Come vi abbiamo anticipato ieri nel mostrarvi la cover, USA Today ha condiviso un enorme estratto da The Iron Trial, primo romanzo della serie middle-grade che Cassie sta scrivendo insieme a Holly Black.
Prima di lasciarvi alla nostra traduzione del PROLOGO e del PRIMO CAPITOLO del libro (sì, con “estratto” si intendeva questo!), qualche informazione sul progetto. 🙂
La Magisterium series parla di Callum “Call” Hunt: ogni libro (in totale saranno cinque) tratterà di un diverso anno di vita del ragazzo, partendo dai dodici per finire con i diciassette anni. Il primo romanzo – The Iron Trial, appunto – uscirà il 9 settembre di quest’anno in America; la pubblicazione italiana è prevista entro la fine del 2014.
Dal momento che non desideriamo rovinarvi la sorpresa, del libro non diciamo altro; nel caso doveste essere interessati a ulteriori news, potete guardare QUI, QUI o QUI.
Sin da quando ci siamo incontrate, dieci anni fa – alla prima signing in assoluto di Holly –, noi due non siamo state solo buone amiche, ma anche compari di critica e collaboratrici. Siamo entrambe cresciute amando il fantasy e, durante la scorsa decade, questo genere ha vissuto il suo rinascimento. Il che significa che i lettori hanno familiarità con i luoghi comuni del fantasy. Quando aprono un romanzo fantasy o vanno a vedere un film di questo genere, si aspettano un eroe prescelto, il cui nobile e solitario destino è sconfiggere il cattivo, qualunque sacrificio personale questo gli richieda.
Volevamo raccontare la storia di personaggio che ha tutti i segni dell’eroe: tragedia e segreto nel suo passato, poteri magici. Volevamo che le persone credessero di sapere che tipo di storia si trovavano davanti. E poi volevamo sorprenderli…
Grazie mille per essere uno dei primi lettori di The Iron Trial, primo romanzo nella Magisterium series.
DA LONTANO, l’uomo che si affannava lungo la facciata bianca del ghiacciaio sarebbe potuto sembrare una formica che struscia lentamente lungo il lato di un piatto. La baraccopoli di La Rinconada era una raccolta di macchie sparpagliate qui e là ben al di sotto di lui; il vento cresceva con l’aumentare dell’altezza, soffiandogli raffiche polverose di neve in viso e congelandogli gli umidi riccioli scuri. Sebbene portasse degli occhiali d’ambra, l’uomo trasalì per la luminosità del riflesso del tramonto.
Comunque, l’uomo continuava a non avere timore di cadere, anche se non stava utilizzando alcuna corda o linea d’assicurazione, ma solo ramponi e una singola piccozza. Il suo nome era Alastair Hunt, ed era un mago. Arrampicandosi, modellava e plasmava il ghiaccio sotto le sue dita. Così, mentre risaliva il ghiacciaio, lungo la facciata comparivano maniglie e appigli per i piedi.
Per quando raggiunse la grotta posta a metà del ghiacciaio, Alastair era per parzialmente congelato e completamente esausto per aver piegato al suo volere il peggiore degli elementi. Utilizzare la sua magia per un lasso di tempo così lungo l’aveva infiacchito, ma non aveva avuto il coraggio di rallentare.
La grotta si aprì come una bocca lungo il fianco della montagna, invisibile sia dall’alto che dal basso. Si tirò sul bordo e prese un profondo respiro irregolare, maledicendosi per non essere arrivato lì prima, per essersi lasciato ingannare. A La Rinconada, le persone avevano visto l’esplosione e si erano chieste a bassa voce cosa significasse, quel fuoco dentro il ghiaccio.
Fuoco dentro il ghiaccio. Doveva trattarsi di un segnale di soccorso… o di un attacco. La caverna era piena di maghi troppo anziati per combattere, o troppo giovani; dei malati e dei feriti, delle madri di bambini troppo piccoli per poter essere lasciati soli – come la moglie e il figlio di Alastair. Erano stati nascosti lì, in uno dei luoghi più remoti sulla Terra.
