Ieri in pagina abbiamo raggiunto gli ottocento fan. 🙂 Per festeggiare, vi abbiamo preparato un regalino – ovvero la traduzione completa di The Mirror House, racconto della Clare presente nella raccolta (inedita qui in Italia) Vacations from Hell.
Vi chiediamo la cortesia di NON copiare la traduzione né spacciarla per vostra: se desiderate condividerla sulle vostre pagine o sui vostri siti avete il nostro permesso, purché per condividere il racconto venga utilizzato il link.
Ripeto: non copiate e incollate, condividete il link. È molto più veloce, come mezzo, ed è un buon modo per dimostrare rispetto per il nostro lavoro.
Nota bene: se qualche editore italiano dovesse acquistare Vacations from Hell, sarà nostra premura eliminare il racconto dal sito. Ovviamente, in quel caso anche voi fan sarete invitati a cancellare le copie del pdf (originariamente avevamo pubblicato The Mirror House in pdf) in vostro possesso.
Dovrebbe essere tutto. 🙂 In caso di dubbi, o se volete farci sapere le vostre impressioni sul racconto, potete tranquillamente commentare questo post o su Facebook: ci farebbe piacere, sul serio.
Buona lettura!
Troverei le due ore di strada non asfaltata tra l’aeroporto di Kingston e la piccola cittadina di Black River sufficientemente pesanti anche senza i postumi dello champagne del matrimonio. Passo la maggior parte del tempo a guardare fuori dal finestrino e cercare di non vomitare. Non è facile, specie perché continuiamo a sorpassare animali morti al lato della strada e a volte pile di spazzatura in fiamme che puzzano come plastica calda.
Mia madre mi ha assicurato che la Giamaica sarebbe stata un paradiso. Ma del resto mamma è la stessa donna che ha insistito a dire che lei e Phillip avevano bisogno di partire per la luna di miele il giorno dopo il matrimonio. Perché abbiano deciso di dover portare con loro anche me ed Evan, il figlio di Phillip, non saprei. Me l’hanno spiegato – o, meglio, mia madre ci ha provato, con Phillip seduto lì torvo come sempre –, ha a che fare con “l’unione familiare”. Ma con Phillip che per tutto il tempo sta immobile come un morto ed Evan seduto il più lontano da me concessogli dai sedili appiccicosi del furgone, non so quanta unione otterremo davvero. Certo, visto ciò che è successo la scorsa notte in giardino dopo il ricevimento probabilmente ciò di cui meno abbiamo bisogno io ed Evan è stare insieme.
La villa che mia madre ha affittato è molto più bella che nelle foto online. I pavimenti sono luminosi, scuri come l’esterno lucido di un guscio di noce; i muri sono blu, spugnati con del verde, così da richiamare i colori del mare e del cielo. Manca una sola parete, che è aperta e dà sul ponte esterno, sulla piscina turchese e sulla scogliera a strapiombo sulla sabbia bianca e sul mare scuro al di là.
Mia madre sta nell’arco della porta, una mano sulla gola. “Oh, Phillip… guarda!”
Ma Phillip non sta guardando. Ha superato la porta d’ingresso con la pila di borse, parlando a Damon, il fattorino, con voce bassa e roca. Qualcosa riguardo il fatto che Damon non deve aspettarsi una mancia e che comunque Phillip potrebbe benissimo portarseli da solo, quei dannati bagagli. Damon scuote filosoficamente le spalle fasciate da una camicia bianca e se ne va, superando Evan, che è appoggiato al muro e si fissa le scarpe. So che è imbarazzato da suo padre, ma quando provo a sorridergli sposta lo sguardo lontano da me come se stesse tentennando.
Phillip mi oltrepassa con gli occhi. Forse ha visto l’espressione sul mio viso – non sono sicura –, ma in ogni caso continua a interpretarmi nella maniera sbagliata.
“Evan,” dice, “porta le valigie di Violet nella sua stanza.”
Evan comincia a protestare. Suo padre gli lancia un’occhiata di disgusto.
“Ora, Evan.”
Evan si issa la sacca in spalla e mi segue nella stanza numero tre. Le finestre danno sul ponte, c’è un lucernario e un enorme letto a baldacchino bianco con una rete per le zanzare. Evan posa la borsa sul pavimento con un tonfo e si raddrizza, gli occhi azzurri che lampeggiano.
“Grazie,” dico.
Scrolla le spalle. “Nessun problema.” Lo osservo guardarsi intorno, noto il modo in cui i muscoli delle sue spalle si flettono mentre si volta. “Bella stanza.”
“Lo so.” Rido nervosamente. “Il letto è enorme.”
Nel preciso istante in cui la frase mi esce di bocca raggelo. Non avrei dovuto dirlo. Non dovrei neppure pronunciare la parola letto con Evan nei paraggi, non dopo ciò che è successo nel giardino delle rose. Penserà che sto scherzando, che sto facendo la scema, o che gli sto chiedendo…
“Ragazzi! È ora di cena!” La testa di mia madre sbuca nel vano della porta, sorridendo radiosa. Non sono mai stata così felice di vederla.
“Arrivo subito – ho solo bisogno di lavarmi le mani.” Mi infilo nel piccolo bagno mentre Evan scappa via, seguendo mia mamma. I muri sono rivestiti con dei pezzi di vetro limati dall’acqua dell’oceano di un morbido e sottile blu, verde e rosso. Faccio scorrere l’acqua nel lavandino e me ne spruzzo un po’ in faccia. Quando guardo nello specchio, noto che le mie guance sono rosse come rose.
La cena viene servita sul ponte; la nostra famiglia è seduta a un tavolo lungo e basso, e il personale della villa ci porta i piatti: enormi pile di insalata di patate, insalata di cavoli con aceto forte, pesce cucinato con aglio e peperoni scozzesi e una ciotola di profumato curry scuro, pieno di grumi di carne bollente.
Provo a voltarmi, quando mi passano i piatti, e sorridere allo staff della villa, ma nessuno incrocia il mio sguardo. Il personale è una massa sfocata di volti scuri e mani, il bagliore di un braccialetto di corallo e oro mentre delle dita ritirano l’insalatiera da cui ho finito di mangiare. “Grazie,” dico, ma non c’è risposta.
Phillip afferra il curry come se andasse di moda. “Che cos’è?” chiede bruscamente, trafiggendo un pezzo di carne con la forchetta per poi infilarselo in bocca.
Il più alto tra i cuochi, una donna dal viso affilato e i capelli legati da un fazzoletto bianco, risponde, “Curry di capra, signore.”
Phillip sputa la carne nel piatto e afferra un fazzolettino, osservando la cuoca con aria accusatrice.
Guardo in basso verso il tavolo, cercando di non ridere.
Il giorno dopo il caldo è devastante, come la droga. Sto stesa su un lettino a bordo piscina, le spalline del mio vestito tirate giù sulle braccia per evitare le linee dell’abbronzatura. Mia madre non mi permetterà di comprare un bikini. Phillip è seduto all’ombra, leggendo un libro chiamato Empire of Blue Water. Evan ha i piedi nell’acqua della piscina, lo sguardo perso nel vuoto.
Cerco di incrociare i suoi occhi, ma lo so perfettamente che non mi guarderà, quindi torno al mio libro. Provo a leggere, però le parole danzano sulla pagina come la luce del sole danza sull’acqua della piscina. Questo tipo di clima fa danzare tutto.
Alla fine metto giù il libro e vago in cucina alla ricerca di una Coca. La donna di ieri notte, la cuoca alta che ha detto a Phillip che stava mangiando capra, è in piedi accanto al lavandino e sta lavando i piatti che abbiamo usato a colazione. Oggi la sciarpa che porta tra i capelli è di un rosso brillante, il colore degli uccelli tropicali.
Appena mi nota si volta nella mia direzione. “Posso aiutarti in qualche modo, signorina?” Il suo accento è morbido come i petali di un fiore.
“Volevo solo una Coca.” Ho la sensazione che non dovrei essere qui, che la cucina sia dominio dello staff, anche se tutto ciò che voglio è una lattina di soda. Abbastanza sicura, anziché indirizzarmi verso il frigo recupera lei stessa la bottiglia, la apre e me la versa in un bicchiere.
“Grazie.” Lo prendo, e il vetro fresco contro le dita mi dà una bella sensazione. “Come ti chiami?”
“Il mio nome?” Solleva le sopracciglia. Sono archi perfetti, come se li sistemasse ogni giorno. “Sono Damaris.”
“Damaris e Damon,” dico, e subito penso che avrei fatto meglio a evitare; devo essere sembrata una deficiente. Magari lei non lo conosce neppure bene, Damon.
“È mio fratello,” risponde, e guarda fuori dalla finestra, mentre una ruga le appare tra le sopracciglia. “Tuo fratello è andato giù in spiaggia, ho notato. Dovresti digli di stare lontano dalle altre case lungo la strada. Molte sono private, e non tutte sono sicure.”
