiando per Venezia, si scopre ben presto che vi sono due diversi modi di viverla: quello umido e silenzioso, e quello umido e rumoroso. Io, com’è facilmente intuibile, me ne sono rimasto nelle parti più rumorose.
È ovviamente una città tanto amata dalle sirene, e in generale il Mondo Nascosto è popolato dai membri più putrescenti della Terra delle Fate. Ti chiederai, forse, se io con questo mi riferisca a quelli che abitano le acque, o agli esseri più malfamati. E la risposta, mio buon signore, è che è di entrambi che parlo. Mai prima d’ora avevo visto così tante sirene, e mai prima d’ora avevo visto macchinazioni così complesse. Nel giro di qualche attimo dopo il mio arrivo in una delle loro celebri taverne mezze sprofondate nell’acqua, mi sono ritrovato coinvolto in tre cospirazioni a scopo di assassinio, due ricatti e un complotto per sottrarre un enorme zaffiro di proprietà di un tizio di nome “Il Granchio”, chiamato così non solo in onore del crostaceo, ma anche perché ha l’aspetto di un gigantesco granchio parlante. Quali meraviglie mi ero perso, restandomene nella vecchia e fradicia Londra! Nessuno mi aveva mai minacciato di farmi saltare la testa con una chela, e oserei dire che la cosa mi ha fortificato il carattere.
Come in tutte le altre città che ho visitato, sono costretto a trascorrere metà del tempo evitando gli Shadowhunters del posto. I vari Istituti di zona si mostrano sempre molto accoglienti… e con “accoglienti” intendo che desiderano mandarmi a far pattuglia. Questo non è il mio anno di viaggio, però, e non sto visitando i luoghi più interessanti del mondo per pattugliarli – né per combattere i loro demoni, francamente.
(Certo, se dovessi imbattermi in un demone, lo eliminerò il più rapidamente possibile. Sono pur sempre nato e cresciuto Nephilim, e dunque ritengo che una certa dose di violenza limitata ai demoni faccia bene al sangue. A ogni modo, ho scoperto che non c’è bisogno di bighellonare per le strade di una città per imbattersi nei suoi pericoli. Ho invece adottato la strategia di recarmi direttamente nei luoghi più sgradevoli, dove i pericoli compaiono regolarmente senza che io debba mettermi troppo d’impegno.)
L’unica cosa più sgradevole di uno Shadowhunter che vuole lottare contro i demoni insieme a me, è uno Shadowhunter che vuole Condividere Qualcosa Con Me perché ho “accesso” al Console. Come se, quando parlo a mia madre, lei non desiderasse altro che le riporti qualche minuscola lagnanza di un burocrate di Torino. No, quello che vuole sapere è se sto mangiando a sufficienza (sì) e se sto indossando la sciarpa che mi ha fatto a maglia (no). Se gli Shadowhunters del Continente desiderano far politica, dovranno aspettare che passi di qui Charles. È questa la punizione che meritano per aver preso la vita con eccessiva serietà.
Passando a qualcosa di leggermente più serio – e lo è –, è davvero difficile condurre una vita dissoluta in giro per il mondo senza la lubrificazione sociale offerta dall’alcol. Immagino di esserne stato consapevole già prima di partire, ma la realtà può essere difficile da sopportare. Ovunque io vada, sono sommerso da alcolici, che mi ritrovo a dover rifiutare, spiegando di non essere lì per bere, ma solo il gioco d’azzardo e le perversioni. Persino nelle rare occasioni in cui proprio non posso fare a meno di visitare un Istituto, tirano inevitabilmente fuori la bottiglia più impolverata che hanno in cantina, e io sono costretto a correre a fermarli prima che possano aprirla per un ospite che non potrà apprezzarla.