Master Rufus aveva ribadito più volte che altrimenti sarebbero stati troppo vulnerabili, avrebbero potuto poi creare problemi in seguito, e Alastair si era fidato di lui. Poi, quando il Nemico della Morte non si era presentato sul campo di combattimento per affrontare il campione dei maghi, quella ragazza Makar in cui avevano riposto tutte le loro speranze, Alastair aveva compreso il suo errore. Si era precipitato a La Riconada il più velocemente possibile, volando per la maggior parte del tragitto sulla schiena di un elementale dell’aria. Da lì aveva proceduto a piedi, dal momento che il controllo del Nemico sugli elementali era imprevedibile e forte. Più saliva, più aveva paura.
Fa’ che stiano bene, si disse mentre entrava nella grotta. Per favore, fa’ che stiano bene.
Avrebbe dovuto sentire il suono dei lamenti dei bambini. Il basso brusio delle conversazioni nervose e il ronzio della magia soggiogata. Invece si udiva solo l’ululato del vento che aleggiava sul picco desolato della montagna. Le mura della grotta erano fatte di ghiaccio bianco, screziate di rosso e marrone lì dove era schizzato il sangue e si era diviso in chiazze. Alastair si tolse gli occhiali e li lasciò cadere per terra, spingendosi lungo il corridoio, attingendo ai rimasugli del suo potere per reggersi in piedi.
Le pareti emanavano un inquietante bagliore. Lontano dall’entrata, quella era l’unica luce a cui Alastair poteva affidarsi, il che forse potrebbe spiegare perché inciampò nel primo corpo e quasi cadde sulle ginocchia. Si allontanò con un grido, per poi trasalire quando l’eco tornò da lui. La maga morta era stata bruciata al punto da essere irriconoscibile, ma al polso portava un bracciale di pelle con un grosso pezzo di rame martellato che la identificava come studentessa del secondo anno del Magisterium. Non poteva avere più di tredici anni.
Dovresti esserti abituato alla morte, ormai, disse Alastair a se stesso. Erano in guerra contro il Nemico da una decade che a volte pareva un secolo. All’inizio era parso tutto impossibile – un giovane, per quanto appartenente ai Makaris, che pensava di poter vincere la morte. Ma a mano a mano che il Nemico accresceva il suo potere, e il suo esercito guidato dal Chaos si ingrandiva, la minaccia si era fatta inevitabilmente terribile… e si era conclusa con questo massacro dei più indifesi e innocenti.
Alastair si alzò in piedi e proseguì all’interno della caverna, cercando con disperazione un viso sopra ogni altro. Si aprì la strada attraverso i corpi di anziani Master del Magisterium e del Collegium, di figli di amici e conoscenti, e dei maghi che erano stati feriti nelle precedenti battaglie. Tra loro giacevano anche i cadaveri spezzati dei soldati guidati dal Chaos, i loro occhi vorticanti ormai offuscati per sempre. Anche se i maghi erano stati impreparati, dovevano aver ingaggiato davvero una bella lotta per aver ucciso così tante forze del Nemico. L’orrore bloccò lo stomaco di Alastair e le dita delle mani e dei piedi gli si intorpidirono, mentre barcollava lì in mezzo a tutto… finché non la vide.
Sarah.
La trovò che giaceva sulla schiena, contro una torbida parete di ghiaccio. Aveva gli occhi aperti, fissi sul niente. Le sue iridi erano fosche, e le ciglia si erano attaccate tra loro per il ghiaccio. Mentre si abbassava, Alastair le sfiorò la guancia gelida con le dita. Prese un brusco respiro, il suo singhiozzo che tagliava l’aria.
Ma dov’era il loro bambino? Dov’era Callum?