Non sono sicure?, penso. Nel senso di sorvegliate da cani feroci o guardie dal grilletto facile? Ma l’espressione vacua e adorabile di Damaris non mi lascia capire nulla. Poggio il bicchiere vuoto sulla credenza. “Evan è il mio fratellastro,” dico come se fosse importante; in un certo senso, voglio che lo sappia. “Non mio fratello.”
Non risponde.
“Gli dirò di fare attenzione,” concludo.
Il sentiero che porta all’acqua è sabbioso, e tutt’intorno ha arbusti ed erba rada. Il bagnasciuga curva verso sud, fiancheggiato da piccole case dipinte vivacemente con colori tropicali: rosa acceso, verde acido, giallo ventre-di-rana. La nostra è l’ultima abitazione, sistemata contro una scogliera piena di buchi neri simili a uvetta in una ciotola di crema bianca. Penso siano grotte.
Evan non è in spiaggia. In effetti non c’è nessuno, in spiaggia. Per qualche ragione, questo pallido angolo di sabbia invitante è assolutamente vuoto. Mi sorprende che non ci sia anima viva a prendere il sole, ma mentre seguo la curva della sabbia lungo l’acqua noto che la maggior parte delle abitazioni sono chiuse e sprangate. Alcune hanno dei pesanti lucchetti al cancello. Sembrano polverose, disusate. L’unica che pare abitata è una casa del colore di una rosa in fioritura, tra le più vicine alla nostra villa. Il suo grande cortile si estende fino alla spiaggia, circondato da un muro ricoperto di piastrelle a mosaico che raffigurano onde e creature marine.
Sono sorpresa dalla mancanza di attività. Non possiamo essere le uniche persone in zona, no? Le brochure dei viaggi scrivono sempre “spiagge deserte” come se fosse qualcosa di altamente desiderabile, ma in verità è spaventoso. Qualcuno a un certo punto dev’essere passato di qui, perché ci sono delle impronte nella sabbia, però non c’è nessuno in vista.
Raggiungo la fine della spiaggia, mi volto e torno indietro, verso la villa. Il sole mi batte forte sul collo e sulle spalle. In piscina è fresco, mentre qui il caldo sembra una coperta pesante e bagnata. Posso vedere delle sagome muoversi intorno alla villa; sono silhouette scure delineate dal sole. Mentre mi avvicino al sentiero attraverso l’erba rada che conduce a casa, una figura emerge da uno dei buchi nella scogliera.
È Evan. Non indossa la maglia, solo i pantaloncini da surf e le infradito. La sua pelle è pallida come la mia, ma i suoi capelli color grano sembrano oro lucido sotto la luce del sole. Ha qualche pallida lentiggine sulle guance e sul naso, e cerco di ricordare, senza riuscirci, se sono nuove o le ha sempre avute.
Pare sorpreso di vedermi. “Ehi.”
“Ehi,” dico, sentendomi, come sempre da dopo il matrimonio, una stupida, ora che gli sto accanto. “Damaris mi ha detto di riferirti che qui intorno non è sicuro.”
Strizza le palpebre, gli occhi azzurri contro il sole. “Damaris?”
“La cuoca.”
“Oh, giusto.” Lascia correre lo sguardo per la spiaggia. “A me sembra sicuro. Forse intendeva dire che c’è la marea o qualcosa del genere.”
Alzo le spalle. “Forse.” Non intendeva la marea, ma non me la sento di insistere.
“Andiamo.” Mi fa cenno di seguirlo. “Voglio mostrarti una cosa.”
Torna indietro, nell’apertura buia che c’è nella roccia, e io lo seguo, ricacciando indietro la claustrofobia. Devo trattenere il respiro per scivolare attraverso lo strettissimo ingresso, ma poi ci ritroviamo in uno spazio più grande. Fiochi raggi dall’esterno passano attraverso la fenditura nella roccia, però l’illuminazione non si limita a questo: macchie di luce incandescente sono sparse qui e là sulle pareti umide della caverna, e sono anche di vari colori: blu ghiaccio e verde pallido e rosa puro. “Muschio fosforescente,” dice Evan. Fa correre la mano lungo la parete e poi mi mostra il palmo; brilla come la pinna di un pesce. “Vedi?”
Anche i suoi occhi stanno scintillando, qui al buio. Mi ricordo la prima volta che ho visto Evan camminare dall’altra parte del campo, a scuola, lo zaino in spalla, i capelli che splendevano alla luce del sole. Si muoveva come qualcuno che ha un obiettivo, come se ci fosse una strada invisibile e scintillante che poteva vedere solo lui e su cui i suoi piedi si stavano spostando; sembrava sapere perfettamente dove stava andando. Non l’avevo mai visto prima – venne fuori più tardi che era arrivato quell’anno, dopo essersi trasferito da Portland con suo padre – e non sembrava affatto come gli altri ragazzi per cui mi ero presa una cotta. Evan era pulito e sportivo e brillava alla luce come oro, e da quel momento l’ho desiderato come mai nessun’altro prima.
Avvicino le dita alle sue; quando le allontano stanno risplendendo, quasi mi avesse trasferito la sua luce. Appena ci tocchiamo si irrigidisce; poi la sua mano si chiude intorno alla mia. Le mie dita dei piedi affondano nella sabbia mentre mi sollevo sulle punte, raggiungendo il suo viso, ed è a quel punto che mi bacia, e la sua bocca è umida e morbida. Le sue dita mi affondano nelle spalle prima che lui si allontani. “Vi,” dice, ed è più un gemito che altro. “Non possiamo.”
So cosa intende. Siamo già andati oltre, quella notte in giardino, dopo esserci baciati e aver litigato per ore. Dobbiamo dirglielo non possiamo dirglielo non possiamo farlo non hanno bisogno di saperlo ovviamente lo scopriranno ci uccideranno mi ucciderà no. No.
Evan mi supera per raggiungere l’ingresso della grotta e ci passa attraverso. Lo seguo, chiamandolo, strizzandomi attraverso il minuscolo passaggio nella roccia subito dopo di lui, ma un lembo del mio costume resta impigliato in un pezzo di roccia sporgente, ed è per questo che mi ci vuole un attimo per districarmi e poi raggiungere Evan sulla spiaggia. È fermo, immobile, lo sguardo fisso su qualcosa più in là, la bocca spalancata. Quando seguo il suo sguardo capisco il perché.
Una donna sta venendo fuori dalla casa rosa. Spinge il cancello di ferro dipinto di blu e procede sulla sabbia. Anche se in effetti non è che si limiti a procedere. Si muove come un’onda. I suoi fianchi ondeggiano, e i suoi capelli, che sono lunghi e così biondi da sembrare bianchi, si increspano come schiuma del mare. Indossa una specie di pareo stampato. C’è uno spacco su un lato, che lascia intravedere tutta la sua gamba perfettamente abbronzata mentre cammina.
Ha il pezzo di sopra di un bikini bianco, e il modo in cui lo riempie mi fa venire voglia di incrociare le braccia sul petto per nascondere il fatto che sono piatta. In mano tiene una bottiglia, una simile alla mia Coca Cola, anche se non c’è alcuna etichetta sopra.
Mentre si avvicina a noi si sistema gli occhiali sulla testa, e ogni mia speranza che il suo viso non fosse all’altezza del resto svanisce. È bellissima. Evan continua a fissarla.
“Siete i bambini della villa,” dice. Ha un accento lieve, indefinibile. “No?”
Evan sembra perplesso dall’essere chiamato bambino. “Suppongo di sì.”
La donna inclina la bottiglia. È piena di un liquido pallido che assume una strana iridescenza arcobaleno sotto la luce del sole. “Dev’essere noioso, per voi, essere qui durante la bassa stagione,” osserva. “C’è difficilmente qualcuno. Eccetto me. Io sono sempre qui.” Sorride. “Sono la signora Palmer. Anne Palmer. Sentitevi pure liberi di fermarvi a casa mia, se vi serve qualcosa.”
Evan non sembra avere intenzione di rispondere, quindi lo faccio io. “Grazie,” dico rigidamente, pensando che lei non sembra una Anne. Anne è un nome piatto, amichevole. “Ma abbiamo già tutto ciò che ci serve.”
Le sue labbra si curvano agli angoli, come carta che brucia. “Nessuno ha tutto ciò che gli serve.”
Mi avvicino per toccare Evan su una spalla. “Dovremmo tornare a casa.”
Ma lui mi ignora; sta osservando la signora Palmer. Lei sta ancora sorridendo. “Sai,” gli dice, “sembri un ragazzo simpatico e forte. Potrei chiederti una mano. Ho un’auto vecchia – una classica, o così direbbero – e di solito va da favola, ma recentemente ho avuto problemi ad accenderla. Le daresti un’occhiata per me?”
Aspetto che Evan dica che non sa niente di macchine. Sono sicura di non averlo mai sentito proclamare un interesse particolare per le auto. Ma invece risponde, “Certo, posso farlo.”
La signora Palmer inclina la testa all’indietro, e il sole si riflette sui suoi capelli. “Meraviglioso,” dice. “Non posso darti granché come ricompensa, ma ho una bevanda fresca per te, se ti va.”
“Grande.” Evan mi lancia solo un’occhiata. “Di’ ai genitori dove sono andato, okay, Violet?”
