Buonasera, Shadowhunters! Il TMI Tuesday di oggi ci ha regalato una sorpresa graditissima: una parte del prologo di Città del Fuoco Celeste! 🙂
L’abbiamo tradotto per voi, sperando di farvi piacere – buona lettura!
Istituto di Los Angeles, Dicembre 2007
Il giorno in cui i genitori di Emma Carstairs furono uccisi, il clima era perfetto.
D’altro canto, era quasi sempre così, a Los Angeles. Il padre e la madre di Emma la lasciarono all’Istituto – tra le colline dietro la Pacific Coast Hightway, che affacciava sul mare blu – una chiara mattina d’inverno. Il cielo era una distesa senza nubi che si estendeva dalle scogliere della Pacific Palisades alle spiagge di Point Dume.
La notte prima era giunto un rapporto in cui si parlava di attività demoniaca nella zona delle grotte sulla spiaggia di Leo Carrillo. Ai Carstairs era stato assegnato il compito di controllare. Più tardi Emma avrebbe ricordato sua madre che le sistemava dietro l’orecchio una ciocca di capelli mossa dal vento mentre si offriva di disegnare una Runa Antipaura al padre di Emma, e John Carstairs che rideva e ammetteva di non sapere come sentirsi nei confronti di queste rune nuove di zecca. Gli bastavano quelle nel Libro Grigio, e grazie tante.
In quel momento, però, Emma aveva trattato i genitori con impazienza; li aveva abbracciati alla svelta prima di scostarsi per salire i gradini dell’Istituto, lo zainetto che le rimbalzava tra le spalle mentre loro la salutavano dal cortile.
Emma amava andare ad allenarsi all’Istituto. Non solo ci abitava il suo migliore amico, Julian, ma entrando le sembrava sempre di volare nell’oceano. Era una massiccia struttura di legno e pietra alla fine di una strada di ghiaia che si snodava tra le colline. Ogni stanza, ogni piano, tutto dava su oceano e montagna e cielo, increspando distese di blu e verde e oro. Il sogno di Emma era arrampicarsi sul tetto con Julian – anche se fino a ora il progetto era stato sventato dai loro genitori – per scoprire se la vista arrivava fino al deserto a sud.
Le porte d’ingresso la conoscevano e si aprirono facilmente sotto il tocco familiare della sua mano. L’ingresso e i piani inferiori dell’Istituto erano pieni di Shadowhunters adulti che andavano avanti e indietro. Probabilmente per qualche incontro, immaginò Emma. Scorse il padre di Julian, Andrew Blackthorn, capo dell’Istituto, tra la folla. Dal momento che non le andava di farsi rallentare dai saluti, si precipitò nello spogliatoio al secondo piano, dove cambiò i suoi jeans e la t-shirt con dei vestiti per allenarsi – una maglia più grande del necessario, pantaloni morbidi di cotone e l’oggetto più importanti di tutti: la spada in spalla.
Cortana. Il suo nome significava semplicemente “spada corta”, ma per Emma corta non lo era di certo. Cortana era lunga quanto il suo avambraccio, fatta di metallo, e con un’iscrizione sulla lama che non mancava mai di farle correre un brivido lungo la schiena: Sono Cortana, dello stesso acciaio e collera di Joyeuse e Durindarda. Suo padre le aveva spiegato il significato a dieci anni, quando le aveva messo per la prima volta la spada in mano.
“Potrai utilizzarla per i tuoi allenamenti fino ai diciotto anni, quando diventerà tua,” aveva detto John Carstairs, sorridendole mentre le dita di Emma tracciavano le parole. “Capisci che intendo?”
Aveva scosso il capo. “Ferro”, capiva, ma non “collera”. “Collera” significava “rabbia”, qualcosa che suo padre le aveva sempre detto di controllare. Che cos’aveva a che fare con la lama?
