Ed ecco arrivare, per i diecimila mi piace in pagina (ormai superati da un po’, ma mi perdonerete, vero?), la traduzione di Some Fortunate Future Day, il racconto di Cassie contenuto nell’antologia Steampunk! 🙂
Ovviamente, vi chiediamo di non prelevare il racconto, perché è bello lunghetto, mi è costato fatica trovare il tempo di terminare la traduzione ed è un regalo che noi di Shadowhunters.it facciamo a quanti ci seguono con passione e costanza. :3 Potete comunque condividere il link, se vi interessa farla leggere a qualcuno!
NB: se qualche casa editrice dovesse mai acquistare i diritti di pubblicazione di Steampunk!, ovviamente rimuoveremo la traduzione dal sito.
Il tempo è molte cose, le aveva detto suo padre. È un cerchio, e un grande ingranaggio che non può essere fermato, e un fiume che porta via tutto ciò che ami.
Mentre glielo diceva, guardava sempre il ritratto della madre di Rose, sistemato sopra la mensola del camino. Era riuscito a inventare il meccanismo per il controllo del tempo solo un paio di mesi dopo la sua scomparsa. E questo era sempre stato il suo rimpianto più grande, anche se talvolta Rose si chiedeva se, se non avesse avuto la guida dello struggente potere del dolore, sarebbe mai stato in grado di crearlo. La maggior parte delle altre sue invenzioni non funzionava neppure lontanamente così bene. Il robot da giardino spesso zappava i fiori al posto delle erbacce. Il cuoco meccanico era in grado di fare un unico tipo di zuppa. E le bambole parlanti non dicevano mai a Rose nulla che lei volesse sentirsi dire.
“Pensi che tornerà mai?” chiede Ellen. Sta parlando del padre di Rose. Ellen è la bambola parlante coi capelli scuri, quella impertinente. Le piace ballare per la stanza mostrando le caviglie. Sistema le zollette di zucchero nel servizio da tè in modo che formino parole sgarbate. “Forse ha iniziato a bere. Ho sentito dire che tra i soldati è una cosa comune.”
“Shh,” dice Cordelia. Cordelia è la bambola gentile, quella coi capelli rossi e silenziosa. “Le signorine non dovrebbero parlare di argomenti simili.” Si volta verso Rose. “Ti andrebbe dell’altro tè?”
Rose lo accetta, anche se adesso è più simile a dell’acqua calda insaporita con qualche foglia del giardino che al vero tè. Quello l’ha finito mesi fa. C’è stato un tempo in cui il cibo e il tè e le masserizie erano regolarmente consegnati all’abitazione dal garzone del droghiere della città vicina. Era stato solo qualche settimana dopo che aveva smesso di presentarsi che Rose aveva trovato il coraggio di indossare il suo cappellino, raccogliere qualche moneta dalla scatola sulla mensola del camino e andare da sola in città.
Quello era stato il momento in cui aveva compreso perché il garzone avesse smesso di consegnare la merce.
La città era stata rasa al suolo. Grosse crepe zigzaganti correvano attraverso le strade, e dal loro interno fuoriusciva del vapore. Nel terreno si erano aperte enormi cavità, le case pendevano per metà di lato.
Rose si era chiesta come avesse fatto a non sentire i rumori della distruzione, sebbene casa sua fosse a più di un miglio di distanza. Ma, del resto, i dirigibili volavano in cielo quasi ogni notte, gettando bombe incendiarie nella foresta vicina, con la speranza di scovare spie e disertori. Forse ci si era semplicemente abituata.
Si era avvicinata al bordo di una delle enormi fosse e aveva guardato al suo interno. Poteva vedere la cima del campanile della chiesa, che era ancora ritta e quasi raggiungeva la cima della cavità. Tutt’intorno c’era odore di decadenza. Si era domandata se gli abitanti della città avessero trovato rifugio in chiesa, quando i Dragoni erano arrivati – aveva visto delle foto dei guerrieri Drago, in passato; tubi di rame enormi, ribattuti, coperti di bombe incendiarie. Si era detta che suo padre aveva ragione. Le città erano posti pericolosi per le donne giovani e sole.