Annuisco, ma non sembra neppure notarlo; si sta già dirigendo verso la casa rosa con la signora Palmer. Non si volta verso di me, non lui, ma lei sì; quando si fermano al cancello, guarda oltre la sua spalla e il modo in cui mi percorre dall’alto in basso è così pensieroso che – a dispetto del caldo – non riesco a evitare che un brivido freddo mi corra lungo la colonna vertebrale.
Il tramonto arriva e dipinge strisce nere e color corallo nel cielo sopra l’oceano. Damaris e il resto dello staff stanno sistemando il tavolo in veranda. Mi siedo sull’orlo della piscina, i piedi nell’acqua. Ho aspettato che Evan tornasse per ore, ma non l’ha fatto. Mamma e Phillip sono ancora sistemati sulle loro sedie a sdraio, anche se Phillip ha posato il suo libro e sembra stiano discutendo a bassa voce, ma con intensità. Li ignoro, come faccio sempre quando litigano, cercando di concentrarmi sul rumore del mare anziché su di loro. Tutti dicono sempre che fa lo stesso suono dell’interno di una conchiglia, ma io penso piuttosto che sembri il battito di un cuore, con il suo ritmo regolare e martellante e il dolce risucchio dell’acqua che ricorda l’afflusso del sangue nelle vene.
Con un set di tovaglioli piegati in una mano, Damaris si appoggia sul portico e dice, “Sarete quattro, a cena, o solo tre?”
“Quattro.”
“Non vedo il tuo fratellastro, qui intorno,” osserva Damaris.
“È giù in spiaggia,” le spiego. “Ma tornerà.”
Damaris dice qualcosa a bassa voce. Tipo, “Loro non tornano indietro.” Prima che possa chiederle cosa intende, ricomincia a sistemare la tavola.
La cena è consumata in silenzio. Niente capra, stavolta, solo peperoni ripieni e una specie di pesce al limone. A metà della cena Evan si unisce a noi, scivolando silenziosamente al suo posto, come se sperasse di non essere notato.
Phillip si blocca con la forchetta a metà strada dalla bocca. “Dove sei stato, tu?”
Evan fissa il suo piatto. Non indossa più il suo costume, noto, ma un paio di calzoncini freschi e una t-shirt sbrindellata. Sembra davvero… pulito. “Stavo aiutando la signora che abita nella casa accanto alla nostra a sistemare la sua auto. Ha
detto che se fossi riuscito a farla partire ci avrebbe permesso di prendere la sua barca e usarla.”
“Molto gentile da parte tua,” dice mamma. Si volta verso Phillip. “Non è stato gentile, caro?”
Phillip grugnisce una risposta con la bocca piena di pesce. “Non so perché abbia pensato che tu fossi in grado di riparare un’auto. Sei solo un ragazzo.”
Evan arrossisce, ma non aggiunge nulla, concentrandosi sullo spizzicare il suo piatto.
Mia madre si volta di nuovo verso Phillip. “E quindi stavo pensando che potremmo fare una gita a Black River. Domani, magari.”
“Quella città per cui siamo passati mentre venivamo qui?” Phillip strappa un pezzo di pane a metà. “Mi sembra un’idea stupida, Carol.”
“Pare che allestiscano un mercato ogni fine settimana, con oggetti da ogni dove. E si possono fare gite in barca sul fiume, vedere i coccodrilli in acqua…” Sotto lo sguardo gelido di Phillip, la voce di mamma si affievolisce. “Pensavo potesse essere una cosa fa fare tutti insieme, come una famiglia. Qualcosa di divertente.”
“Divertente?” le fa eco Phillip. “Non ho fatto tutta questa strada, Carol, per comprare dell’artigianato da quattro soldi, e neanche per fissare un tronco gigante spacciato per coccodrillo da qualche stupida guida turistica.”
“Ma, Phillip…” Mia madre si allunga per prendergli la mano, ma accidentalmente urta la ciotola di vetro piena di macedonia accanto al suo piatto. Phillip salta in piedi, imprecando, anche se non gli è caduto niente addosso.
Mamma è sconvolta. “Mi dispiace così tanto…”
Lui non le risponde. Fissa freddamente i resti della macedonia sul pavimento. “Guarda che disastro.”
“Phillip.” Sull’orlo delle lacrime, mamma cade in ginocchio e comincia a raspare con le dita i pezzettini scivolosi di frutta e il vetro in frantumi. Mi chiedo dove sia lo staff, ma sembrano essersi dileguati, dopo aver intuito la delicatezza del momento.
“Mamma, non farlo,” dico, ma mi ignora. Si è tagliata col vetro, e il sangue gocciola sul pavimento, insieme alla frutta schiacciata e al succo. Guardo Evan chiedendomi se dirà qualcosa. Gli è sempre piaciuta mia madre, o almeno pensavo fosse così. Ma lui si limita a fissare il suo piatto, in silenzio, ed evita il mio sguardo.
Quella notte la passo sul mio letto a baldacchino, sveglia, a fissare il soffitto. La rete anti-zanzare, bianca come il velo di una sposa, ondeggia alla debole brezza che proviene dal condizionatore. Posso sentire la voce di Phillip dall’altra parte del muro alzarsi e abbassarsi, come un’onda che cresce sempre più furiosa. Mia madre controbatte debolmente al suo gridare: più la voce di Phillip sale, più quella di mamma si affievolisce. Osservo uno scarafaggio di un verde brillante attraversare il muro stuccato, le sue antenne protese delicatamente verso qualcosa che può toccare.
Ovviamente non andiamo a Black River, la mattina dopo. Phillip si porta il suo libro in piscina e siede torvo all’ombra. Mamma resta dentro, indossando gli occhiali da sole e un cappello enorme che le getta un’ombra scura sul viso, ma anche così posso vedere che ha gli occhi gonfi per il pianto.
Evan non si alza fino a mezzogiorno, e quando lo fa esce fuori dalla sua stanza sbadigliando, in calzoncini da barca e infradito. I suoi capelli sembrano più chiari di prima, come se il sole avesse già cominciato a sbiancarli. Sono sdraiata sull’amaca che sta sul ponte, un giornale aperto in grembo; quando noto Evan spingo via il quotidiano e mi avvicino a lui, abbassando la voce. “Come hai dormito la scorsa notte?” chiedo, sperando che non possa capire il mio sguardo, chiedendomi se ha sentito ciò che ho sentito io.
“Bene.” Non sta leggendo i miei occhi; i suoi, azzurro cielo, vagano intorno nervosamente. Forse si sta chiedendo se ci stanno guardando, se stanno dicendo qualcosa sul fatto che stiamo troppo vicini, che parliamo troppo a bassa voce. Ma no. Loro non notano niente. Non l’hanno mai fatto.
Ho incontrato Phillip un sacco di tempo prima che mia madre si decidesse a portarmi a casa sua, ma è stato in quell’occasione che ho capito per la prima volta quanto fossero seri. Phillip all’epoca stava ancora cercando di impressionarci. Era convinto che accattivarsi il mio favore fosse una buona idea. Veniva da noi vestito di tutto punto, con un mazzo di fiori per mamma e qualcosa per me – sempre roba stupida e inappropriata, come un fermaglio scintillante o un CD di bubblegum pop. Sembrava pensare che le adolescenti fossero tutte uguali e amassero le stesse cose, ma almeno ci stava provando, sottolineava mia madre, e poi lui di ragazze non sapeva niente – aveva solo un figlio maschio. E sebbene lo sapessi, sebbene sapessi che Phillip aveva un figlio della mia età, non ci avevo mai minimamente pensato fino a quella notte, quando mamma mi aveva obbligata a sbrigarmi mentre attraversavamo la via illuminata fino alla porta d’ingresso di Phillip e poi aveva suonato, sorridendomi nervosamente per tutto il tempo.
E poi Evan aveva aperto la porta. Appena mi aveva notata aveva sorriso. “Ciao,” aveva detto. “Devi essere Violet.”
Io ero rimasta lì, davanti all’ingresso, senza dire una parola. Mi sentivo stordita, come se fossi caduta dai rami alti di un albero e avessi colpito il suolo, rimanendo senza fiato. Non era possibile che questo ragazzo, il ragazzo che guardavo ogni giorno a scuola, quello di cui conoscevo tutti i vezzi – il modo in cui si scostava i capelli dagli occhi o giocherellava con l’orologio quando si annoiava –, fosse il discendente di Phillip. Il noioso, sempre a denti stretti, giallastro in viso Phillip non poteva in alcun modo avere un figlio così.
Non mi importava che Evan non mi avesse riconosciuta. Che sembrasse non sapere che andavamo a scuola insieme.
“Vai in spiaggia?” mi chiede adesso. “Vengo con te.”
Scrollo le spalle. Non è che ci sia un modo per fermarlo. “Okay.”
C’è un cesto di teli da spiaggia sul ponticello, strisce vivaci simili a stringhe di caramelle. Evan se ne drappeggia una intorno alle spalle, mentre percorriamo il sentiero sabbioso che porta al mare. Anche oggi è deserto, sabbia vuota che si estende in lontananza. Sembra la pubblicità di qualche luna di miele, un posto dove puoi baciarti in spiaggia senza che qualcuno ti guardi.