Sarah stringeva un pugnale nella mano destra. Era stata eccellente nell’arte di plasmare i materiali che venivano evocati dalle profondità del suolo. Il pugnale l’aveva costruito da sé durante il loro ultimo anno al Magisterium. Quella lama aveva un nome: Semiramis. Alastair sapeva quanto Sarah aveva tenuto a quel pugnale. Se devo morire, voglio che succeda mentre stringo la mia arma in pugno, gli aveva sempre ripetuto. Ma Alastair aveva desiderato che lei non dovesse morire mai.
Le sue dita le accarezzarono la guancia fredda.
Sentì un pianto che lo spinse a voltarsi. In quella caverna così piena di morte e silenzio, un pianto.
Un bambino.
Si voltò, cercando freneticamente la fonte di quel flebile lamento. Sembrava giungere da un punto vicino all’ingresso della grotta. Alastair ripercorse rapidamente la strada da cui era venuto, inciampando nei corpi; alcuni erano rigidi come statue – finché, improvvisamente, un altro volto familiare lo fissò dalla carneficina.
Declan. Il fratello di Sarah, ferito nell’ultimo scontro. Sembrava essere stato soffocato a morte da un uso particolarmente crudele delle magia dell’aria; aveva il volto blu, gli occhi ruotati e pieni di vasi sanguigni rotti. Una delle sue braccia era piegata di lato, e proprio lì sotto, protetto dal pavimento della caverna ghiacciata da una coperta intrecciata, stava il figlio di Alastair. Mentre lui lo guardava con stupore, il neonato aprì la bocca e lanciò un altro mugolio sottile.
Come in stato di trance, tremando per il sollievo, Alastair si chinò e prese in braccio il suo bambino. Il piccolo guardò verso di lui con i suoi grandi occhi grigi e spalancò le labbra per urlare di nuovo. Mentre la coperta gli cadeva di dosso, Alastair riuscì a vedere il perché. La gamba sinistra del neonato era piegata in maniera terribile, simile al ramo spezzato di un albero.
Alastair provò a richiamare a sé tutta la magia della terra che poteva per guarire il bambino, ma ebbe appena la forza sufficiente per togliergli un po’ di dolore. Col cuore che batteva forte, avvolse nuovamente suo figlio nella coperta il più stretto possibile e tornò nel punto della grotta in cui giaceva Sarah. Tenendo il bambino come se lei potesse guardarlo, si inginocchiò accanto al suo corpo.
“Sarah,” sussurrò con le lacrime che gli bloccavano la gola. “Gli racconterò di come sei morta per proteggerlo. Lo crescerò ricordandogli quanto eri coraggiosa.”
Gli occhi di lei lo fissarono, vuoti e pallidi. Alastair si strinse maggiormente il figlio al fianco, poi si allungò per prendere Semiramis dalle mani della donna. Mentre lo faceva, vide che il ghiaccio vicino alla lama era marchiato in maniera strana, come se Sarah, morendo, ci avesse affondato le unghie dentro. Ma i marchi erano troppo studiati perché fosse così. Avvicinandosi, si rese conto che quei segni erano parole – parole che sua moglie aveva inciso nella grotta gelata con il suo ultimo residuo di forza.
Mentre le leggeva, ad Alastair parve di ricevere tre duri colpi allo stomaco.
UCCIDI IL BAMBINO
CALLUM HUNT ERA una leggenda, nella sua piccola cittadina della Carolina del Nord, e non per buone ragioni. Famoso per rispondere ai supplenti con osservazioni sarcastiche, era anche specializzato nell’infastidire i presidi, gli addetti alla sorveglianza dei corridoi e le signore del pranzo. Persino il consulente, che si era sempre detto intenzionato ad aiutarlo (la madre di quel povero bambino era morta, dopotutto), l’aveva liquidato con la speranza di non doverlo mai più rivedere nel suo ufficio. Non c’era niente di più imbarazzante di non saper che risposta elegante dare a un dodicenne arrabbiato.