“Siamo felici, qui, non è vero?” dice Cordelia con la sua sottile voce da bambola.
“Oh, sì,” risponde Rose, versandosi l’acqua colorata nella tazza. “Molto felici.”
Quando Rose aveva otto anni, suo padre le aveva comprato un coniglietto bianco come animale domestico. All’inizio se n’era presa buona cura, accarezzandogli le lunghe orecchie setose con le dita, dandogli la lattuga con le mani. Un giorno, mentre lo stringeva tra le braccia come un bambino, lasciando che sgranocchiasse una carota che lei stringeva con la punta delle dita, il coniglietto le aveva affondato i denti nella carne, non capendo dove finiva la carota e cominciava Rose. Lei aveva urlato l’aveva gettato a terra. Si era sentita immediatamente in colpa, ma era inutile: il coniglietto era morto, e Rose era inconsolabile.
Era stato allora che suo padre le aveva mostrato il meccanismo per il controllo del tempo.
Sono passati quasi sei mesi dal giorno in cui suo padre se n’è andato in guerra. Anche se non li sta segnando sul calendario, Rose sa di star diventando troppo grande per i suoi vestiti. Le stringono troppo sul seno, adesso, e sono troppo corti. Non che questo importi, quando non c’è nessuno che possa vederla.
Esce in giardino per raccogliere gli ingredienti per il cuoco. Un tempo sapeva preparare ogni genere di cibo, ma adesso si è rotto e cucina solo una zuppa – qualsiasi cosa tu inserisca al suo interno diventa una sorta di spessa brodaglia. Il robot giardiniere la segue – in effetti, è lui a fare la maggior parte del lavoro. Vanga, e fa persino i solchi, e pianta i semi; schiaccia gli insetti e gli altri parassiti. Usa le sue pinze per misurare i vegetali e la frutta da raccogliere.
A volte, fuori in giardino, Rose vede fumo in lontananza e sente i dirigibili sopra la sua testa. Trova anche altre cose insolite, marchi della guerra nel cielo. Una volta ha trovato una gamba metallica strappata tra le carote e le zucchine, e ha detto al robot giardiniere di sbarazzarsene. Lui l’ha trascinata nella pila di concime, lasciando dietro di sé una scia d’olio scuro. A volte trova dei volantini che mostrano immagini di bambini affamati o di grandi mani di metallo che schiacciano famiglie innocenti, ma le parole sono in una lingua che Rose non capisce.
Questa volta trova un uomo. Il robot giardiniere lo nota per primo e fischia di sorpresa come un bollitore. A Rose stessa quasi scappa un urlo: è passato un sacco di tempo da quando ha visto per l’ultima volta un altro essere vivente. Le sembra strano, via via che si avvicina. È collassato tra i cespugli di rose, e ha una spalla coperta dall’uniforme blu – quindi è dalla sua parte, non un soldato nemico – scura per il sangue. Sta gemendo, dunque Rose è certa che non sia morto. Le spine delle rose l’hanno graffiato e lacerato, e il suo sangue è la cosa più brillante e rossa che le capita di vedere da sei mesi, molto più brillante delle rose.
“Portalo in casa,” dice al robot giardiniere. Lui scatta e gli ronza attivamente attorno, ma le sue pinze sono affilate, e quando cerca di chiuderle intorno al polso del soldato, l’uomo sanguina dolorosamente. Grida senza aprire gli occhi. Ha un viso molto giovane e liscio, la pelle quasi traslucida, i capelli di un biondo chiarissimo, quasi bianchi. Indossa gli occhiali dei membro dell’equipaggio dei dirigibili intorno al collo, e Rose si chiede da quale battaglia nel cielo sia caduto, e da che altezza sia dovuto precipitare.
