FILE UFFICIALI DEL CONCLAVE
Non rimuovere dall’ufficio dell’Inquisitrice
Ultimo aggiornamento: settembre 2007
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In piedi nell’atrio di casa di Magnus, Alec fissava il nome scritto sotto al campanello. BANE. Non si adattava granché a Magnus, pensò; non ora che lo conosceva. Sempre che tu possa dire di conoscere qualcuno dopo aver partecipato a un suo party, uno solo, e poi essere stato salvato da quella persona – che non è neppure rimasta nei paraggi per farsi ringraziare. Ma il nome Magnus Bane evocava nella mente di Alec una figura imponente, con spalle enormi e abiti viola formali da stregone, che evocava fuoco e fulmini. Non al vero Magnus, che sembrava più un incrocio tra una pantera e un elfo demente.
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“Come vi sembro?”
In piedi sul caldo marciapiede all’esterno del Pandemonium Club, Isabelle Lightwood fece una lenta giravolta davanti a Jace e Alec.
“Come se stessi indossando un lenzuolo,” rispose Jace.
Lei si fermò e gli lanciò un’occhiataccia. Alec rise lievemente. Amava sua sorella, ma i suoi occasionali attimi di sconcerto lo divertivano.
“Sta’ zitto,” fece Isabelle. “Sto benissimo.”
I Marchi che aveva sulla pelle raccontavano la storia della sua vita. Jace Wayland era sempre stato fiero di loro. Alcuni dei giovani appartenenti al Conclave non apprezzavano le sfiguranti lettere nere, il bruciante dolore causato dai tagli nella pelle che ti faceva lo stilo, gli incubi che accompagnavano il disegnare rune troppo potenti sulla carne di qualcuno non ancora pronto. Jace non provava compassione per quei ragazzi. Se non erano abbastanza forti, la colpa era loro.
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Kaye non si aspettava che gli Shadowhunters si sarebbero presentati al Moon in a Cup, specialmente non il giorno della sua apertura. In realtà non sapeva neppure con certezza cosa facessero, quei tizi lì. Parevano convinti che il mondo fosse minacciato dai demoni, indossavano un sacco di armi, si tatuavano a vicenda e non avevano la benché minima fiducia in nessuno che non fosse uno di loro. Una volta, parlando con uno Shadowhunter, Kaye aveva osservato che in vita sua non le era mai capitato di imbattersi in un demone, e sì che di cose strane ne aveva viste. Lui le aveva risposto che quella era la prova che gli Shadowhunters stavano svolgendo come si deve il loro lavoro. Da quel momento in poi, Kaye aveva smesso di provare a discutere con i nephilim.
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Magnus Bane era steso sul pavimento del suo appartamento di Brooklyn, lo sguardo rivolto verso lo scarno soffitto. Come gran parte della casa, anche il pavimento era un po’ appiccicoso. C’era un intruglio di vino delle fate e sangue che scorreva attraverso le assi scheggiate. Il banco, che era stato una porta prevista tra due bidoni della spazzatura ammaccati, a un certo punto della notte si era rovinato per colpa di una lotta tra un vampiro e Bat, uno dei licantropi del branco in centro. Magnus si sentiva soddisfatto. Un party non può dirsi riuscito se qualcosa non si rompe.
Sentì dei passi leggeri avvicinarsi, e poi qualcosa gli strisciò in grembo; qualcosa di piccolo, morbido e pesante. Alzò lo sguardo e si scoprì a fissare due occhi verde-dorati simili ai suoi. Il Presidente Miao.
La campanella dell’istituto comincia a rintoccare, il battito intenso e profondo dell’apice della notte.
Jace posa l’arma. È un piccolo coltello a serramanico di ottima fattura, col manico in osso, che gli ha regalato Alec quando sono diventati parabatai. Non ha mai smesso di usarlo e l’elsa si è consumata a furia di stringerla in mano.
— Mezzanotte — dice. Riesce a sentire accanto a sé Clary, il suo respiro delicato nell’aria fredda e profumata di foglie della serra. Lui non guarda lei, ma dritto davanti a sé, verso i lucenti boccioli chiusi della pianta di medianox, il fiore di mezzanotte. Non sa bene perché non vuole guardarla.
“So che non lascerò mia sorella qui nella tua Corte,” disse Jace, “e visto che non c’è nulla che tu possa apprendere da lei o da me, potresti farci il favore di liberarla?”
La Regina sorrise.