Sistemiamo i nostri teli e ci stendiamo, io sullo stomaco, Evan fissando il sole. Ha un libro aperto sulla pancia: Il Postino Suona Sempre Due Volte, penso, ma non riesco a vedere bene il dorso. Scoprire che Evan ama leggere all’epoca mi aveva sorpresa. Non avrei mai pensato che un ragazzo con un aspetto simile avesse altri interessi oltre a, forse, lo sport e le ragazze, proprio come non avrei mai pensato che lui avesse del tempo da dedicare a una ragazzina scheletrica e impopolare che mette calzini spaiati e t-shirt da maschio perché non ha la più pallida idea di cosa la gente si aspetta che lei indossi.
Ma ho scoperto di sbagliarmi. Evan aveva tempo per me. Quel tipo di tempo che significa che passavamo ore insieme nella libreria di Phillip, parlando o giocando a Halo sulla TV maxischermo. Quel tipo di tempo che significa che a volte mi salutava, nell’ingresso della scuola, anche se le altre persone potevano vederlo. Quel tipo di tempo che significa che il giovedì sera, quando cenavamo a casa di Phillip, mi aspettava fuori scuola nella sua auto, il freno alzato e il motore acceso, e con la portiera del sedile del passeggero lievemente aperta. Per me.
Io scivolavo nella sua auto, sorridendogli. “Grazie per avermi aspettata.”
Lui si allungava per chiudere la porta. “Nessun problema.” Il rossore sulla parte posteriore del suo collo, mentre si chinava a girare la chiave, mi faceva capire che anche lui aveva notato quanto fossi seduta vicino.
Una volta eravamo così presi da una conversazione che anche dopo essere arrivati a casa di Evan non eravamo usciti dall’auto, ma eravamo rimasti lì, stando semplicemente seduti e girando a vuoto nel vialetto, le nostre voci che si confondevano con lo stereo dell’auto. Mi ero allungata per sistemarmi una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio, ma le dita di Evan erano già lì – esitanti, gentili contro la mia pelle. “Violet,” aveva detto, nell’esatto istante in cui io mi ero zittita. “Sai…”
Il finestrino aveva tremato, mentre Phillip ci picchiettava le dita contro. “Evan.”
Evan lo aveva abbassato.
“Metti l’auto in garage,” si era limitato a dire Phillip, ma un’occhiata al viso pallido di Evan mi aveva fatto capire che quel momento era finito per sempre.
“Evan.”
Per un attimo penso che sia la voce di mia madre e mi alzo per metà, cercandola in giro. Ma la spiaggia è ancora deserta. Anche Evan si è seduto, e seguendo il suo sguardo vedo la signora Palmer, la tizia della casa rosa, in piedi nel suo ingresso mezzo spalancato. È troppo distante perché io abbia sentito per davvero la sua voce, ma potrei giurare che è così, proprio come se mi avesse parlato in un orecchio. Indossa un lungo abito rosa, oggi, quasi del colore della sua casa, senza spalline, così che le sue spalle abbronzate sono nude. Porta gli occhiali da sole.
Evan si è già alzato e ha raccolto il suo telo. La sabbia gli scintilla sulla schiena e sulle spalle, simile a una spolverata di zucchero. “Ci vediamo più tardi, Vi.”
Allungo il collo per guardarlo. “Ma dove stai andando?”
“Anne ha detto che visto che l’ho aiutata con l’auto possiamo prendere la sua barca e farci un giro, oggi.” Sembra notare il modo in cui lo sto guardando, perché aggiunge, “Porterei anche te, ma c’è spazio solo per due persone.”
Non rispondo, e lui se ne va – sollevato, penso, che io non abbia fatto storie. Lo osservo procedere verso la casa, il sole che picchia come un martello, e quando attraversa il cancello e Anne lo chiude dietro di lui il sole sembra scoppiare contro i frammenti di vetro che decorano la parte anteriore della villa. Chiudo gli occhi per ripararli da questa luce calda e rifrangente.
Con nient’altro da fare, vago su e giù per la strada, scattando foto con la macchinetta rosa che mi ha regalato Phillip al tempo in cui ancora si sforzava di piacermi. Non ho mai desiderato con particolare intensità una macchina fotografica, ma in questo momento mi sto divertendo a usarla, fotografando pezzi di vetro buffi trasportati dall’oceano, gli scafi delle barche da pesca deserte, la distante linea nera dell’orizzonte. Le parole che qualcuno ha scritto sulla sabbia bagnata accanto all’oceano, che sono ormai sbiadite rispetto a prima. Un cavalluccio marino trascinato sulla sabbia, la sua piccola boccuccia che si apre e chiude in rantolii soffocati. Lo getto di nuovo in mare.
Sulla via di ritorno per la villa, mi fermo e guardo oltre l’acqua. La barca di Anne è lì, alla deriva sulle onde, la vela bianca come un dente di leone contro il cielo blu scuro. Anche se riesco a distinguere a malapena due sagome che identifico come esseri umani, una cosa è certa: Evan stava mentendo. Su quella barca puoi di sicuro farci salire più di due persone.
Mia madre sta in silenzio, a cena, spingendo qui e là il cibo con la forchetta. Phillip ci ignora entrambe, canticchiando tra sé mentre si butta fette di carne di maiale nel piatto. Ci vuole un po’ perché si accorga che Evan non è presente, e quando mi domanda dov’è gli rispondo che suo figlio è in camera col mal di testa. Non so perché lo sto coprendo. Forse lo faccio solo perché non mi va di sentire Phillip urlare di nuovo.
Anche ore dopo la cena si continua a sentire odore di spezie. Sto stesa sull’amaca, guardando le stelle. L’aria è pesante, di un calore che stordisce, a dispetto del buio. Gli insetti ronzano pigramente, facendo rumori starnazzanti con le ali nell’ombra. Posso sentire della musica provenire da qualche posto lontano da qui: è raggae pulsante e rumoroso. Guardo oltre il mare, chiedendomi se vedrò una barca alla deriva nell’acqua zaffiro, ma tutto ciò che riesco a scorgere è la lastra piana della luna riflessa.
“Dell’acqua, signorina?” È Damaris; il suo viso, alla luce della luna, è simile a una maschera lavorata. Mi porge un bicchiere ghiacciato e ricoperto di goccioline d’acqua.
Lo prendo e me lo metto accanto alla testa. “Grazie.”
“Dov’è il tuo fratellastro, stanotte?” mi domanda.
“Da qualche parte giù in spiaggia.”
“È con quella donna.” I suoi occhi scintillano sotto la luce lunare. “La Palmer.”
“Penso sia così. Sì.” Colpisco un moscerino che mi si era posato sul ginocchio; lascia una goccia di sangue dietro di sé, come un piccolo rubino.
“Non dovresti permettergli di vederla. È pericolosa.”
“Pericolosa in che senso?”
Damaris guarda da un’altra parte. “Non è una brava persona. Le piacciono quelli forti e quelli carini, giovani. Li prende e loro non tornano più. Dovresti fare in modo che le stia lontano, se vuoi tenerlo.”
Tenerlo? “E come dovrei farlo?”
Damaris non risponde.
“Non so perché tu stia chiedendo a me di fare qualcosa a riguardo, comunque,” le dico.
Lancia un’occhiata verso la villa. Mamma e Phillip sono già andati a letto; tutte le luci sono spente, eccetto quelle del ponte. “Perché,” risponde, “non lo farà nessun’altro.”
Al mattino, quando mi sveglio, Evan è addormentato sul divano nella stanza da pranzo. È ancora senza maglia, piegato in una posizione decisamente poco confortevole, con le braccia sotto la testa. Ci sono marchi simili a lividi sotto ai suoi occhi. Si muove, quando entro, e si tira a sedere lentamente, guardandomi come se non mi riconoscesse. Sembra a stento la persona con cui mi sono rilassata accanto all’oceano il giorno prima.
“Evan?” dico. “Evan, va tutto bene?” Mi siedo accanto a lui sul divano. Posso sentire il calore irradiato dal suo corpo, dalla sua pelle nuda, simile a febbre. “Ieri è successo qualcosa?”
I suoi occhi sono come marmo blu. “Mi sono divertito molto,” risponde con la voce meccanica di una bambola. “È stata una bella giornata.”
Appoggiata alla ringhiera del ponte guardo Evan mentre passa per il sentiero che porta alla spiaggia, gira a destra e si dirige verso la casa degli specchi. Il cancello si apre ondeggiando, non appena lui lo tocca, ed Evan scompare all’interno. Mi guardo intorno. Phillip non c’è, perché probabilmente è andato al campo da golf, e mia madre sta leggendo un libro su una poltrona a bordo piscina. Messe le infradito, mi dirigo verso il sentiero.