Il perenne cipiglio, i disordinati capelli neri e i sospettosi occhi grigi di Call erano ben conosciuti nel suo quartiere. Gli piaceva fare skateboard, anche se c’era voluto un po’ perché imparasse; parecchie auto portavano ancora delle ammaccature causate dai suoi primi tentativi. Lo si vedeva spesso appostato fuori dalle vetrine del negozio di fumetti, della sala giochi e del negozio di videogame. Persino il sindaco lo conosceva. Sarebbe stato difficile dimenticarlo dopo che, il giorno della May Day Parade, aveva furtivamente scavalcato il commesso del negozio di animali e preso una talpa senza pelo destinata a sfamare un boa constrictor. Poi però si era sentito dispiaciuto per quella creatura cieca e rugosa che non sembrava capace di badare a se stessa – e, in nome dell’equità, aveva deciso di liberare anche quello che sarebbe dovuto essere il successivo pasto sul menù del serpente, i topolini bianchi.
Mai però si era aspettato che i topi sarebbero corsi sotto ai piedi dei partecipanti alla parata; ma, dopotutto, i topi non sono molto intelligenti. Non si era neanche aspettato che gli spettatori sarebbero scappati per paura dei topi; ma del resto neanche le persone sono troppo intelligenti, come gli aveva poi spiegato il padre dopo che tutto quel disastro era terminato. Non era stata colpa di Call se la sfilata era stata rovinata, ma tutti – specialmente il sindaco – si comportavano come se fosse così. E come se non bastasse, suo padre l’aveva costretto a restituire la talpa senza pelo.
Il padre di Call non approvava il furto.
Per quanto lo riguardava, era un male quasi grande quanto la magia.
Callum si agitava sulla sedia rigida davanti all’ufficio del preside, chiedendosi se il giorno dopo sarebbe tornato a scuola e, in caso contrario, se qualcuno avrebbe sentito la sua mancanza. Ripensò ancora e ancora a come si supponeva che dovesse rovinare il test del mago – idealmente, nella maniera più spettacolare possibile. Suo padre gli aveva elencato più volte tutte le opzioni possibili per fallire: svuota del tutto la tua mente. O concentrati su qualcosa che è il contrario di ciò che desiderano quei mostri. O focalizzati sul test di un’altra persona anziché sul tuo. Call si strofinò la gamba, che quella mattina, durante le lezioni, era stata rigida e dolorante; a volte faceva così. Più alto diventava, più sembrava dolergli. Almeno sarebbe stato semplice fallire nella parte fisica del test del mago – qualsiasi cosa fosse.
Poteva sentire, proprio in fondo al corridoio, gli altri bambini in palestra, le loro scarpe da ginnastica che squittivano contro il legno lucido del pavimento, il loro tono che si alzava mentre si gridavano insulti a vicenda. Pensò tra sé che avrebbe voluto poter giocare almeno una volta. Forse non era il più rapido tra i bambini, o abile a restare in equilibrio, ma era pieno di energia irrequieta. Era stato esentato dal fare educazione fisica per via della sua gamba; persino alle elementari, ogni volta che aveva cercato di correre o saltare o arrampicarsi durante l’intervallo era sempre arrivato uno dei supervisori per ricordargli che doveva rallentare o si sarebbe fatto male. Se avesse continuato in quel modo, l’avrebbero obbligato a rientrare nell’edificio.
Come se un paio di lividi fossero la cosa più terribile che potrebbe succedere a qualcuno. Come se la sua gamba potesse peggiorare.
Call sospirò e guardò fuori dalle porte di vetro della scuola, lì dove sarebbe presto comparso suo padre. Possedeva quel genere di auto che non puoi non vedere, una Rolls-Royce Phantom del 1937 color argento brillante. Nessun’altro aveva niente del genere, in città. Il papà di Call possedeva un negozio di antiquariato a Main Street chiamato Now and Again; non c’era niente che gli piacesse più di prendere vecchie cose rotte e farle sembrare nuove e splendenti. Per far funzionare la vettura, doveva armeggiare coi fili quasi ogni weekend. E chiedeva continuamente a Call di lavarla e di metterci qualche genere di strana cera vecchia per auto, così da non farla arrugginire.