“Molto comodo. Tutti sono o incoscienti o apparentemente deliranti,” disse l’Inquisitrice. La sua voce affilata come un coltello tagliò la stanza, zittendo tutti. “Nascosto, sai perfettamente che Jonathan Morgenstern non dovrebbe essere in casa tua. Sarebbe dovuto essere rinchiuso nell’appartamento dello stregone, sotto la sua custodia.”
“Ho un nome, sai,” fece Magnus. “Non,” aggiunse, come se avesse avuto un ripensamento sull’interrompere l’Inquisitrice, “che questo importi, davvero. In effetti, scordatevi tutto.”
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“La Corte Seelie?” Clary si inserì nel loro discorso, confusa. “Cos’è?”
Fu Magnus a risponderle. “Il mondo delle fate è diviso in una serie di corti opposte, in genere una Seelie e una Unseelie, oppure una Corte della Luce e una della Notte. In teoria i membri della Corte Seelie sono più gentili, ma non sono certo che si tratti di una realtà effettiva. Gira voce che, se da un lato non è auspicabile offendere un membro della Corte Seelie, per offendere un membro degli Unseelie tu non debba neanche sforzarti. Sono ostili dal principio.”
DIVENTARE SEBASTIAN VERLAC: Una trasformazione oscura
Era un piccolo bar, su una stradina in pendenza di una città cinta da mura e piena di ombre. Jonathan Morgenstern era rimasto seduto al bancone per almeno un quarto d’ora, intento a sorseggiare un drink, quando si alzò e scese la rampa di scale lunga e pericolante che portava alla discoteca. Mentre si avventurava verso il basso, era come se il suono della musica gli andasse incontro, cercando di farsi strada su per i gradini, tanto che sentiva il legno vibrargli sotto i piedi. Lo spazio era gremito di corpi che si dimenavano in mezzo al fumo. Proprio il genere di posto bazzicato dai demoni… Quindi il genere di posto frequentato anche da chi li cacciava. O il luogo ideale per chi dava la caccia a un cacciatore di demoni. Del fumo colorato turbinava nell’aria, emanando un odore vagamente aspro. Le pareti della discoteca erano completamente rivestite da lunghi specchi. Riusciva a vedersi mentre attraversava la stanza: una figura snella vestita di nero, coi capelli di suo padre, bianchi come la neve. C’era umidità là sotto, faceva caldo e mancava l’aria, tanto che lui si sentiva la maglietta incollata alla schiena per il sudore. Un anello d’argento gli luccicava dalla mano destra, mentre con gli occhi scrutava la stanza in cerca della preda. Eccola lì, al bancone, con l’aria di volersi confondere fra i mondani.
Un ragazzo. Diciassette anni, forse.
Uno Shadowhunter.
Sebastian Verlac.
Più tardi, Jace avrebbe ricordato molto poco della distruzione del maniero, della distruzione dell’unica casa che aveva conosciuto fino ai dieci anni d’età. Gli sarebbe rimasta in mente la caduta dalla finestra della libreria, il rotolare giù sull’erba, lo stringere Clary forte tra le braccia, costringendola a restare giù, sotto di lui, che la copriva col suo corpo mentre i resti dell’abitazione gli piovevano intorno come grandine.
Poteva sentire il respiro di Clary, i battiti rapidi del suo cuore. Gli ricordò il suo falco, il modo in cui si piegava, cieco e fiducioso, tra le sue mani, la velocità del suo battito cardiaco. Clary lo teneva per il davanti della maglia, anche se Jace dubitava che se ne fosse resa conto, il viso premuto contro la sua spalla; Jace temeva disperatamente di non bastare, di non riuscire a coprirla del tutto, di non poterla proteggere in ogni sua parte. Immaginò macigni grandi come elefanti ruzzolare giù per il terreno roccioso, pronti a colpirli entrambi, a colpire lei. La terra tremò sotto di loro, e Jace la strinse ancora di più contro di sé, come se questo potesse essere di qualche aiuto. Era un pensiero stupido e lui lo sapeva, come quando chiudi gli occhi per non vedere il coltello pronto a colpirti.
Il ruggito era cessato. Jace realizzò con stupore di riuscire di nuovo a sentire: piccole cose, il suono degli uccelli, l’aria tra gli alberi. La voce di Clary, senza fiato. “Jace… credo che tu abbia fatto cadere il tuo stilo da qualche parte.”
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Clary,
a dispetto di tutto, non riesco a sopportare il pensiero che quest’anello vada perduto per sempre, non più di quanto riesca ad accettare di lasciare te, per sempre. E, sebbene quest’ultimo punto non mi lasci possibilità di scelta, posso almeno decidere per quel che riguarda l’altro. Ti lascio il nostro anello di famiglia perché spetta a te tanto quanto a me.