Il problema è che nessuno sembra comprendere le ragioni per cui una persona potrebbe non voler bere. È davvero frustrante. Riconoscono tutti che si può bere fino all’eccesso e che per salute si possa dover mettere un freno, ma quando incontrano un individuo simile in carne e ossa si sentono confusi. E non è che possa propriamente ordinare dell’acqua nel genere di posti che visito. Di conseguenza, sono diventato un grande consumatore di caffè nero, che butto giù a secchiate, così che mi vedano scolarmi qualcosa. Sfortunatamente, ciò significa che adesso ho bisogno di berne numerose tazze grandi al giorno anche solo per reggermi in piedi. Suppongo che una dipendenza da caffè sia molto meno debilitante di una da alcol. Quantomeno, è meno dannoso per la salute – e con questo intendo che non mi è ancora capitato di ubriacarmi con un boccale di caffè e risvegliarmi sui freddi gradini di un battistero, avvolto nella Union Jack. Non posso dire altrettanto del mio periodo da bevitore di liquori. A ogni modo, sono soggetto a una certa dose di sguardi indagatori – il gentiluomo inglese che rifiuta l’alcol. Ho preso l’abitudine di raccontare a chi insiste particolarmente di essere vittima di una maledizione delle fate: se mai le mie labbra dovessero toccare alcol, mi trasformerò in un tasso. Te lo dico, aspetto con ansia il momento in cui, tra qualche mese, mi troverò in paesi dove la religione mondana proibisce gli alcolici. Anche se suppongo che a quel punto il consumo di caffè aumenterà e basta.
In una pagina precedente, però, ti stavo parlando di Venezia. Devi proprio dire a Pickles alla Devil che qui non hai bisogno di portarti una vasca dietro per restare a mollo, perché i bar per Nascosti solo perlopiù mezzi sprofondati nella laguna; ti siedi con la metà inferiore del corpo sott’acqua e la parte superiore a tavola. È la disposizione ideale per le sirene… e quella peggiore per chiunque altro. I licantropi passano metà del tempo ad andarsene a zonzo con l’aspetto di ratti affogati.
Oltre all’insistente popolarità dell’alcol e della dissoluzione, Venezia va anche pazza per le sedute spiritiche. (Da questo punto di vista somiglia a tutti gli altri posti che ho visitato; l’intero Continente sembra impazzito per i fantasmi, oggigiorno. Che carriera che avrebbe potuto avere Jesse, se fosse rimasto incorporeo!) Ieri mi sono imbattuto in Madame Dorothea mentre mi trovavo nella sala scarsamente illuminata di un bar malfamato, intento a giocare a Trappola. (Perché non c’è nulla che accompagni una partita di carte meglio di tragici avvertimenti e richieste da parte da un proprio familiare defunto, no?) Non è la prima volta che la vedo durante le mie peregrinazioni – proprio come me, sembra che sia in viaggio. La prima volta l’ho incontrata in un bar/caffè marrone a Rotterdam, e poi di nuovo in un cabaret galleggiante sul Reno, qualche settimana fa. Entrambe le volte ho faticato a distinguerla in mezzo alle nuvole di fumo del tabacco, ma ho avuto la possibilità di osservarla mentre rimproverava un vampiro per aver molto deluso la sua defunta madre, che si era aspettata che diventasse avvocato.
Giunti al nostro quarto incontro, io e Dorothea ci rivolgevamo ormai cenni col capo, da viaggiatore a viaggiatore. Mi ha chiesto direttamente se ci fosse qualcuno con cui desideravo parlare. Ho titubato, ma lei è stata insistente e, visto che mi aveva indicato in mezzo alla folla, le altre persone hanno preteso che si andasse fino in fondo. Ci ho ragionato su, alla ricerca di qualcuno i cui messaggi non rischiassero di rivelarsi dannosi per il mio buonumore. Alla fine, le ho chiesto se potessi parlare con Oscar Wilde. (L’uomo, ovviamente, non il cane; Oscar Wilde il cane mi aspetta lealmente alla pensione, come al solito.)
A questo punto, non dubbi sulla genuinità dei poteri posseduti da Dorothea non ne avevo, quindi – quando dalla sua bocca è fuoriuscita una voce burbera ma acculturata – ho capito subito che si trattava di lui. Logicamente, ho perso la testa e detto l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, ovvero che credevo che sarebbe suonato più irlandese. Una stupidaggine.