La Rolls-Royce funzionata alla perfezione… a differenza di Call. Si guardò le scarpe da ginnastica mentre picchiettava i piedi contro il pavimento. Quando indossava i jeans, come in quel momento, era difficile notare che la sua gamba aveva qualche problema; ma la cosa diventava palese nell’esatto istante in cui lo si vedeva alzarsi e camminare. Aveva subito interventi su interventi sin dall’infanzia, e ogni genere di terapia fisica, ma niente aveva aiutato per davvero. Camminava ancora zoppicando, come se stesse cercando di incedere su una barca che oscilla di qua e di là.
Quando era più piccolo a volte aveva fatto finta di essere un pirata, o persino un marinaio coraggioso con una gamba di legno, che si lasciava sprofondare insieme alla sua barca dopo una lunga lotta coi cannoni. Aveva giocato ai pirati e ai ninja, ai cowboy e agli esploratori alieni.
Ma nessuno di quei giochi aveva mai coinvolto la magia.
Mai.
Sentì il rombo di un motore e cominciò ad alzarsi – per poi tornarsene a sedere sulla panchina, irritato. Non era l’auto di suo padre; si trattava solo di una banale Toyota rossa. Un attimo più tardi Kylie Myles, una studentessa del suo anno, lo superò di corsa, accompagnata da un’insegnante.
“Buona fortuna con i tuoi provini di balletto,” le disse la signorina Kemal prima di voltarsi per tornare in classe.
“Giusto, grazie,” rispose Kylie; poi osservò Call in maniera strana, come se lo stesse valutando. Kylie non guardava mai Call. Quello era uno dei suoi caratteri distintivi, insieme ai capelli biondo brillante e lo zainetto con gli unicorni. Quando erano in corridoio insieme, lo sguardo di Kylie oltrepassava Call come se lui fosse invisibile.
Con un cenno di saluto persino più strano e sorprendente, la ragazza se ne andò verso la Toyota. Call riusciva a vedere i genitori di Kylie; erano seduti davanti, e avevano l’aria ansiosa.
Non poteva stare andando anche lei dove doveva andare lui, vero? Non poteva star andando alla Prova del Ferro. Ma se invece era così…
Call si alzò in piedi. Se ci stava andando per davvero, qualcuno doveva avvertirla.
Molti ragazzi credono che riguardi l’essere speciali, gli aveva detto suo padre con evidente disgusto. E lo pensano anche i loro genitori. Specialmente nelle famiglie dove le abilità magiche risalgono a numerose generazioni precedenti. E alcune famiglie dove la magia si stava estinguendo vedono la nascita di un bambino magico come una speranza per tornare al potere. Ma è il bambino senza genitori magici quello per cui dovresti provare più compassione. Sono loro quelli che pensano che sarà come in un film.
Ma non è affatto come in un film.
Proprio in quel momento il papà di Call si accostò al marciapiede della scuola con uno stridio di freni, di fatto impedendogli di vedere Kylie. Call zoppicò verso la porta e poi uscì fuori, ma per quando riuscì ad arrivare alla Rolls-Royce, la Toyota dei Myles stava già svoltando l’angolo, lontano dalla sua vista.
Questo era tutto l’avvertimento che le aveva dato.
“Call.” Suo padre era uscito dall’auto e stava poggiato contro la portiera dal lato del passeggero. Il suo ciuffo di capelli neri – gli stessi aggrovigliati capelli scuri che aveva anche Call – si stava ingrigendo nei lati e, benché facesse caldo, indossava una giacca di tweed con delle toppe di pelle all’altezza dei gomiti. A Call capitava spesso di pensare che suo padre assomigliava allo Sherlock Holmes dei vecchi spettacoli della BBC; a volte le persone restavano sorprese scoprendo che non parlava con accento inglese. “Sei pronto?”