Alla fine allontana il robot giardiniere e si avvicina con attenzione al soldato. Ha un fucile a energia legato alla cintura; Rose glielo scioglie e lo dà al robot perché lo smaltisca. Poi inizia a cercare di liberare il soldato dai rovi aggrovigliati. Ha la pelle calda, quando Rose lo tocca, molto più calda di quanto lei ricordi essere la pelle umana. Ma forse è solo che è passato così tanto tempo che non rammenta più bene.
Per metà trascina il soldato, per metà lo trasporta su per le scale e dentro la stanza di suo padre. Non ci è più stata da quando se n’è andato e, a dispetto delle cure dei robot pulitori, la camera ha un odore malsano, stantio. I pesanti mobili di legno sembrano incombere su di lei, mentre Rose sente improvvisamente di essere diventata piccola come Alice nel libro per bambini. In qualche modo riesce a sistemare il soldato sul letto, sotto le coperte, e usa le forbici per tagliar via i pezzi insanguinati della sua uniforme, scoprendogli la spalla. Lui la combatte debolmente, come un micino, e lei gli mormora silenzio, e che lo sta facendo per il suo bene.
C’è una ferita che gli attraversa la parte alta della spalla. È rossa e gonfia e puzza d’infezione. Delle linee rosso scuro fuoriescono dai bordi raggrinziti. Rose sa che quei segni significano morte. Entra nello studio del padre e tira giù una delle scatole dalla mensola del camino. È legno lucido, scivoloso, e Rose sente un rumore cinguettante, simile a quello degli uccelli, provenire dall’interno.
Tornata al piano di sopra, il soldato sta tossendo nel letto di suo padre, gridando parole incomprensibili. Rose vorrebbe che ci fosse qualcun altro, qualcuno che lo tenga giù mentre lei apre la scatola e lascia che le sanguisughe meccaniche gli corrano su per il corpo. Lui urla e le colpisce, ma le sanguisughe gli si avvinghiano tenacemente. Si attaccano alla ferita e alla pelle intorno, i loro corpi ramati per metà traslucidi che si gonfiano e scuriscono mentre una dopo l’altra si riempiono di sangue e cadono di lato. Quando hanno finito, il soldato sta piagnucolando e artigliandosi. Rose si siede sul letto accanto a lui e gli carezza i capelli. “Su, su,” dice. “Su, su.”
Lentamente, il soldato si calma. I suoi occhi si aprono e poi richiudono. Sono di una sfumatura di blu molto pallida. Porta delle targhette intorno al collo. Rose le solleva ed esamina attentamente. L’uomo si chiama Jonah Lawrence ed è sottotenente del dirigibile Skywitch. “Jonah,” sussurra Rose, ma i suoi occhi non si riaprono.
“Si innamorerà di me,” dice a Ellen e Cordelia durante il tè, dopo che il soldato si è addormentato. “Lo curerò finché non tornerà in salute, e poi mi amerà. Succede sempre così, nei libri.”
“È una bellissima notizia,” risponde Cordelia. “Che significa?”
“Amore, stupida,” fa Rose, irritata. “Sai cos’è l’amore, vero?”
“Lei non sa nulla,” dice Ellen, facendo tintinnare, divertita, la sua tazzina. Dopo una pausa aggiunge, “E neanche io. Che cosa intendi?”
Rose sospira. “Amore significa che qualcuno vuole stare con te tutto il tempo. Tutto ciò che desidera è renderti felice e donarti cose. E se lo lasci, sarà miserabile in eterno.”
“Sembra terribile,” commenta Cordelia. “Spero che non succeda.”
“Non dirlo,” risponde Rose. “O ti schiaffeggerò.”
“Tu ci ami?” chiede Ellen.
La domanda resta sospesa in aria, e Rose non è sicura di come rispondere. Alla fine dice, “Cordelia, sei brava col tuo ago. Vieni con me. Ho bisogno che mi aiuti a cucire la sua ferita, o non guarirà.”