“Sai dei Wayland,” aveva spiegato lui. “Erano famosi costruttori di armi, prima che le Sorelle di Ferro cominciassero a forgiare tutte le spade degli Shadowhunters. Wayland il Fabbro realizzò Excalibur e Joyeuse, le lame di Artù e Lancillotto, e Durindarda, spada dell’eroe Orlando. E sono stati loro a creare anche questa spada, forgiata con lo stesso acciaio. Tutto l’acciaio va temprato – sottoposto a una forte fonte di calore, quasi abbastanza forte da sciogliere o distruggere il metallo – perché diventi più forte.” Le aveva baciato la cima della testa. “I Carstairs hanno portato questa spada per generazioni. L’iscrizione ci ricorda che gli Shadowhunters sono le armi dell’Angelo. Tempraci nel fuoco, e diventeremo più forti. Quando soffriamo, sopravviviamo.”
Emma riusciva a stento a sopportare l’idea di dover aspettare altri sei anni per averne diciotto, l’età in cui avrebbe potuto cominciare a viaggiare per il mondo per combattere i demoni, essere temprata dal fuoco. Si legò la spada addosso e uscì dallo spogliatoio, pensando a come sarebbe stato. Nella sua immaginazione era sulla cima della scogliera della spiaggia di Point Dume e stava uccidendo una schiera di demoni Raum con Cortana. Ovviamente al suo fianco c’era Julian con una balestra, la sua arma preferita.
Julian era sempre presente, nella mente di Emma. Lo conosceva fin da quando era in grado di ricordare. I Blackthorn e i Carstairs erano sempre stati intimi, e Jules aveva solo un paio di mesi più di Emma; non era mai letteralmente vissuta in un mondo senza di lui. Aveva imparato a nuotare nell’oceano quando entrambi erano dei neonati. Avevano imparato insieme a camminare e correre. Era stata portata in braccio dai genitori di Julian e messa in punizione da suo fratello e sua sorella maggiori quando si comportava male.
E capitava spesso che si comportassero male. Tingere il paffuto gatto bianco dei Blackthorn – Oscar – di blu acceso era stata un’idea di Emma, quando avevano sette anni. Julian si era preso comunque la colpa; capitava spesso. Dopotutto, aveva fatto notare lui, Emma era solo una bambina mentre lui aveva sette anni; i genitori di Julian, poi, si sarebbero dimenticati di essere arrabbiati con lui molto prima di quanto l’avrebbero fatto i genitori di Emma.
Ripensò a quando la mamma di Julian era morta, proprio dopo la nascita di Tavvy, e a come gli aveva tenuto la mano mentre il corpo veniva bruciato nel canyon e il fumo si arrampicava verso il cielo. Ricordò che Julian aveva pianto, e di aver pensato che i ragazzi piangono in maniera davvero diversa dalle ragazze, con degli orribili singhiozzi stropicciati – come se dei ganci li stesso trascinando fuori. Forse per loro era peggio, perché non si prevede che i ragazzi piangano…
“Oof!” Emma barcollò all’indietro; si era così persa nei suoi pensieri da andare a sbattere contro il padre di Julian, un uomo alto con gli stessi capelli castani arruffati della maggior parte dei suoi figli. “Mi scusi, signor Blackthorn!”
Andrew Blackthorn ghignò. “Non ho mai visto nessuno più ansioso di andare a lezione, prima,” le urlò dietro mentre Emma correva per il corridoio.
La stanza d’allenamento era una delle preferite di Emma. Occupava quasi un intero piano, e sia il muro a est che quello a ovest erano fatti di vetro trasparente. Riuscivi a guardare il mare blu praticamente da qualsiasi angolazione. Si poteva osservare la curva della costa da nord a sud, l’acqua infinita del Pacifico che si allungava fino alle Hawaii.
Al centro del lucido pavimento di legno stava l’istruttore della famiglia Blackthorn, una donna comandante di nome Katerina, al momento impegnata a insegnare ai gemelli a lanciare i coltelli. Livvy stava compiacentemente seguendo le istruzioni, come sempre, mentre Ty era accigliato e faceva resistenza.
Julian, con addosso i suoi morbidi abiti d’allentamento, era steso sulla schiena vicino alla finestra a ovest e parlava con Mark, che teneva la testa ficcata in un libro e stava facendo del suo meglio per ignorare il giovane fratellastro.
“Non pensi che ‘Mark’ sia un nome strano per uno Shaowhunter?” disse Julian mentre Emma si avvicinava. “Voglio dire, pensaci. Confonde. ‘Marchiami, Mark.’”