Call fece spallucce. Come potresti mai essere pronto per qualcosa che potenzialmente potrebbe rovinare la tua intera vita, se dovessi fare qualcosa di sbagliato? O di corretto, in quel caso. “Penso di sì.”
Suo padre aprì la portiera. “Bene. Sali in macchina.”
L’interno dell’auto era immacolato quanto l’esterno. Call restò sorpreso nel trovare il suo vecchio paio di stampelle gettato sui sedili posteriori. Non le usava da anni, da quando era caduto da una struttura per arrampicarsi e si era storto una caviglia – la caviglia della sua gamba buona. Mentre suo padre entrava in auto e avviava il motore, Call indicò le stampelle e chiese, “Perché sono qui?”
“Peggiore sarà il tuo aspetto, più possibilità ci saranno che ti respingano,” rispose suo padre, cupo, guardando dietro di sé mentre usciva fuori dal parcheggio.
“Non è barare?” obiettò Call.
“Call, le persone barano per vincere. Non puoi barare per perdere.”
Call roteò gli occhi, lasciando che suo padre credesse ciò che preferiva. L’unica sua certezza era che non avrebbe utilizzato quelle stampelle, se non ne avesse avuto bisogno. Non voleva litigare per questo, però, non quel giorno, non quando suo padre aveva già bruciato un toast – cosa per niente da lui –, a colazione, ed era scattato contro Call quando lui si era lamentato di dover andare a scuola solo per essere portato via di lì qualche ora più tardi.
In quel momento suo padre stava accovacciato sul volante, la mascella serrata e le dita della mano destra strette con forza intorno alla leva del cambio, variando le marce con inefficace violenza.
Call provò a concentrare il suo sguardo sugli alberi fuori dal finestrino, sulle loro foglie che stavano appena cominciando a ingiallirsi, e cercò di ricordare tutto ciò che sapeva sul Magisterium. La prima volta che suo padre aveva detto qualcosa riguardo i Master e il modo in cui sceglievano gli apprendisti, aveva fatto sedere Call su una delle grosse sedie in pelle del suo studio. Call aveva avuto un gomito fasciato e il labbro rotto per colpa di una lotta a scuola, quel giorno, quindi non era dell’umore giusto per ascoltare il genitore. Ma l’espressione di suo padre era stata così seria che Call aveva avuto paura. E anche il tono di suo padre era stato serio, come se stesse per dire a Call che aveva una terribile malattia. Era venuto fuori che la malattia in questione era del potenziale magico.
Call si era schiacciato contro la sedia, mentre suo padre parlava. Era abituato a venir preso di mira; gli altri bambini tendevano a pensare che la sua gamba lo rendesse un bersaglio facile. Di solito era in grado di convincerli del contrario. Quella volta, però, un gruppo di ragazzi più grandi l’aveva messo alle strette nei pressi della tettoia che stava vicino alla struttura per arrampicate per bambini mentre tornava a casa da scuola. L’avevano spinto qui e là e insultato nei soliti modi. L’esperienza aveva insegnato a Callum che la maggior parte delle persone si tirava indietro, quando lui cercava di attaccarli, quindi aveva tentato di colpire il tizio più alto. Quello era stato il suo primo errore. In breve l’avevano buttato a terra, con uno che gli stava seduto sulle ginocchia mentre un altro lo prendeva a pugni in vita, cercando di costringerlo a scusarsi e ammettere di essere un pagliaccio sfigato.
“Scusatemi se sono così meraviglioso, perdenti,” aveva detto invece Call proprio prima di svenire.
Doveva essere rimasto in stato d’incoscienza per un minuto, perché quando aveva riaperto gli occhi aveva visto solo le sagome distanti dei ragazzi mentre si allontanavano. Stavano scappando. Call non era riuscito a credere che la sua replica avesse funzionato così bene.