Rose si siede e osserva Cordelia mentre con le sue piccole manine cuce la ferita sulla spalla di Jonah. La pozione per il sonno che gli ha dato prima lo sta tenendo silenzioso, anche se Ellen gli sta comunque seduta sul gomito, nel caso dovesse svegliarsi e dimenarsi. Non sembra averne intenzione, in ogni caso. Rose comincia a temere di avergli dato troppa pozione, e che questo lo abbia ucciso. L’idea è molto drammatica – che tragedia sarebbe, come quella di Romeo e Giulietta.
Quando finalmente si sveglia, nella stanza ci sono solo loro due. È quasi l’alba, e una luce acquosa gocciola attraverso le finestre. I suoi occhi si aprono, e Rose si sporge in avanti dalla sedia accanto al letto, facendo cadere a terra il suo libro e la coperta che teneva in grembo. “Sei sveglio?” gli chiede.
Lui la guarda con occhi limpidi. “Chi sei?”
“Sono Rose,” gli dice. “Ti ho trovato nel mio giardino sul retro. Devi essere caduto dal tuo dirigibile.”
“Sono stato sparato…” Il soldato si porta una mano alla spalla e sente i punti di sutura. La guarda. “Hai fatto tutto questo,” dice. “Mi hai curato?”
Rose annuisce con modestia. Non c’è bisogno di citare il contributo di Ellen e Cordelia. Non è che siano persone reali.
Jonah le prende il polso. “Grazie,” dice. La sua voce è roca e dolce. “Grazie per avermi salvato la vita.”
Rose è deliziata. Sta già cominciando a innamorarsi di lei.
Dopo la morte del coniglio, Rose aveva singhiozzato per ore in camera sua. Alla fine era arrivato suo padre. Ricorda la sua ombra che cadeva attraverso il letto mentre le diceva, “Siediti, piccola Rose. C’è qualcosa che voglio mostrarti.”
Suo padre era un uomo grosso, con grandi mani capaci, tipo un giardiniere o un contadino. In una stringeva un oggetto simile a un telescopio – o no, aveva pensato mentre le si sedeva accanto, era un orologio, perché all’estremità aveva un quadrante con delle lancette. “Quando tua madre è morta,” aveva detto suo padre, “ho costruito questo. Pensavo di poter tornare indietro. Dirle di non andare a cavallo, quel giorno. Ma non sono mai stato in grado di farmi riportare indietro di più di una settimana, e per allora lei era già morta da anni.” Aveva porto l’oggetto a Rose. “Puoi tornare indietro, se lo desideri,” aveva detto, burbero. “Se giri le lancette così – e così – puoi tornare al momento in cui il tuo coniglio era ancora vivo.”
Rose era deliziata. Aveva preso lo strumento dalle mani del padre e aveva girato le lancette come le aveva mostrato lui, in modo da tornare a quella mattina. Poi aveva chiuso l’oggetto di scatto. Per un terrificante istante aveva avuto la sensazione di precipitare in un pozzo, con tutto che sfrecciava verso l’alto, lontano da lei. E poi era di nuovo nella sua stanza, il coniglio bianco nella gabbia, e tra le mani non stringeva più il meccanismo.
Compiaciuta, si era precipitata verso la gabbia e l’aveva aperta, sollevando il coniglio e cullandolo contro di sé, stringendolo con forza finché l’animale non era rimasto immobile tra le sue braccia. Aveva allentato la stretta per l’incredulità, ma la creatura era floscia come uno straccio. Rose aveva ricominciato a singhiozzare, ma questa volta, quando il padre era andato a controllare quale problema avesse, non lo glielo aveva spiegato. Lui non ricordava di averle mostrato il meccanismo per il controllo del tempo, e lei si vergognava troppo per chiederglielo di nuovo.