Mark sollevò il capo biondo dal libro che stava leggendo e lanciò un’occhiata al fratello minore. Julian si stava pigramente roteando uno stilo tra le dita. Lo teneva come un pennello, cosa che Emma gli aveva sempre rimproverato. Lo stilo va tenuto come uno stilo, come un’estensione della tua mano; non come lo strumento di un artista.
Mark fece un sospiro teatrale. A sedici anni era abbastanza più grande di loro da trovare le azioni di Emma e Julian o irritanti o ridicole. “Se ti dà fastidio, allora chiamami col nome completo,” rispose.
“Mark Antony Backthorn?” Julian storse il naso. “Ci vuole troppo per pronunciarlo. E se venissimo attaccati da un demone? Non farei in tempo ad arrivare a metà che il demone ti avrebbe già ucciso.”
“In quest’esempio tu stai salvando la vita a me?” domandò Mark. “Non pensi di star correndo troppo, mezzacartuccia?”
“Potrebbe succedere.” Julian, a cui non era piaciuto essere chiamato mezzacartuccia, si alzò. I capelli gli si erano tutti arruffati ai lati della testa. Sua sorella maggiore, Helen, lo attaccava sempre col pettine, ma la cosa non sortiva alcun effetto. Julian aveva i capelli dei Blackthorn, come suo padre e la maggior parte dei suoi fratelli e sorelle – selvaggiamente ondulati, del colore della cioccolata fondente. Le somiglianze tra parenti avevano sempre affascinato Emma, che ricordava assai poco i suoi genitori, ammesso di non prendere in considerazione il fatto che suo padre era biondo.
Helen era ormai da mesi a Idris con la sua fidanzata, Aline; si erano scambiate gli anelli di famiglia ed erano “molto serie” l’una nei confronti dell’altra, secondo i genitori di Emma, il che stava essenzialmente a significare che si guardavano con aria svenevole. Emma aveva giurato a se stessa che, se mai si fosse innamorata, non sarebbe stato in maniera svenevole. Aveva compreso che si era sollevato un gran polverone perché Helen e Aline erano tutte e due ragazze, ma non le riusciva di capire il perché, e ai Blackthorn Aline sembrava piacere molto. Era una presenza calmante, ed evitava che Helen si irritasse.
Il fatto che ora Helen non ci fosse implicava che nessuno stesse tagliando i capelli di Julian, che nella luce della stanza avevano le ricce estremità dipinte d’oro. Le finestre lungo la parete orientale mostravano l’ombrosa sagoma delle montagne che separavano il mare dalla valle di San Fernando – colline secche, polverose, piene di canyon, cactus e rovi. A volte gli Shadowhunters facevano degli allenamenti all’aria aperta, ed Emma amava quei momenti; amava trovare sentieri nascosti e cascate segrete e lucertole sonnolente addormentate sulle rocce. Julian era bravissimo a convincerle a strisciargli nel palmo e dormire lì mentre col pollice accarezzava loro la testolina.
“Attenzione!”
Emma si chinò; il coltello con la punta di legno le volò sopra la testa e rimbalzò contro la finestra, colpendo la gamba di Mark, che gettò il libro da parte e si alzò in piedi, accigliato. Tecnicamente era lui il supervisore secondario, colui che avrebbe dovuto fare da spalla a Katerina, anche se preferiva la lettura all’insegnamento.
“Tiberius,” disse. “Non lanciarmi i coltelli.”
“Si è trattato di un incidente.” Livvy si posizionò tra il suo gemello e Mark. Tiberius era tanto scuro quanto Mark chiaro, l’unico tra i Blackthorn – oltre a Mark e Helen, che però, per via del loro sangue da Nascosti, non facevano testo – a non avere i capelli castani e gli occhi blu-verdi della famiglia. I riccioli di Ty erano neri, e gli occhi dello stesso grigio del ferro.
“No, non è vero,” la corresse Ty. “Miravo a te.”