La sabbia è calda abbastanza da bruciarmi i piedi anche attraverso la suola delle scarpe. Zoppico fino al cancello della casa degli specchi, e lì improvvisamente tutto il calore sparisce e la sabbia sembra ghiacciata. Il portone è chiuso, e attraverso le sbarre riesco a vedere il selvaggio e rigoglioso giardino, un tripudio di fiori per la maggior parte piantati in grosse urne di pietra vecchio stile. Ora che posso guardarlo più da vicino noto anche altre cose: pezzi di quello che sembra vetro, grandi schegge piantate qui e là nella sabbia, come se la signora Palmer stesse cercando di far spuntare un albero di specchi fuori da quel terreno inospitale.
Allungo una mano per afferrare la maniglia, con l’unico risultato di scoprire che non c’è. Ha un buco della serratura, ma non un pomello, e le sbarre del cancello sono allineate con pezzi di vetro. Lì c’è il riflesso del mio viso pallido e ansioso mentre cerco di vedere cosa sta succedendo dentro la casa, ma non riesco perché, proprio come prima, le tende sono tirate. Afferro le sbarre e cerco di aprire il cancello, ma i bordi frastagliati degli specchi mi si conficcano nei palmi, e quando tolgo le mani sto sanguinando.
Il cancello non si muove.
Tornata a casa mi dirigo in cucina per sciacquarmi le dita. Osservo la scia rossa del mio sangue mischiarsi con l’acqua e sparire nello scarico. Quando mi allontano dal lavello, noto che Damon mi sta osservando sulla soglia della porta. Mi allunga un pacco di cerotti senza fiatare.
A cena Evan c’è, questa volta, ma mangia a stento qualcosa. Le borse sotto i suoi occhi sembrano disegnate. Mia madre gli consiglia di fare attenzione a prendere così tanto sole.
Ogni notte, quando torno in camera mia, trovo il piumino abbassato, il bordo ripiegato su se stesso, il cuscino sistemato. Le finestre sono chiuse per bene, e non lasciano entrare l’umida aria notturna; c’è invece il ronzio del condizionatore, che raffredda la stanza fino a farmi quasi congelare.
Sdraiata sul letto, mi chiedo se Evan è in camera sua, ora, steso sotto le coperte, che fissa il soffitto e pensa a me proprio come io sto pensando a lui. O forse si sta chiedendo quando ricominceranno le urla. O magari ha lo sguardo perso nel vuoto proprio come a cena.
La tensione è cominciata dopo il fidanzamento. Phillip non sorrideva granché. Era distante. Potevo sentire la sua rabbia come il calore che proviene da una finestra aperta. Mia madre gli volteggiava intorno a mo’ di farfalla, cercando di compiacerlo, di farlo sorridere di nuovo. Odiavo guardarla. Non riuscivo a capire se la cosa infastidisse anche Evan. Non all’inizio.
Una notte ero in libreria e stavo giocando a Kingdom Hearts 2; premevo i bottoni con una forza assurda, come se stessi prendendo a pugni qualcuno. Anche così Evan stava riuscendo a battermi. Il rumore arrivò all’improvviso – l’urlo, la voce di mia madre in lacrime e la rabbia di Phillip –, coprendo i bip dell’Xbox.
Evan lasciò cadere il suo controller con un tonfo e chiuse la porta di scatto. Quando si voltò a guardarmi, respirava profondamente. “Lo odio,” disse. “Lo odio.”
Io non risposi. Stavo pensando a com’era impallidito quel giorno, nel vialetto, quando Phillip aveva picchiato contro il finestrino. A com’era spaventato. Anche se non sono sicura che fosse la sua faccia quella che stavo immaginando – se il suo sguardo spaventato o quello di mia madre.
“Non pensavo che qualcuno avrebbe mai voluto sposarlo,” disse Evan. “Non pensavo che tua madre avrebbe mai accettato. Se avessi…”
Avrei dovuto permettergli di finire la frase, penso adesso, ribaltandomi nel letto. Mentre mi allungo per mettermi il cuscino sotto la testa, le mia mano trova qualcosa: una massa dura e fredda come un pezzo di metallo. La stringo tra le dita; la tiro fuori e la osservo. È una chiave fatta di un materiale scuro, con la maniglia di ottone intrecciato. Brilla lievemente al chiaro di luna.
Mi sveglio con la chiave ancora stretta in pugno. Mi lavo nella doccia esterna, indossando il costume da bagno, e osservo il rollio del mare mentre mi sciacquo lo shampoo tra i capelli. Posso vedere mia madre e Phillip vicino alla piscina. Stanno leggendo entrambi, su lettini affiancati; mia madre indossa un berretto con una visiera di plastica colorata che le fa tutto il viso blu. È rivolta verso Phillip, la voce alta e animata, ma lui ha il volto seppellito nel suo libro e non le risponde. Mamma potrebbe benissimo non essere lì.
La sabbia mi brucia i piedi attraverso le infradito, ma non ho altro da mettere. Sopporto il dolore finché non raggiungo l’esterno della casa della signora Palmer e la sabbia diventa fredda. È quasi mezzogiorno, il sole è proprio sopra la mia testa, e lo sento come una specie di punta affilata che attraversa strati di cielo e si conficca la pelle del retro del mio collo. Il sudore cola nel pezzo di sopra del mio costume mentre infilo la chiave nella serratura del cancello, torcendola e facendola scattare finché non sento il suono.
Click.
Il cancello si apre, ed entro nel giardino. Devo stare attenta, facendomi strada attraverso i pezzi di vetro che spuntano dalla sabbia. Se ne calpestassi anche uno soltanto potrei tagliarmi la punta del piede. Mentre raggiungo la casa la guardo a stento; il rosa è persino più luminoso, visto da vicino, la villa è ricoperta di stucco liscio e banale, e c’è un disegno di rose fatto da pezzi di mosaico che attraversa un lato dell’abitazione. C’è una rosa bianca dipinta sulla porta, ma non è lì che mi dirigo. Scivolo invece lungo il fianco della casa, sentendomi una ladra, un’intrusa. Nella mia mente vedo di nuovo il viso della signora Palmer, i suoi occhiali da sole simili agli occhi di una mosca nera; deglutisco con la mia gola secca.
C’è una finestra aperta, nell’angolo più lontano della villa, aperta giusto un pochino, con una tenda che svolazza parzialmente fuori a mo’ di bandiera. Mi sollevo sulle punte delle dita, afferro il bordo per tirarmi un po’ più su e sbircio all’interno.
C’è un soggiorno con un mobilio piatto, duro, moderno, completamente diverso dal lussuoso arredamento tropicale della nostra villa. Un tavolino da caffè, un divano rosso, un mazzo di fiori in un vaso rosso, una TV dallo schermo polveroso, come se non venisse mai usata. Il divano è sovrastato da una cornice che qualcuno, penso, deve aver girato verso la parete. E sul divano c’è Evan. Sembra addormentato, un braccio gli ricade inerte lungo il fianco del divano, le dita sfiorano il pavimento. Ha i capelli sul viso, e quando respira si muovono leggermente, come alghe nella corrente.
C’è un fruscio, e la signora Palmer entra nella stanza stringendo un drink tra le mani. Nel bicchiere c’è del ghiaccio e qualche pezzo di lime. Sembra gin tonic, uno dei drink preferiti di Phillip. Lo poggia sul tavolo e si volta verso Evan. Indossa una specie di vaporosa veste bianca su un bikini nero e gli occhiali da sole. Chi è che in casa porta gli occhiali da sole? E i tacchi alti? Devono farle male i piedi, penso, mentre lei si china su Evan. Lo stomaco mi si contrae sordamente mentre la signora Palmer si sistema i capelli indietro e porta la sua bocca sopra quella di Evan, e aspetto che lo baci.
Ma non lo fa. Resta dov’è, in bilico, come un’ape su un fiore. I suoi capelli biondi cadono dietro di loro simili a un foglio di oro pallido, e io penso che vorrei davvero dei capelli così; a quel punto lei stringe le labbra come se stesse per fischiare. E anche la bocca di Evan si apre, sebbene abbia ancora gli occhi chiusi. Il suo petto si alza e abbassa velocemente, adesso, come se stesse correndo. Vedo la sua mano stringersi a pugno. Qualcosa di un bianco pallido e trasparente come fumo gli esce dalle labbra; è come se stesse esalando il soffio di un dente di leone.
La signora Palmer si raddrizza, e si allunga per sistemare la cornice appesa alla parete. È uno specchio dalla superficie stranamente opaca. Riporta lo sguardo su Evan; il lieve filo di fumo bianco che gli usciva dalla bocca è diventato una nuvola, e mentre questa si solleva, lo specchio comincia debolmente a brillare. La signora Palmer si allunga di nuovo su Evan…
Perdo la presa sul cornicione e cado, la caviglia che mi si piega goffamente sotto, quasi ribaltandomi sulla sabbia. Caccio fuori il fiato con una specie di ansito piagnucolante.
“Chi è?” sento dire dalla signora Palmer, con voce stranamente pesante. “C’è qualcuno?”
Scappo.
Quando raggiungo la villa il cuore mi batte forte nel petto e ho le piante dei piedi in fiamme. Mi infilo in cucina attraverso la porta sul retro, passando per il lato della casa dove alcuni fiori polverosi fioriscono all’ombra. Damaris non c’è; la stanza è vuota, i piatti sono impilati su un panno colorato accanto al lavello. Apro l’acqua e mi sciacquo le dita impolverate, il cuore che ancora batte impazzito. Non è una brava persona. Le piacciono quelli forti e quelli carini, giovani. Li prende e loro non tornano più.