“Giusto,” aveva detto, sedendosi. “Fareste meglio a scappare!”
A quel punto si era guardato intorno e aveva notato che nel calcestruzzo del parco giochi si era aperta una crepa. Una lunga fessura che correva dalle altalene fino al muro del capannone, dividendo la piccola costruzione a metà.
Call era proprio nel centro di quello che pareva essere stato un piccolo terremoto.
Gli era sembrata la cosa più entusiasmante mai successa. Suo padre non si era detto d’accordo.
“La magia scorre nella nostra famiglia,” gli aveva detto. “Benché non per forza debbano averla tutti, pare che tu ce l’abbia. Sfortunatamente. Mi dispiace, Call.”
“Quindi il terreno diviso in due – l’avrei fatto io?” Call si era sentito diviso a metà tra una gioia vertiginosa e un orrore estremo, ma alla fine aveva avuto la meglio la felicità. Gli riusciva di sentire gli angoli della sua bocca sollevarsi, così aveva tentato di bloccarli. “È questo quel che fanno i maghi?”
“I maghi attingono la loro forza dagli elementi – la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco e persino il vuoto, ovvero la magia più potente e terribile di tutti, quella del chaos. Possono usare la magia per varie cose, incluso il dividere a metà la terra come hai fatto tu.” Suo padre aveva annuito tra sé. “All’inizio, quando la magia si presenta per la prima volta, è davvero intensa. Potere puro… ma l’equilibrio è ciò che tempra l’abilità magica. I giovani maghi hanno poco controllo. Ma, Call, tu devi combatterla. E non dovrai mai più utilizzare la tua magia. Se lo farai, i maghi ti poteranno nei loro tunnel.”
“È lì che si trova la loro scuola? Il Magisterium è sotto terra?” aveva domandato Call.
“Sepolto sotto terra, lì dove nessuno potrà trovarlo,” era stata la cupa risposta di suo padre. “Non c’è luce, in quel posto. Né finestre. È un labirinto. Potresti perderti nelle caverne e morire e nessuno lo saprebbe mai.”
Call si era leccato le labbra improvvisamente asciutte. “Ma tu sei un mago, non è vero?”
“Non uso la magia dal giorno in cui tua madre è morta. Non la userò mai più.”
“E mamma è andata lì? Nei tunnel? Per davvero?” Call era euforico all’idea di sentir raccontare qualcosa su sua madre. Di lei non aveva un granché. Qualche foto ingiallita in un vecchio album che mostrava una donna graziosa con i capelli color dell’inchiostro di Call e occhi di un colore che Call non riusciva a riconoscere. Sapeva bene di non poter fare domande su di lei a suo padre. Non gli parlava della madre, sempre che non fosse strettamente necessario.
“Sì,” gli aveva risposto il padre. “Ed è per colpa della magia che è morta. Quando i maghi sono in guerra, ovvero spesso, non si interessano alle persone che muoiono per colpa loro. Ed è questa la ragione per cui dovresti cercare di non attirare la loro attenzione.”
Quella notte Call si era svegliato urlando, convinto di essere stato seppellito sotto terra, il terreno accumulato su di lui come se fosse stato sepolto vivo. Poteva agitarsi quanto voleva: non gli riusciva comunque di respirare. Nel sogno successivo Call si era ritrovato a scappare via da un mostro fatto di fumo; nei suoi occhi si agitavano mille colori diversi, malvagi… solo che a Call non riusciva di correre abbastanza veloce per colpa della sua gamba. Nei sogni, l’ombra si trascinava dietro di lui come un qualcosa di morto, aspettando di vederlo crollare, tenendogli il suo mostruoso respiro caldo sul collo.
Gli altri bambini nella classe di Call avevano paura del buio, dei mostri sotto al letto, degli zombie o di assassini con grosse asce. Call aveva paura dei maghi, e ancor di più dell’essere uno di loro.