Mark prese un respiro esageratamente profondo e si passò le dita tra i capelli, cosa che li lasciò ritti sulla sua testa. Mark aveva gli occhi dei Blackthorn, del colore del verderame, ma i suoi capelli, proprio come quelli di Helen, erano dello stesso pallido biondo biancastro di cui erano stati quelli della madre. Si diceva che la madre di Mark fosse una principessa della Corte Seelie; aveva avuto una relazione con Andrew Blackthorn da cui erano nati due bambini, che poi lei aveva abbandonato sui gradini d’ingresso dell’Istituto di Los Angeles la notte prima di sparire.
Il padre di Julian aveva preso i suoi figli metà fata e li aveva cresciuti come degli Shadowhunters. Il sangue dei Nephilim è dominate e, benché questo al Consiglio non piacesse, c’era l’obbligo di accettare nel Conclave i bambini per metà Nascosti, a patto che fossero in grado di sopportare le rune. Sia Helen che Mark avevano ricevuto il primo Marchio a dieci anni, e la loro pelle aveva mantenuto senza problemi la runa, anche se Emma aveva notato che per Mark era più doloroso disegnarsene una di quanto lo fosse per uno Shadowhunter ordinario. L’aveva visto sussultare, benché Mark cercasse di nasconderlo, mentre lo stilo si posava sulla sua pelle. Di recente le era capitato di notare più cose del solito di Mark – il modo in cui la forma del suo viso, strana e influenzata dal sangue di fata, era attraente, e l’ampiezza delle sue spalle sotto la maglietta. Non sapeva perché stesse notando questo roba, e non è che la cosa le piacesse. Le faceva venir voglia di scattare contro Mark, o nascondersi, spesso nello stesso momento.
“Stai fissando,” disse Julian, guardando Emma oltre le ginocchia della sua uniforme d’allenamento schizzata di vernice.
Emma tornò attenta. “Chi?”
“Mark – di nuovo.” Sembrava irritato.
“Sta’ zitto!” sibilò Emma a bassa voce, e gli tolse lo stilo. Julian se lo riprese, e ne seguì una rissa. Emma ridacchiò mentre rotolava lontana da Julian. Si erano allenati insieme per così tanto tempo che era in grado di prevedere che mossa avrebbe fatto ancor prima che lui la facesse. L’unico problema è che tendeva ad andarci troppo piano, con Julian. L’idea che qualcuno potesse ferirlo la rendeva furiosa, e questo, di quando in quando, includeva pure se stessa.
“È per le api nella tua stanza?” stava chiedendo Mark mentre si avvicinava a Tiberius. “Sai perché abbiamo dovuto sbarazzarcene!”
“Suppongo che tu l’abbia fatto per ostacolarmi,” rispose Ty. Era piccolo per la sua età – dieci anni –, ma aveva il vocabolario e la dizione di un ottantenne. Di solito non mentiva, generalmente perché non gli riusciva di comprendere perché avrebbe dovuto farlo. Non capiva perché certi suoi gesti avrebbero potuto irritare o infastidire le persone, e trovava la loro rabbia o sconcertante o spaventosa, a seconda dell’umore.
“Non si tratta di ostacolarti, Ty. È solo che non puoi tenere delle api nella tua stanza…”
“Le stavo studiando!” spiegò Ty; il suo viso pallido avvampò. “Era importante, ed erano mie amiche, e sapevo quel che stavo facendo.”
“Così come sapevi ciò che stavi facendo col serpente a sonagli, quella volta?” chiese Mark. “A volte ti togliamo le cose perché non vogliamo che tu ti faccia male; so che è difficile da capire, Ty, ma ti vogliamo bene.”
Ty lo guardò con aria assente. Conosceva il significato di “Ti voglio bene”, e sapeva che si trattava di una buona cosa, però non capiva come una frase del genere potesse essere una spiegazione per qualcosa.
Mark si chinò poggiando le mani sulle ginocchia, gli occhi all’altezza di quelli grigi di Ty. “Okay, questo è quello che faremo…”
“Ah!” Emma era riuscita a girare Julian sulla schiena e togliergli lo stilo. Lui rise, contorcendosi sotto di lei, finché Emma non gli bloccò le braccia contro il pavimento.