In tono alquanto beffardo, mi ha informato di aver deliberatamente messo da parte il suo accento mentre si trovava a Oxford, e che si augurava che non lo avessi richiamato mentre veleggiava al di là del tramonto per lamentarmi della sua dizione. (Sembra che glielo dica già a sufficienza il fantasma di sua sorella.) Gli ho risposto di no, ma che volevo che sapesse che il suo La Casa dei Melograni è stato per me un testo formativo, durante l’infanzia. Una terribile minimizzazione di quella che per me è l’importanza della sua scrittura, ma non riuscivo a pensare ad altro. Appena l’ho detto, mi sono sentito un idiota.
Con fare abbastanza acido, mi ha comunicato che non gli importano più critiche e recensioni, adesso che è morto. A questo punto, il linguaggio corporeo di Dorothea mi ha fatto capire che lo spirito si stava facendo irrequieto, e la folla parteggiava per lui. Con più educazione di quanta ne meritassi, ha suggerito che forse mi avrebbe fatto piacere ricevere un qualche consiglio, o almeno una perla di saggezza, che mi potesse fornire dalla sua parte del velo.
Scosso, ho esclamato: “In passato ho commesso innumerevoli errori, ho causato tanto dolore. Potrò mai rimediare? Li porterò per sempre con me, oppure è davvero possibile lasciarli nel passato?”
In risposta, la folla si è zittita. Non era questo il genere di cosa per cui erano venuti, ma perlomeno la trovavano più interessante di quando avevo detto a uno spetto strappato dal velo che mi piacevano le sue opere.
Oscar ha alzato lo sguardo su di me – non avevo dubbi che ci fosse lui, dietro gli occhi di Dorothea, e non dimenticherò tanto presto il brivido provato mentre mi squadrava. Quando infine ha parlato, la sua voce era gentile.
“Lo leggo dalla vostra cravatta,” ha detto, “che siete un uomo di mondo.”
Ho riconosciuto che la sua affermazione era corretta.
“E ve lo leggo dagli occhi,” ha aggiunto, “che siete destinato a vivere un’esistenza straordinaria. Che avete già cominciato a farlo, in effetti.”
“Sì,” gli ho risposto. “È così.”
“Vivere grandiosamente,” ha detto Oscar, come se stesse scegliendo con cura le proprie parole, “significa che le vostre gioie saranno grandi, e così anche i vostri dolori. Celebrerete grandiosamente e soffrirete allo stesso modo. Questo è l’accordo dietro a una simile esistenza.”
“Ne vale la pena?” gli ho chiesto.
Mi è parso che facesse spallucce. “Avete visto com’è andata a finire per me,” ha commentato. “Eppure non scambierei il mio fato per quello di nessun altro. Epitteto diceva che un uomo non è fatto di circostanze; semmai, sono le circostanze a rivelarlo per quello che è. È possibile che lo stia parafrasando,” ha aggiunto, e penso di averlo sentito borbottare qualcosa di simile a: “Ma guardami. Morto, e non la smetto di fare citazioni.”
Si è guardato intorno. “La prossima volta che mi contatterete,” ha detto, “vi prego di farlo in un luogo meno freddo e umido. Potrò anche non sentirlo sulla pelle, ma apprezzo comunque un’atmosfera decente.”
Poi è svanito.
Io te lo dico, James, non è che avessi grandi aspettative quando ho chiesto a Dorothea di contattarlo, ma ho lasciato quella taverna fredda e umida con un gran senso di ispirazione. Condivido queste parole con te poiché, sebbene tu, a differenza del sottoscritto, non sia il tipo da discendere nei posti freddi e umidi del mondo solo per una festa, vivi a tua volta un’esistenza straordinaria, e proprio come me sei destinato ad amare grandiosamente, soffrire grandiosamente e celebrare allo stesso modo. Voglio che tu sappia che secondo Oscar Wilde ne vale la pena. E io gli credo.
L’unico dolore di queste mie peregrinazioni, ovviamente, è quella fitta che avverto standoti distante. Ai parabatai separati manca sempre un mezzo di loro stessi, e io porto ovunque vada quell’assenza. Continuerò a cercare nuove esperienze, ma prometto di tornare da te in tempo e, si spera, più saggio.
Porta tutto il mio affetto a Cordelia, Lucie, Thomas e, sì, persino Alastair. Mi mancate tutti moltissimo, e spero che stiate tenendo Londra in forma per me, mentre non ci sono. Statemi bene, e che l’Angelo vi protegga.
Con affetto,
Matthew
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