Adesso stava per incontrarli. Quei maghi che erano la ragione per cui sua madre era morta e suo padre rideva raramente e non aveva amici, e sedeva nel laboratorio che aveva realizzato in garage a sistemare mobili e auto e gioielli. Call non pensava ci fosse bisogno di un genio per capire perché suo padre fosse ossessionato dal voler rimettere le cose rotte insieme.
Superarono rapidamente un segnale che dava loro il benvenuto in Virginia. Ogni cosa sembrava la stessa. Call non aveva saputo cosa aspettarsi, ma gli era capitato di rado di lasciare la Carolina del Nord. Le loro gite oltre Asheville erano infrequenti; andavano soprattutto a incontri in cui ci si scambiava parti di auto e fiere dell’antiquariato, dove Call girovagava tra cumuli di argenteria lucidata, collezioni di carte di baseball in bustine di plastica e vecchie e strane teste di bue tibetano imbalsamate mentre suo padre contrattava per qualche roba noiosa.
A Call venne in mente che non avrebbe mai più dovuto partecipare a uno di quegli incontri, se avesse deciso di non mandare il test all’aria. Gli si contrasse lo stomaco, e un brivido freddo gli scosse le ossa. Si obbligò a pensare al piano che gli aveva insegnato suo padre: svuota del tutto la tua mente. O concentrati su qualcosa che è il contrario di ciò che desiderano quei mostri. O focalizzati sul test di un’altra persona anziché sul tuo.
Espirò. Il nervosismo di suo padre lo stava contagiando. Sarebbe andato tutto bene. Rovinare il test era semplice.
La loro macchina lasciò oscillando l’autostrada e si infilò in una stradina stretta. Lì l’unico cartello che c’era aveva il simbolo di un aereo e in basso la scritta: ‘AERODROMO CHIUSO PER RISTRUTTURAZIONE’.
“Dove stiamo andando?” chiese Call. “Voleremo da qualche parte?”
“Speriamo di no,” mormorò suo padre. L’asfalto era bruscamente finito, trasformandosi in una strada sterrata. Mentre sobbalzavano per il paio di metri successivo, Call afferrò lo stipite della portiera, cercando di non saltare fino al soffitto dell’auto e battere la testa contro il tetto. Le Rolls-Royce non erano fatte per strade del genere.
Tutt’a un tratto la corsia si allargò e gli alberi si separarono. Adesso la Rolls era nel mezzo di un grosso spiazzo. Nel mezzo stava un hangar enorme fatto di acciaio ondulato. C’erano un centinaio di auto – dal pick-up alla berlina, fino ad arrivare a cose stravaganti come il Phantom e macchine molto più recenti – parcheggiate lì vicino. Call vide i genitori con i loro figli, tutti all’incirca della sua età, affrettarsi verso l’hangar.
“Penso che siamo in ritardo,” disse.
“Bene.” Suo padre suonò cupamente soddisfatto. Fermò l’auto e saltò fuori, facendo cenno a Call di seguirlo. Call era felice che suo padre avesse dimenticavo, o così pareva, le stampelle. La giornata era calda, e il sole gli batteva forte sul retro della maglietta grigia. Mentre attraversavano lo spiazzo e si infilavano in quel grande spazio aperto e nero che era l’ingresso dell’hangar, Call si strofinò i palmi sudati contro i jeans.
All’interno era tutto folle. Bambini tutt’intorno, le loro voci che echeggiavano nel vasto spazio. Lungo una parete metallica erano state sistemate delle tribune; benché potessero contenere più gente di quella effettivamente presente nell’hangar, era poca cosa rispetto all’immensità della stanza. Del nastro azzurro segnava delle X e dei cerchi attraverso il pavimento.
Dall’altra parte del capannone, di fronte alle porte che in passato erano servite per far uscire gli aerei sulle piste, stavano i maghi.
devo comprarlo al più presto :angelic: :heart: :happy: :clap: 😎
Wow, è davvero interessante! Credo proprio che lo leggerò! :fav:
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
Condividi su