“Mi arrendo,” le disse. “Io mi…”
Stava ridendo col viso rivolto verso di lei, ed Emma fu colpita dall’improvvisa consapevolezza che stargli stesa sopra le dava una strana sensazione; e anche che la forma del viso di Jules era bella, proprio come quella di Mark. Rotonda e fanciullesca e incredibilmente familiare, ma quasi le riusciva di scorgere, nel suo viso attuale, il volto che avrebbe avuto, una volta diventato grande.
Il suono del campanello dell’Istituto echeggiò nella stanza. Era un rumore profondo, dolce, scampanellante, come quello delle campane delle chiese. Visto dall’esterno e da occhi mondani, l’Istituto sembrava le rovine di una vecchia missione spagnola. Benché ci fosse scritto PROPRIETÀ PRIVATA e NON ENTRARE un po’ ovunque, a volte le persone – di solito mondani con una lieve Vista – riuscivano comunque a raggiungere la porta d’ingresso.
Emma rotolò via da Julian e si ripulì i vestiti. Aveva smesso di ridere. Julian si portò a sedere, appoggiandosi sulle mani, gli occhi pieni di curiosità. “Va tutto bene?” le chiese.
“Ho sbattuto il gomito,” mentì lei, e spostò lo sguardo verso gli altri. Livvy stava permettendo a Katerina di mostrarle come tenere un coltello, mentre Ty scuoteva il capo in direzione di Mark. Ty. Era stata lei, alla nascita di Tiberius, a dargli quel soprannome, perché la Emma di diciotto mesi non riusciva a pronunciare “Tiberius” e quindi lo chiamava “Ty-Ty”. A volte si domandava se lui lo ricordasse. Era strano, ciò che Ty reputava importante e ciò che non gli interessava. Non potevi prevederlo.
“Emma?” Julian si sporse in avanti, e tutto intorno a lui sembrò esplodere. Ci fu un improvviso lampo di luce, e il mondo fuori dalle finestre divenne color oro bianco e rosso, come se l’Istituto avesse preso fuoco. Allo stesso tempo il pavimento sotto di loro oscillò come il ponte di una nave. Emma scivolò in avanti proprio mentre un urlo terribile saliva dal piano inferiore – un urlo orribile, irriconoscibile.
Livvy boccheggiò e raggiunse Ty; lo circondò con le braccia, come se cingendolo potesse proteggere il corpo del fratello col suo. Era una delle pochissime persone a poter toccare Ty senza che gli desse fastidio; lui se ne rimase lì in piedi, gli occhi spalancati, e con le mani strinse le maniche della maglia della sorella. Mark si era alzato già in piedi; Katerina era pallida dietro le coltri dei suoi capelli scuri. “Restate qui,” disse a Emma e Julian, tirando fuori la spada dal fodero che teneva in vita. “Controllate i gemelli. Mark, vieni con me.”
“No!” urlò Julian, saltando in piedi. “Mark…”
“Starò bene, Julian,” disse Mark con un sorriso rassicurante; aveva già un pugnale in ogni mano. Era rapido e veloce coi coltelli, e aveva una mira infallibile. “Resta con Emma,” disse, facendo un cenno verso entrambi, e poi sparì dietro Katerina, e la porta della stanza d’allenamento si chiuse dietro di loro.
Jules si avvicinò a Emma, fece scivolare una mano in quella di lei e la aiutò ad alzarsi; Emma avrebbe voluto fargli notare che stava bene e avrebbe potuto alzarsi da sola, ma lasciò perdere. Capiva il bisogno di sentire di star facendo qualcosa, qualsiasi cosa, per aiutare. Dal piano di sotto giunse all’improvviso un altro strillo; si sentì il rumore del vetro che si infrange. Emma si affrettò ad attraversare la stanza e avvicinarsi ai gemelli; erano ancora mortalmente immobili, come statuine. Livvy era cinerea; Ty le stringeva la maglietta in una presa mortale.
“Andrà tutto bene,” disse Julian, posando le mani tra le scarne scapole del fratello. “Di qualunque cosa si tratti…”
“Non sai cos’è,” lo interruppe Ty in tono poco amichevole. “Non dire che andrà tutto bene. Non lo sai.”