Jonah è sconvolto dall’apprendere che Rose è sola in casa, eccezion fatta per i suoi servitori robotici. Le pone infinite domande: chi è suo padre (non l’ha mai incontrato, ma pensa di aver già sentito il suo nome, in passato), da quanto tempo l’ha lasciata, quando è stata distrutta la città, come mangia, vive, sopravvive? Lei gli porta la zuppa su dei vassoi e siede accanto a lui, rispondendo alle sue domande, talvolta sconcertata dal suo stupore. Del resto, questa è l’unica vita che abbia mai conosciuto.
In cambio, Jonah le racconta di sé. Ha solo diciotto anni; è il più giovane sottotenente dell’esercito. Vive nelle Capitale, che Rose ha sempre immaginato come un posto con bellissime torri svettanti, simile a un castello su una collina. Jonah le spiega che somiglia di più a un luogo in cui tutti corrono ovunque molto alla svelta. Le parla della libreria, in cui gli scaffali di libri si sollevano fino al cielo e puoi raggiungerli su delle piattaforme che funzionano a vapore. Le racconta del treno magnetizzato che corre intorno al piano più alto della città, da cui si possono vedere le nuvole. Le dice che ci sono automi che creano vestiti in grado di cucire un abito di seta per una signorina in meno di un giorno, e consegnarlo con la posta pneumatica. Rose strattona il suo banale e infantile vestito di cotone, poi arrossisce.
“Mi piacerebbe andarci,” commenta, guardandolo con gli occhi spalancati. “Nella Capitale.”
“È impressionante quel che sei riuscita a fare qui, con quel poco che hai,” dice lui. “Sono stato davvero fortunato a cadere dal dirigibile così vicino alle tue porte.”
“Sono io quella fortunata,” risponde Rose, ma in tono così sommesso che forse Jonah non l’ha sentita.
“Vorrei che potessi incontrare le mie sorelle,” le dice. “Resterebbero davvero commosse dal tuo eroismo.”
Rose riesce a stento a contenersi. Vuole che incontri la sua famiglia! Il suo amore per lei deve essere davvero serio. Distoglie lo sguardo perché Jonah non veda il lampo di delizia che le è passato negli occhi, e così facendo coglie il luccichio di un paio di occhi scintillanti che li fissa da un pannello in un angolo della stanza. Cordelia, pensa, o Ellen. Dovrà rimproverarle per il loro modo di spiare.
“Non dovete spiare Jonah,” dice a Ellen. Stanno mangiando della zuppa in delle piccole tazzine di ossa. “Dovete rispettare la sua privacy proprio come rispettavate quella di papà.”
“Ma dove vivrà una volta che tuo padre sarà tornato?” chiede Cordelia. “Dovrà essere messo in un’altra stanza.”
“Quando saremo sposati, vivremo nella stessa stanza,” spiega pomposamente Rose. “È questo che fanno le persone sposate.”
“Quindi si trasferirà in camera tua?” Il viso di Ellen è tutto contorto per lo stupore: probabilmente sta pensando al lettino di Rose, a stento grande abbastanza per un’unica persona.
“Niente affatto,” dice Rose. “Non resteremo qui, una volta sposati. Dovremo andare nella Capitale e vivere lì.”
C’è un silenzio sgomento. Poi Cordelia osserva, “Non penso che la Capitale ci piacerà molto, Rose.”
“Allora potete restare qui,” dice Rose. “Le signorine cresciute non giocano con le bambole, in ogni caso. E qualcuno dovrà badare alla casa finché papà non sarà tornato.”
Aggiunge l’ultima frase per attutire il colpo, ma le bambole non sembrano confortate. Cordelia inizia a emettere dei lamenti che spaccano le orecchie di Rose. Sente qualcuno correre nel corridoio, e poi la porta si spalanca: è Jonah, vestito con gli abiti di suo padre. “Santo Dio,” dice, “c’è qualcuno che sta venendo ammazzato, qui dentro?”
“È solo Cordelia,” minimizza Rose, e si volta verso entrambe le bambole, il viso bianco per la collera. “Smettila. Smettila.”