Esco sul ponte; mia madre è stesa su un lettino, metà all’ombra e metà no. Ha un libro aperto in grembo, lo stesso che ha continuato a leggere per tutta la settimana. Non credo le sia riuscito di andare avanti di più di qualche pagina. Alza lo sguardo, mi vede e mi fa cenno di avvicinarmi.
Mi siedo ai piedi del lettino, e lei mi madre mi sorride debolmente. “Ti stai divertendo, Violet?”
Mi si secca la bocca; voglio dire a mia madre ciò che ho visto, parlarle di Evan, ma sembra così distante, come se fosse alla deriva in mezzo al mare agitato. Cerco di ricordare l’ultima volta in cui mamma mi è parsa davvero concentrata su qualcosa, specialmente su di me. “Certo.”
“Mi sembra di averti vista a stento,” si lamenta. “Ma comunque credo sia un bene che tu ed Evan vi stiate divertendo insieme…”
Penso a Evan steso sul divano, flaccido e col viso grigio. “Sono preoccupata per Evan, mamma.”
“Preoccupata?” I suoi occhi grigi sono vacui dietro gli occhiali da sole. “Non dovresti preoccuparti di niente mentre sei in vacanza.”
“No, nel senso, penso che potrebbe avere qualche problema… tipo, qualche problema serio.”
Sospira. “Gli adolescenti possono essere davvero lunatici e irritabili, Vi. Per via degli ormoni e tutto il resto. Non far caso ai suoi bronci. Deve solo abituarsi a questa nuova situazione familiare, proprio come te.”
“Mamma,” dico lentamente, raccogliendo tutto il mio coraggio. “Mamma, sei felice?”
Si siede, e ha l’aria di essere sorpresa. “Certo che sì! Cioè, guarda dove siamo.” Fa dei gesti ampi, e con le braccia indica il mare, il cielo, la spiaggia. “Persino con i miei due lavori non avremmo potuto permetterci una vacanza così graziosa.”
Ma non è graziosa. Ce l’ho sulla punta della lingua, ma lo sguardo di mia madre mi impedisce di dirlo. È come se fosse davanti a me con indosso un abito nuovo e mi stesse implorando con lo sguardo di dirle che sta benissimo, e questo mi impedisce di essere sincera: non posso rivelarle che il vestito è brutto, ha un’aria dozzinale, è colorato e di cattivo gusto. Visto che le voglio bene, ingoio le parole che vorrei pronunciare.
Si toglie gli occhiali da sole e per un attimo penso mi stia guardando, mi stia vedendo per davvero. “Lo so che Phillip ha poca pazienza,” mi dice alla fine. “Ma è solo stanco. Il suo lavoro è davvero impegnativo. Davvero, ci vuole bene. Riesco a vedere la bontà in lui. Nei suoi occhi. Lo sai?” Continua a parlare senza aspettare la mia risposta. “È ciò che c’è negli occhi di una persona a essere importante. Come dice il proverbio, gli occhi sono lo specchio dell’anima.”
“Le finestre,” la correggo.
Sbatte le palpebre. “Cosa?”
“Gli occhi sono le finestre che danno sull’anima. Non gli specchi.”
Mamma si allunga in avanti e poggia una mano sulla mia. È piccola, con le dita dure e asciutte come ramoscelli. “Sei così intelligente,” dice. “Sai sempre tutto.”
Il giardino frontale della villa confina con una strada non asfaltata e polverosa che va da qui a Black River. Uno steccato fatto di bambù impedisce alla casa di essere vista dal traffico occasionale, e ci nasconde dal mondo. Il giardino è pieno di fiori: jacarande viola, orchidee rosa, buganvillee rosse. Damon è lì, nell’ombra, con un cappello bianco in testa girato al contrario. Sta controllando uno degli irrigatori. È tutto così normale che mi sento un’idiota mentre mi avvicino e dico, “Devo parlare con tua sorella.”
Mi guarda; i suoi occhi sono neri, insondabili. “Mia sorella?”
“Damaris,” confermo. “Per favore.”
Dopo un attimo tira fuori il suo telefono, chiama e comincia a parlare in un dialetto così sbrigativo che non mi riesce di capire niente. Un secondo dopo chiude il
cellulare e si volta verso di me, annuendo bruscamente col capo. “Dice di aspettarla sotto l’albero di fiamma.” Fa un gesto verso un grande albero nodoso con fiori color rosso-bruno. “Da quella parte.”
Mentre sto sotto l’albero, i fiori rossicci mi piovono addosso ogni volta che una sottile brezza soffia tra i rami. Il lieve tocco dei petali sul collo e sulle spalle mi dà la stessa sensazione delle ali di un insetto contro la pelle. Devo combattere l’istinto di boccheggiare e scacciarli. Mi sento sollevata appena scorgo Damaris avvicinarsi alla recinzione di bambù e poi dirigersi nella mia direzione. Indossa un vestito di cotone del colore del tramonto, ma la sua faccia è cupa.
“L’hai vista,” mi dice senza preamboli, “non è vero?”
Tutto diventa chiaro all’improvviso: il cancello, la chiave, il giardino col vetro spezzato, ciò che ho spiato attraverso la finestra. Damaris mi osserva mentre parlo, il viso immobile, finché non ho finito, e dico, “Chi è lei, Damaris? Cos’è?”
“Vuoi davvero saperlo?” mi domanda.
“Sì,” confermo. “Per favore, dimmelo.”
“È una strega,” spiega Damaris. “Una molto antica. Non tutta la magia è malvagia, ma quella che usa lei sì. Un tempo possedeva una piantagione, o, almeno, ce l’aveva suo marito. Dicono che lui la picchiasse. Un giorno lei si ribellò, lo uccise con le sue stesse mani. Poi passò a uccidere i suoi schiavi, uno a uno. Solo gli uomini. Li faceva innamorare, e poi succhiava via la vita dai loro corpi e li lasciava a morire come gusci, come dei baccelli vuoti. Le piacciono quelli giovani e quelli graziosi, ma se non può avere loro, le vanno bene tutti. Li attira con una bevanda magica, e una volta che l’hanno assaggiata sono diventati suoi. Prende le loro vite e se ne ciba in modo da restare giovane e bella. Lo fa da secoli. A volte li uccide alla svelta, altre aspetta, gioca con loro per un po’. Proprio come sta giocando con tuo fratello.”
“Evan non è mio fratello,” replico a denti stretti. “E se sai tutte queste cose, perché non fai qualcosa tu?”
“Non può morire,” dice Damaris. “Molto tempo fa l’hanno uccisa e seppellita in una tomba con dei marchi speciali per impedirle di uscire. Ma neppure quello è bastato a bloccarla. La sua magia è forte e mortale, e dunque lei vive per sempre. Danneggiala e si vendicherà di te e dei tuoi discendenti. Ma tu… tu sei una straniera. Se te ne vai, andrai da qualche parte dove lei non potrà ferirti. È per questo che ti sto dicendo come farle del male. Si nutre delle anime che cattura. Distruggile, e le toglierai il suo potere abbastanza a lungo da poter riprendere il tuo fratellastro.”
“Ma dove le tiene?”
“Non lo so,” fa Damaris. “Ma sei una ragazza intelligente. Forse puoi scoprirlo.” Mi scruta di lato. “Ti dirò una cosa, comunque. Anne Palmer non lascia mai andare un uomo una volta che gli ha affondato nella carne gli artigli. Non in cambio di nulla.”
“Allora perché mi stai dicendo tutto questo?” Alzo la voce fin quasi a gridare. “Se non c’è niente che io possa fare per salvare Evan, se è troppo tardi, allora a che serve?”
Un fiore rosso si sacca dalla cima dell’albero e si appoggia svolazzando alla spalla di Damaris, simile a uno schizzo di sangue. “Ho detto che non lascia mai andare un
uomo in cambio di nulla,” chiarisce. “Non che non lo libererebbe in cambio di qualcosa.”
Quella sera Evan non si presenta a cena. Phillip si acciglia guardando il posto vuoto; una linea che sembra fatta con il coltello gli compare tra le sopracciglia. “Violet,” dice – scandisce il mio nome ogni volta che lo pronuncia, come se si stesse preparando a farmi la predica: Vi-oh-let. “Violet, dov’è Evan?”
Osservo il mio piatto. Dentro c’è del curry impilato, del pesce avvolto da foglie di banana e della frutta dello stesso colore di un gioiello tagliata in pezzi. La sola vista mi fa rivoltare lo stomaco. “In spiaggia, credo.”
“Beh, va’ a prenderlo.” Afferra la sua forchetta. “Ne ho abbastanza del suo continuo mancare ai pasti.”
Guardo in direzione di mia madre, che annuisce impercettibilmente, come se avesse paura di essere vista mentre mi dà il permesso. Butto il tovagliolo e mi alzo. “Vedrò se riesco a trovarlo,” dico. Nessuna promessa.