Ci fu un altro rumore. Peggio dell’urlo. Un ululato, selvaggio e crudele. Licantropi?, pensò Emma, perplessa – prima di allora, però, le era capitato di sentire il pianto di un lupo mannaro; questo era un verso molto più oscuro e crudele.
Livvy si rannicchiò contro le spalle di Ty. Il fratello sollevò il suo piccolo viso pallido, gli occhi che lasciavano Emma per fissarsi su Julian. “Se ci nascondiamo qui,” disse, “e qualunque cosa sia dovesse trovarci e fare del male a nostra sorella, allora sarà colpa tua.”
Il viso di Livvy era nascosto contro Ty; aveva parlato debolmente, ma Emma non dubitava che fosse serio. Per tutta la sua spaventosa intelligenza, la sua stranezza e indifferenza nei confronti degli altri, Tiberius era inseparabile dalla sua gemella. Se Livvy si ammalava, Ty dormiva ai piedi del suo letto; se si faceva un graffio, Tiberius andava nel panico, e valeva lo stesso per lei.
Emma scorse emozioni contrastanti rincorrersi sul viso di Julian – i suoi occhi la cercarono, e lei annuì impercettibilmente. L’idea di restare nella stanza d’addestramento e aspettare che la cosa che aveva emesso quel suono li trovasse la faceva sentire come se la pelle le si stesse staccando dalle ossa.
Julian attraversò la stanza e poi tornò con una balestra ricurva e due pugnali. “Devi lasciar andare Livvy, Ty,” disse, e dopo un attimo i gemelli si separavano. Jules allungò un pugnale a Livvy e offrì l’altro a Tiberius, che lo fissò come se fosse un oggetto alieno. “Ty,” fece Jules, lasciando cadere la mano. “Perché avevi delle api in camera? Cos’è che ti piace, di loro?”
Ty non rispose.
“Ti piace il modo in cui collaborano, no?” continuò Julian. “Beh, adesso dobbiamo essere noi a lavorare insieme. Dobbiamo raggiungere lo studio e chiamare il Conclave, okay? Una richiesta d’aiuto. Così manderanno qualcuno a proteggersi.”
Ty allungò una mano per prendere il pugnale, annuendo brevemente col capo. “È quello che avrei suggerito io, se Mark e Katerina mi avessero ascoltato.”
“L’avrebbe fatto,” disse Livvy. Aveva preso il pugnale con molta più sicurezza del fratello, e lo teneva come se sapesse ciò che stava facendo. “È a questo che stava pensando.”
“Adesso dobbiamo essere molto silenziosi,” spiegò Julian. “Voi due mi seguirete nello studio.” Alzò gli occhi; il suo sguardo incontrò quello di Emma. “Lei andrà a prendere Tavvy e Dru e ci vedremo lì. Okay?”
Il cuore di Emma calò in picchiata e precipitò come un uccello marino. Octavius – Tavvy, il bambino, di soli due anni. E Dru, di otto, troppo giovane per cominciare l’allenamento fisico. Certo che qualcuno sarebbe dovuto andare a prenderli. E gli occhi di Jules la stavano supplicando.
“Sì,” confermò. “È esattamente quello che farò.”
*
Cortana era legata alla schiena di Emma; tra le mani, invece, stringeva un coltello da lancio. Pensò che le riusciva di sentire il metallo pulsare nelle vene, simile a un battito cardiaco, mentre scivolata nel corridoio dell’Istituto, la schiena contro il muro. Di quando in quando il corridoio si apriva in finestre, e la vista del mare blu e delle montagne verdi e delle pacifiche nuvole bianche la stuzzicava. Pensò ai suoi genitori, da qualche parte in spiaggia, che non avevano idea di ciò che stava succedendo all’Istituto. Li avrebbe voluti lì con lei, e allo stesso tempo era felice che non ci fossero. Almeno erano in salvo.
Si trovava adesso nella parte dell’Istituto che più le era familiare: gli alloggi delle famiglie. Superò la camera da letto vuota di Helen, con i vestiti imballati e il copriletto pieno di polvere. Poi oltrepassò la stanza di Julian, familiare per i milioni di pigiama party che avevano fatto, e quella di Mark, con la porta saldamente chiusa. La stanza dopo era quella del signor Blackthorn, e proprio accanto stava la nursery. Emma prese un respiro profondo e aprì la porta.