Stanno entrambe in silenzio, fissando Jonah. Anche Rose lo sta fissando. Non si era resa conto, fino a ora, di quanto fosse alto. È così bello, persino con indosso gli abiti di suo padre, da farle male agli occhi. “Che sono quelle cose?” le domanda, indicando Cordelia ed Ellen.
“Nulla,” risponde frettolosamente, e si alza pensando a quanto deve considerarla infantile, visto che prende il tè con le bambole. “Solo dei giocattoli che mio padre ha fatto per me.”
L’espressione di Jonah non cambia. “Ti andrebbe di fare una passeggiata in giardino con me, Rose?” le chiede. “Penso che potrebbe farmi bene un po’ di aria fresca.”
Rose si affretta al suo fianco senza guardarsi indietro per controllare se le bambole li stanno guardando.
Passeggiano tra le aiuole piantate con attenzione, e Rose cerca di spiegare. “Non è colpa loro – tendono a turbarsi per ogni piccola cosa,” dice.
“Non ho mai visto nulla di simile,” risponde Jonah, afferrando un sassolino e facendolo saltare sulla superficie dello stagno. “Automi con reazioni genuine – sentimenti genuini.”
“Sono prototipi,” spiega Rose. “Ma mio padre pensava che dare loro delle personalità fosse più fonte di problemi che altro, quindi non ha mai venduto il progetto.”
“Tuo padre,” dice Jonah scuotendo il capo, “dev’essere una qualche sorta di genio, Rose. Cos’altro ha inventato?”
Gli racconta del robot giardiniere e del cuoco. Jonah afferma di essersi domandato perché sembrassero non avere mai nient’altro che zuppa da mangiare. Rose prende in considerazione l’idea di parlargli del meccanismo per il controllo del tempo, ma non riesce a sopportare l’idea di raccontargli la storia del coniglio. La crederebbe crudele. Per tutto il tempo, mentre Rose parla, Jonah annuisce, riflettendo, impressionato.
“Non riusciranno a crederci, nella Capitale,” dice, e il cuore di lei si impenna. Era stata quasi sicura che Jonah stesse progettando di portarla via con sé, una volta pronto a partire – ma adesso ne ha la certezza.
“E quando credi che starai abbastanza bene per riuscire a fare il viaggio di ritorno?” domanda, gli occhi puntati con modestia verso il terreno.
“Domani,” le risponde. Una ghiandaia blu sta chiamando dalla cima di un albero, e Jonah alza il capo per seguire il rumore.
“Allora dovrò preparare una cena speciale, questa sera. Per festeggiare il fatto che tu stia bene.” Rose gli prende la mano, e lui sembra sorpreso.
“Mi sembra un’idea davvero gradevole, Rose,” le dice, e si volta, così che si ritrovano a camminare di nuovo in direzione della casa. La mano di Jonah scivola via da quella di Rose. Non sembra un gesto intenzionale, e lei si dice che non significa nulla. Se ne andranno insieme, domani. È questo ciò che ha importanza.
Quando Rose torna dalla passeggiata, trova Ellen nella sua stanza, seduta sul letto. Cordelia è sul davanzale, canticchiando una canzone senza melodia. Nel momento in cui Rose entra, trascinando con sé un baule vuoto che ha preso dalla soffitta, Ellen si arrampica per sedercisi sopra, calciando i suoi piccoli tacchi contro i lati. “Non puoi andartene e lasciarci,” esclama mentre Rose la spinge con determinazione di lato e inizia a impilare i suoi abiti.
“Sì, posso,” le risponde Rose.
“Nessuno si prenderà cura di noi,” dice in tono desolato Cordelia dal davanzale.
“Papà tornerà indietro e si prenderà cura di voi.”
“Non tornerà mai indietro,” esclama Ellen. “Se n’è andato ed è morto in guerra, e adesso te ne vai anche tu.” Non può piangere – non è mai stata progettata perché potesse riuscirci –, ma la sua voce sembra un lamento.