Il sole è sparito, lasciando dietro di sé la sabbia fredda e morbida che calpesto. Dall’oceano viene una brezza; mi soffia tra i capelli, asciugando il sudore umidiccio sul retro del mio collo, tra le scapole. Mi volto a osservare la casa della signora Palmer. Al buio è oscura e priva della seppur minima luce, come un fiore i cui petali si chiudono di notte. Penso a ciò che mi ha detto Damaris, e poi al viso terrificante della signora Palmer mentre si piegava su Evan, e il mio cuore si contrae. Non posso andare lì. Non posso aiutarlo né salvarlo. Non so perché Damaris abbia perso del tempo a raccontarmi tutta quella roba. Ha visto mia madre e Phillip insieme. Dovrebbe essersi resa conto che non sono in grado di salvare gli altri, neppure le persone che amo.
Mi volto di nuovo verso la villa, ed è allora che lo vedo: un brandello di blu catturato da una delle rocce dell’ingresso della caverna che Evan mi ha mostrato il primo giorno. Lo stesso blu della maglia di Evan. Mi avvicino, guardandomi intorno per essere sicura che nessuno mi stia osservando, e poi mi volto di lato per strisciare all’interno.
Mi spingo attraverso la parte stretta del piccolo tunnel, e poi arrivo nello spazio largo dove il muschio colorato scintilla sulle pareti come le luci di un party. Ci vuole un attimo perché veda Evan, seduto sulla sabbia umida ai piedi delle pareti, le gambe strette al petto, le mani sul viso.
“Evan.” Mi inginocchio al suo fianco. “Evan, cosa c’è che non va?”
Alza lo sguardo, e resto sconvolta. Nel breve lasso di tempo tra ieri e oggi pomeriggio il suo viso pare essere collassato su se stesso: è infossato e grigiastro, e i suoi occhi sono circondati da ombre scure. Le spalle sembrano scheletriche sotto la stoffa blu di cui è fatta la maglia. Prima Evan aveva un’aria meccanica, ammortita, come qualcuno sotto l’effetto di una droga stordente. Ora la droga gli è stata tolta e sta tremando, disperato. In qualche modo, così è persino peggio.
“Vi,” sussurra. “È successo qualcosa… l’ho fatta arrabbiare. Non so cos’ho combinato, ma mi ha detto di andarmene.”
“La signora Palmer? Intendi lei?” Mi allungo per toccarlo, lascio scivolare la mia mano sulla sua spalla e la stringo forte. Evan sembra notarlo a stento. “Evan, non dovresti starle vicino. Non è una brava persona. Non è… adatta a te.”
“Io devo starle vicino,” mi risponde. “Quando non sono con lei, ho la sensazione di non riuscire a respirare. Come se stessi per morire.” Raccoglie nervosamente della sabbia. “Non puoi capire.”
Oh. Questo fa male. È come se fossi solo una ragazzina che non è in grado di provare nulla. Inspiro. “La ami?”
Gli esce un risolino asciutto che non assomiglia per niente a una risata. “Ami l’acqua? O il cibo? O è solo che devi averli?” Poggia la testa contro la parete rocciosa. “Credo di stare per morire, Violet.”
“Ti riporteremo a casa,” dico. “Andremo a casa, e la dimenticherai.”
“Non voglio dimenticare,” sussurra. “Quando sono con lei… vedo tutto. Vedo i colori…”
“Evan.” Ho le guance bagnate di lacrime; mi allungo per toccargli il mento, per voltarlo verso di me. “Lascia che ti aiuti.”
“Aiutarmi?” mi chiede, ma sembra piuttosto che stia dicendo: ti prego, aiutami, e a quel punto apre gli occhi. Mi sporgo verso di lui, e le nostre labbra si incontrano da qualche parte nel mezzo di quest’oscurità, e mi ricordo di quando ci siamo baciati durante il banchetto nuziale, quando eravamo tutti e due un po’ ubriachi e stavamo ridendo sotto una tettoia fatta di finti fiori bianchi in giardino. Quel bacio aveva avuto il sapore dello champagne e del lucidalabbra, mentre ora Evan sa di mare e sale. La sua pelle è asciutta sotto le mie mani, mentre le lascio scivolare su di lui. Anche mentre rotola sopra di me e lo stringo tra le mie braccia lo sento leggero come un pezzetto di legno, e quando grida un nome, quel nome non è il mio.
Praticamente devo spingere Evan su per il sentiero fino alla villa. Quando ci arriviamo, vedo che mia madre e Phillip hanno già finito di mangiare: il tavolo è stato abbandonato, le zanzare svolazzano in massa intorno a un piatto di banane fritte. Piazzo Evan su un lettino, e lui siede mollemente col capo tra le mani.
“Torno subito,” gli dico, anche se sembra sentirmi a stento.
Mi infilo dentro attraverso le porte doppie. Non so di preciso a cosa sto pensando – se supplicassi mamma e Phillip, ci riporterebbero a casa col primo aereo disponibile, accorciando la nostra vacanza? Lo porterebbero in ospedale – qualsiasi cosa pur di trascinarlo via di qui –, anche se secondo Damaris non servirebbe a niente?
La porta della loro stanza da letto è chiusa; mi fermo lì davanti, una mano sollevata, sul punto di bussare. Riesco a sentire le voci dall’altra parte: Phillip che urla, mia madre che dice qualcosa, cercando di calmarlo; ma non serve. La voce di lui si alza persino mentre quella di mamma si affievolisce in deboli rantolii. Sta piangendo. La mia mano si blocca nel mezzo del movimento proprio come quella di una statua. I singhiozzi di mamma scivolano debolmente sotto la porta come il rumore della marea che viene risucchiata dal mare, e vengono improvvisamente interrotti dal suono di uno schiaffo, inaspettato come uno sparo. La sento sobbalzare, poi tutto tace di colpo.
“Carol…” dice Phillip. Non riesco a capire se sembra dispiaciuto o solo stanco. Non sono neppure sicura che mi importi. Sarà sempre così, penso, per il resto della mia vita; ascolterò da dietro una porta chiusa mentre Phillip lentamente distrugge mia madre, prosciugando la sua anima nello stesso modo in cui la signora Palmer sta prosciugando quella di Evan.
Mi allontano dalla porta e dal silenzio dietro l’uscio. In soggiorno l’attrezzatura da golf di Phillip brilla nella sacca di pelle che sta appesa a uno dei ganci dietro la porta d’ingresso. Prendo un ferro nove ed esco sul ponte. Evan è steso sul lettino dove l’ho lasciato, con la testa poggiata su un braccio storto. È così immobile che prima di voltarmi verso il sentiero che conduce all’oceano devo controllare il debole alzarsi e abbassarsi del suo petto per sincerarmi che è vivo.
Di notte, il mare è nero come l’inchiostro. Se fossi un fantasma che ci svolazza su, mi chiedo, riuscirei a vedere il mio volto sulla sua superficie riflettente? L’acqua batte sulla spiaggia, sollevando bianchi spruzzi di schiuma, mentre attraverso il cancello della signora Palmer e mi infilo in giardino.
Ovunque ci sono cocci di vetro che sporgono dalla sabbia; mi ricordano la pinna di uno squalo che scivola tra le onde. L’aria qui vicino all’oceano è densa e calda quando la si respira. Alzo la mazza da golf; è pesante e solida. La abbasso con violenza contro il coccio più vicino, quasi aspettandomi di vedere il ferro rimbalzarci contro. Ma il vetro si rompe, trasformandosi in un milione di piccoli pezzi. Dal suo interno si alza uno sbuffo di fumo simile a quello che esce dalle sigarette; in un attimo è già sparito nell’aria notturna.
Sto lì respirando profondamente, la mazza stretta in pugno. E poi colpisco un altro coccio, e ancora un altro. Non si sente altro che l’adorabile, argenteo suono del vetro che va in pezzi. Una luce si accende all’improvviso – quella sul portico della casa –, accecandomi, ma continuo a distruggere, a colpire vetro dopo vetro, finché qualcosa non afferra l’altra estremità del ferro nove e me lo strappa ferocemente di mano.
La signora Palmer mi sta di fronte. Non ha più l’aria perfetta; i suoi capelli sono umidi e ingarbugliati, gli occhi grandi e selvaggi. Indossa un lungo abito nero con delle maniche che non le arrivano all’avambraccio, vecchio stile. Ha davvero l’aria di essere una strega. “Che pensi di fare?” quasi grida. “Questa è proprietà privata, la mia proprietà…”
“Non ti appartengono,” le dico. La mia voce è stabile, ma non riesco a evitare di indietreggiare di uno o due passi; le infradito cozzano col suolo. “Sono anime.”
Sbarra gli occhi. “Anime?”
“O come vuoi chiamarle. Le vite che hai rubato. Le metti negli specchi. È lì che le tieni.”
La sua voce è un ringhio. “Sei pazza.”
“Ti ho visto mentre lo facevi,” le rispondo. “Ho visto ciò che hai fatto a Evan. Vi stavo osservando dalla finestra.”