Lo spettacolo che incontrò entrando nella stanza dipinta di blu le fece sbarrare gli occhi. Tavvy era nella culla, le piccole mani strette intorno alle sbarre, le guance di un rosso brillante per le urla. Drusilla era davanti al lettino, una spada – solo l’Angelo poteva sapere dove l’avesse trovata – tra le mani; la teneva puntata dritta contro Emma. Le mani di Dru tremavano abbastanza da far danzare la lama tutt’intorno; aveva i capelli legati in due trecce ai lati del viso paffuto, ma lo sguardo nei suoi occhi da Blackthorn erano pieno di una ferrea determinazione: non provare a toccare mio fratello.
“Dru,” la chiamò Emma il più dolcemente possibile. “Dru, sono io. Julian mi ha mandato a prendermi.”
Dru lasciò fragorosamente cadere la spada e scoppiò in lacrime. Emma la superò e prese il bambino dalla culla con il braccio libero, poggiandolo sull’anca. Tavvy era piccolo, per la sua età, ma pesava comunque un buon undici chili; sussultò quando il piccolo le strattonò i capelli.
“Memma,” disse lui.
“Sh.” Gli baciò la cima della testa. Profumava di talco per neonati e lacrime. “Dru, afferra la mia cintura, okay? Andiamo nello studio. Lì saremo al sicuro.”
Dru strinse la cintura per le armi di Emma con le sue manine; aveva già smesso di piangere. Gli Shadowhunters non piangono mai tanto, neanche quando hanno otto anni.
Emma fece strada attraverso il corridoio. I suoni dal piano di sotto, adesso, erano ancora peggiori. Le urla continuavano, così come l’ululato profondo, il suono del vetro infranto e del legno strappato. Emma si trascinò lentamente in avanti, stringendo Tavvy, mormorandogli di continuo che sarebbe andato tutto bene, che lui sarebbe stato bene. E c’erano ancora altre finestre, e il sole strisciava ferocemente attraverso il vetro, quasi accecandola.
Era cieca, per il panico e il sole; non c’era altra spiegazione per giustificare perché subito dopo avesse preso la svolta sbagliata. Svoltò e, anziché finire nel corridoio che si era aspettata, si ritrovò in cima all’ampia scalinata che conduceva verso l’atrio e le grandi porte doppie che facevano da ingresso per l’Istituto.
L’atrio era pieno di Shadowhunters. Alcuni, che le risultavano familiari perché Nephilim del Conclave di Los Angeles, erano in nero; altri vestiti di rosso. C’erano fila di statue, ora rovesciate, sul pavimento, ridotte a frammenti e polvere. La vetrata che dava sul mare era stata fracassata, e ovunque c’erano vetri rotti e sangue.
Emma sentì lo stomaco rimescolarsi. Nel mezzo dell’atrio stava una figura alta vestita di rosso scarlatto. Aveva i capelli biondo pallido, quasi bianchi, e il suo volto sembrava il viso di marmo scolpito di Raziel; senza alcun genere di pietà, però. Aveva gli occhi nero carbone, e tra le dita di una mano stringeva una spada decorata con un motivo di stelle; nell’altra, una coppa fatta di adamas scintillante.
Vedere la coppa fece scattare qualcosa nel cervello di Emma. Agli adulti non piaceva parlare di politica davanti agli Shadowhunters più giovani, ma Emma sapeva che il figlio di Valentine Morgenstern aveva assunto un nuovo nome e giurato vendetta contro il Conclave. Che aveva creato una coppa opposta a quella dell’Angelo, che trasformava gli Shadowhunters in creature malvagie, demoniache. Aveva sentito il signor Blackthorn chiamarli gli Inoscuriti; aveva detto che avrebbe preferito morire che diventare uno di loro.
Era lui, quindi. Jonathan Morgenstern, che tutti chiamavano Sebastian – un essere uscito dal mondo delle fiabe, una storia raccontata per spaventare i bambini che adesso aveva preso vita. Il figlio di Valentine.
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