Rose chiude di scatto il baule con un ultimo suono. “Lasciatemi sola,” ordina, “o vi spegnerò entrambe. Per sempre.”
Dopo, restano in silenzio.
Rose si veste con cura, indossando uno dei vecchi abiti di sua madre. Del pizzo le cade dai polsini e dall’orlo. Scende in cantina e trova il resto delle pesche sciroppate e un’unica bottiglia di vino. C’è anche della carne secca, e farina e pane vecchio. Non c’è più alcuna utilità nel conservare queste cose, visto che se ne andrà, quindi frigge le verdure del giardino insieme alla carne secca, e mette tutto sul tavolo con le porcellane, il vino e le conserve.
Jonah ride, quando scende al piano di sotto e vede ciò che Rose ha fatto. “Beh, hai fatto del tuo meglio,” osserva. “Mi ricorda i festini di mezzanotte che un tempo facevo con le mie sorelle, quando razziavamo la dispensa di notte.”
Rose gli sorride di rimando, ma è consapevole degli occhi che li stanno osservando dall’ombra – figure piccole che guizzano e spariscono ogni volta che le guarda. Cordelia ed Ellen. Augura mentalmente a entrambe di finire all’inferno e poi torna a sorridere a Jonah. Lui è tutto scherzoso, mentre le riempie il bicchiere, fa lo stesso col proprio e poi propone un brindisi in onore della loro vittoria. Rose ha dimenticato per cosa stanno combattendo e contro chi stanno lottando, ma breve comunque il vino: ha un gusto oscuro e pungente, come la polvere della cantina, che lei finge di apprezzare. Svuota il bicchiere e Jonah glielo riempie di nuovo, insieme a un nuovo brindisi: questo, le dice, è in onore delle donne come lei; la guerra sarebbe già stata vinta da un pezzo se tutte le damigelle fossero valide quanto lei. Rose scopre che, benché il vino abbia un cattivo sapore, la riempie di un piacevole calore mentre lo beve.
Al terzo giro di brindisi, con la bottiglia quasi vuota, Jonah si alza. “E infine,” dice, “un brindisi in onore di quel fortunato giorno futuro in cui, forse, una volta che la guerra sarà conclusa, ci rincontreremo.”
Rose si immobilizza, il bicchiere a metà strada verso la sua bocca. “Cos’hai detto?”
Jonah ripete il brindisi. Ha gli occhi brillanti, le guance arrossate. Sembra un poster per il reclutamento dei piloti dei dirigibili: In cerca di uomini giovani, resistenti, pratici e coraggiosi…
“Ma pensavo che sarei venuta con te, una volta che fossi partito per la Capitale,” gli risponde Rose. “Pensavo che avessi intenzione di portarmi con te.”
Jonah sembra sorpreso. “Ma, Rose, la strada per tornare alla Capitale è attraverso il territorio nemico. È troppo pericoloso…”
“Non puoi lasciarmi qui,” gli dice.
“No, certo che no. Avevo pensato di allertare le autorità una volta tornato, così che ti mandassero qualcuno. Non sono insensibile, Rose. Capisco cos’hai fatto per me, ma è troppo pericoloso…”
“Nulla è troppo pericoloso, se siamo insieme,” risponde Rose. Se non erra, ha sentito qualcuno dirlo in un romanzo.
“Non è affatto vero.” Jonah sembra agitato dal suo rifiuto di comprendere. “Mi sarà molto più semplice muovermi, se non dovrò preoccuparmi per te, Rose. E non sei stata addestrata per sopportare qualcosa di simile. È semplicemente impossibile.”
“Pensavo che mi amassi,” dice Rose. “Pensavo che saremmo andati nella Capitale in modo da poterci sposare.”