Apre la bocca, e poi sposta lo sguardo sulla chiave che stringo nella mano sinistra. “Damaris,” fa. “Quella donna è un’impicciona. Non sa mai quando stare lontana dagli affari degli altri.”
“Voglio che lasci in pace il mio fratellastro,” dico. “Che lasci andare Evan.”
A dispetto della rabbia le sue labbra rosse si curvano in un sorriso. “Damaris deve averti spiegato che non è così semplice.”
“Se non lo lasci andare, tornerò – romperò i cocci restanti –, dirò al mondo dove tieni le anime, così lo sapranno tutti…”
“Il tuo fratellastro,” mi interrompe. “Mi ha parlato di te. Sapeva della tua cotta per lui. Mi ha detto che lo trovava divertente.” La rabbia è sparita dalla sua voce; ha di nuovo la stessa cadenza di quando ha offerto la bottiglia di succo a Evan. “Per lui eri un divertimento, Violet. Quindi perché darti così tanta pena per salvarlo?”
Le sue parole fanno male. Mi dico che sta mentendo, ma fa male comunque, è un taglio fatto con una lama affiliata; come se avessi versato del succo di limone su una ferita. Respiro. “Lo amo. Damaris ha detto che poteva aiutarlo solo una persona innamorata di lui…”
“Ma lui non ti ricambia,” dice la signora Palmer. “Gli uomini sono fatti così. Prendono l’amore che dai loro e lo torcono fino a farlo diventare un bastone con cui picchiarti.” Osserva la mazza da golf che stringe tra le dita; l’occhiata che le lancia è feroce. “Dimmi che non ho il diritto di pareggiare i conti, Violet. Che al posto mio non faresti lo stesso. Gli uomini sono una maledizione per l’esistenza di noi donne e tu lo sai bene.”
Nella mia testa vedo Phillip e mia madre inginocchiata ai suoi piedi che raccoglie pezzi di frutta con le sue dita sanguinanti. “Non so cosa penso degli uomini,” le dico. “Ma Evan è solo un ragazzo. Non è né buono né cattivo né altro. Non dovrebbe essere punito.”
“Crescerà e diventerà come tutti gli altri,” risponde la signora Palmer, che ha ucciso il marito nel suo stesso letto. Con voce distante continua, “Lo fanno tutti. È per questo che non te lo restituirò.”
Penso al marito di Anne Palmer, l’uomo col bastone. “Damaris ha detto che non avresti lasciato andare Evan in cambio di niente,” le rispondo. “Ma lui è giovane e debole. E se potessi darti al posto suo qualcuno di anche migliore?”
Nel buio, simile all’improvviso, accecante bagliore delle lucciole, vedo il sorriso di Anne Palmer. “Dimmi,” mi esorta.
Mi sveglio al mattino col sole che splende e gli uccellini che cinguettano. Resto stesa sul mio letto con la rete per un po’. Sarebbe tutto più semplice se la scorsa notte non ci fosse mai stata, se non ci fosse stata alcuna sua parte, ma quando volto la testa vedo la bottiglia di plastica sul comodino, proprio vicino alla sveglia. Il liquido pallido emana bagliori arcobaleno, come una chiazza di petrolio.
Mi butto addosso un vestito da spiaggia e infilo i piedi nelle infradito. Ho dei taglietti qui e là intorno alle anche, lì dove il vetro volante mi ha colpito la pelle, ma sono abbastanza sicura che li scambieranno tutti per morsi d’insetto. Recupero la bottiglia prima di uscire dalla stanza. Quando la inclino, il liquido all’interno fa un rumore profondo e violento.
Damaris è in cucina che frigge bacon in una padella. Non dice nulla, ma mi accorgo che mi sta osservando con la coda dell’occhio mentre prendo un bicchiere dalla credenza e lo riempio di ghiaccio. Tolgo il tappo della bottiglia di plastica che mi ha dato ieri notte la signora Palmer e verso il liquido sul ghiaccio. Scivola lentamente, denso come lava. Ha un vago odore di medicinale, di erbe. Mentre lo osservo, Damaris mi si avvicina e piazza un pezzo di limone nel bicchiere. “Ecco,” fa. “Digli che è per il suo mal di testa.”
Annuisco e porto il bicchiere sul ponte. Evan è ancora steso sul lettino, ma ora ha gli occhi aperti e la sua pelle ha recuperato un po’ di colore.
Non si ricorderà niente?, ho chiesto alla signora Palmer nel suo giardino di vetro, le anime che sembravano schegge di brillanti denti seghettati tutt’intorno a noi. Me lo prometti?
Non ricorderà, mi ha giurato. Solo la vacanza. Il sole. La sabbia. E poi l’incidente.
Mia madre è seduta su una sedia accanto a Evan, e si agita cercando di obbligarlo a tenersi un asciugamano freddo sulla faccia; lui le allontana la mano nervosamente, ma almeno la sua voce è forte mentre dice di no. Mamma indossa di nuovo gli occhiali da sole scuri, ma stavolta non bastano a nascondere l’assenza di colore sulla sua guancia. Li guardo a lungo prima di attraversare il ponte e raggiungere la nicchia scura dove Phillip si è seduto col giornale aperto in grembo.
“Ciao,” dico.
Alza lo sguardo, osservandomi con quel suo volto meschino e freddo privo di espressione sotto la luce del sole. Non c’è rimorso nel modo in cui mi guarda, né sembra ammettere dentro di sé che ieri notte ha fatto qualcosa che non gli perdonerò mai, neppure con mamma che lo scusa. Ma in ogni caso dubito che a Phillip interessi qualcosa di ciò che provo. Non mi ha mai considerata una persona, mai un essere in grado di elargire perdono o negarlo.
Dev’essere veloce, non lento, ho detto alla signora Palmer. Non voglio che gliela estragga lentamente. Voglio che tu lo faccia tutto in una volta.
Lei mi ha sorriso mostrando i suoi appuntiti denti bianchi. Tutto in una volta, ha giurato, e mi ha allungato qualcosa di piatto e brillante e tagliente. Un pezzo di un vetro infranto.
L’anima di Evan.
È tua, ha spiegato. Puoi tenerla, o rompere il vetro e restituirgliela completamente.
L’ho infilata sotto al letto, la scorsa notte; lì riflette la luce lunare. La romperò stanotte, mi dico. Rompere il vetro e dare a Evan la sua anima. Lo farò stanotte.
O domani.
Allungo il bicchiere a Phillip. Sotto i raggi del sole sembra della normalissima acqua con un pallido spicchio di limone che ci galleggia dentro. E anche così riesco a sentire il sibilante sussurro emesso dal liquido mentre cozza col ghiaccio. O forse me
lo sto solo immaginando. “Ecco,” mormoro. “Te lo manda Damaris. Dice che ti farà passare il mal di testa.”
Si acciglia. “Come fa a sapere che ho mal di testa?” Non rispondo, e dopo un attimo poggia il giornale e mi toglie il bicchiere di mano. “Grazie, Violet,” dice con quel suo tono formale e rigido.
E poi prende un sorso. Osservo la sua gola mentre il liquido gli scivola in corpo. Non ho mai guardato Phillip in modo così affascinato, prima d’ora. Alla fine poggia il bicchiere e chiede, “Che tipo di succo era?”
“Aloe,” gli rispondo. “Damaris dice che è ottimo per guarire.”
“Idiozie popolane.” Sbuffa e si allunga per recuperare il quotidiano.
“C’è un’altra cosa,” aggiungo. “Quella donna, la signora a cui Evan stava dando una mano… beh, la sua macchina è ancora rotta. Ha detto che Evan non è stato in grado di trovare il problema.”
Phillip sbuffa. “Avrei potuto dirglielo io. Evan non sa niente di auto.”
“Sperava potessi andare a dare un’occhiata,” gli dico. “Dal momento che tu ne capisci. Probabilmente sai molte più cose di Evan.”
“Giusto. È così.” Afferra di nuovo il bicchiere, lo svuota e si lecca le labbra. “Immagino di dover andare a dare una mano a quella povera donna.” Si alza.
“Sarebbe grandioso.” Indico il sentiero. “Vive lì, nella casa rosa, quella che sembra un fiore. Ti sta aspettando.”
Lo sta aspettando sul serio. È il mio patrigno, le ho detto. È forte, più forte di Evan. Più vecchio. E picchia mia madre. Proprio come tuo marito picchiava te.
Phillip mi dà goffamente un colpetto sulla spalla. “Sei una brava ragazza.”
No, penso. Sono tante cose, ma questa no. Perché da qualche parte nella casa rosa Anne Palmer sta aspettando, Anne Palmer con le sue labbra rosse e il suo giardino di vetro, e i suoi specchi che ti rubano l’anima. Osservo Phillip mentre trotterella sul sentiero, un po’ rigido nelle sue nuove infradito, la luce del sole che gli rimbalza sulla testa nei punti in cui i capelli stanno cominciando a cadere. Lo guardo e non dico niente. Lo guardo e so che non tornerà mai indietro.
Avete visto che Cassie ha pubblicato un nuovo post si tumblr, ho capito male io o sarebbe stato l’ultimo post su the infernal devices?
P.S. il post di Cassie contiene SPOILER di Clockwork Princess
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