C’è un silenzio pieno di orrore. Poi Jonah se ne esce con, “Ma, Rose, io sono già fidanzato. La mia fidanzata, il suo nome è Lily – posso mostrarti una sua cromolitografia…” Si porta una mano alla gola, dove un lucchetto pende da una catenella. Ma Rose non prova alcun interesse per questa ragazza, questa fidanzata che porta, come lei, il nome inglese di un fiore. Salta in piedi e si allontana da lui, anche quando Jonah cerca di avvicinarsi a lei. “Penso a te come se fossi la mia sorellina, Rose…”
Rose lo supera, corre su per le scale ed entra nello studio di suo padre, sbattendo la porta dietro di sé. Può sentirlo mentre la chiama, ma dopo un po’ le grida di Jonah finiscono, e c’è silenzio. Fuori il sole ha cominciato a sorgere, e la stanza è piena di una luce rossastra. Rose scivola per terra, la testa tra le mani, e comincia a piangere. I singhiozzi le scuotono il corpo. Sa che delle mani le stanno toccando i capelli, e altre le carezzano la schiena. Ellen e Cordelia la circondano, coccolandola come se fosse una bambina in lacrime. Rose singhiozza per ore, ma le due bambole non si stancano; è Rose, alla fine, la prima a stancarsi. Le sue lacrime rallentano e poi si fermano, e lei fissa la parete, assente, lo sguardo puntato nel vuoto.
“Si sarebbe dovuto innamorare di me,” dice ad alta voce. “Devo aver fatto qualcosa di sbagliato.”
“Tutti commettono degli errori,” osserva Ellen.
“È tutto per il meglio,” fa Cordelia.
“A me non è mai piaciuto, in ogni caso,” aggiunge Ellen.
“Se solo potessi rifare tutto da capo,” dice Rose. “Questa volta sarei diversa. Più affascinante. Lo farei innamorare di me e dimenticare tutto il resto.”
“Non importa,” risponde Cordelia.
L’alba sta illuminando la stanza. Rose si alza in piedi e va verso la scrivania di suo padre. Fruga nei cassetti finché non trova ciò che sta cercando, poi torna alla finestra. Da lì, guardando in basso, riesce a vedere la porta d’ingresso, il giardino, il prato e la foresta in lontananza.
Le bambole schiamazzano intorno alle sue gambe come bambini, ma Rose le ignora. Non ha nient’altro che tempo. Il sole è alto nel cielo quando la porta d’ingresso si apre e Jonah esce dalla casa. Sta indossando la sua uniforme, quella rattoppata nel punto sulla spalla che Rose ha dovuto tagliare. Tra le mani non ha niente; andandosene, non porta via nulla dalla sua casa. Nulla se non il suo cuore, pensa Rose. Jonah comincia a camminare per il sentiero che, dalla porta d’ingresso, porta al prato e alla larga strada oltre di esso.
Si ferma una sola volta, a pochi passi dalla casa, e volta lo sguardo indietro, verso l’alto, strizzando gli occhi in direzione del sole. Alza una mano in un saluto poco convinto, ma Rose non risponde. Questo Jonah, questa versione di lui, non ha più importanza. Non ha importanza il luogo in cui crede di stare andando. Non ha importanza il fatto che non la ami. Rose farà in modo che tutto cambi.
Jonah lascia cadere la mano e si volta, e Rose abbassa lo sguardo sul meccanismo per il controllo del tempo. Porta indietro le lancette. Un giorno. Due giorni. Tre. Sente Cordelia chiamarla, ma chiude di scatto il meccanismo, e la voce della bambola si perde nel vortice che la prende e fa ruotare e trascina indietro nel tempo. Dopo qualche attimo è tutto finito, e Rose è senza fiato, di nuovo seduta sul davanzale. Le bambole se ne sono andate, il meccanismo per il controllo del tempo non è più tra le sue mani.
Rose guarda ansiosamente fuori dalla finestra. Ha indovinato il momento giusto? Ha fatto male i conti? Ma, no – il suo cuore salta di gioia nel vedere l’uomo che barcolla e cade in ginocchio nel prato. Lasciandosi una scia di sangue dietro, comincia il suo lungo e doloroso strisciare verso il giardino, dove Rose lo troverà di nuovo.
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