Sto scrivendo queste parole mentre osservo il sorgere del sole. Tu stai dormendo; dei sogni si muovono dietro le tue palpebre inquiete. Vorrei sapere cosa pensi. Vorrei poter scivolare dentro la tua testa e guardare il mondo attraverso i tuoi occhi. Vorrei poter vedere me stesso come fai tu. Ma forse non lo desidero davvero. Forse sentirei ancora di più di star portando avanti una qualche Grande Bugia con te, e non riuscirei a sopportarlo.
Ti appartengo. Potresti farmi qualsiasi cosa tu voglia e te lo permetterei. Potresti chiedermi qualsiasi cosa e io mi farei a pezzi per cercare di renderti felice. Il mio cuore mi dice che questo è il sentimento migliore e più bello che io abbia mai provato. Ma la mia mente sa qual è la differenza tra il desiderare ciò che non si può avere e il volere ciò che non si dovrebbe volere. E io non dovrei volerti.
Ho passato tutta la notte a guardarti dormire, ho visto la luce della luna arrivare e andare via, creare delle ombre sul tuo viso in bianco e nero. Non avevo mai osservato niente di più bello. Penso alla vita che avremmo potuto avere se le cose fossero state diverse, una vita in cui questa notte non è un singolo evento, separato dal resto della realtà, ma ogni notte. Le cose non sono diverse, però, e io non riesco a guardarti senza avere la sensazione di averti ingannata, facendoti innamorare di me.
La verità che nessuno ha il coraggio di pronunciare ad alta voce è che sono l’unico ad avere una possibilità contro Valentine. Posso avvicinarmi a lui come nessun altro. Posso fingere di volermi unire a lui, e Valentine mi crederà, finché poi non arriverà il momento in cui finirò tutta questa faccenda, in un modo o nell’altro. Ho qualcosa di Sebastian; posso tracciarlo fino al nascondiglio di mio padre. Ed è questo che farò.
Quindi ti ho mentito, la scorsa notte. Ti ho detto di volere solo una notte insieme a te. Ma con te voglio ogni singola notte. Ed è per questo che devo scivolare fuori dalla tua finestra, adesso, come un codardo. Perché se ti avessi fatto questo discorso guardandoti in viso, non sarei riuscito a trovare il coraggio di andarmene.
Non ti biasimerei se mi odiassi: vorrei che lo facessi.
Finché potrò ancora sognare, sognerò te.
– Jace
Ho incontrato tuo padre a scuola; avevo più o meno la stessa età che avevi tu quando hai conosciuto Simon. È il genere di amico che dovrebbero avere tutti. Nel mio caso, però, non era tuo padre quell’amico – ma Luke. Stavamo sempre insieme. In effetti, all’inizio io Valentine lo odiavo, perché mi aveva portato via Luke.
Valentine era lo studente più popolare, a scuola. Era tutto ciò che potevi aspettarti da un leader naturale – bellissimo, brillante, con quel genere di carisma che spingeva gli studenti più giovani a supportarlo. Era abbastanza gentile, ma in lui ho sempre scorto qualcosa che mi spaventava – brillava, ma di uno scintillio freddo, come quello di un diamante. E, proprio come un diamante, aveva estremità affilate, taglienti.
Quando aveva diciassette anni suo padre fu ucciso durante un’incursione contro un branco di licantropi. Non era stata un’incursione normale – il branco non aveva fatto niente per rompere la Legge, ma questo l’avrei scoperto solo anni dopo. Nessuno ne era a conoscenza. Tutto ciò che sapevamo era che Valentine era tornato a scuola completamente cambiato. Le sue estremità affilate erano diventate visibili per tutto il tempo, così come il pericolo in lui. E cominciò a reclutare.
Clary chiuse il suo zainetto e diede un’occhiata alla stanza per accertarsi di non aver dimenticato nulla. Madeleine le aveva detto che sarebbe stato freddo, a Idris, per via della sua elevata altitudine, e quindi Clary aveva messo in valigia le sue magliette a maniche lunghe, alcuni jeans e i maglioni. Non aveva un giubbotto invernale, ma non aveva in programma di restare a Idris abbastanza a lungo da averne bisogno. Ci sarebbe rimasta solo il tempo necessario per recuperare ciò che le serviva per salvare sua madre. Poi sarebbe tornata.
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“Smettila, Jace,” disse Alec in tono d’avvertimento.
Jace non diede segno di essersene accorto. “Magnus dice che è perché ti sei fissato con me. È vero?”
Ci fu un istante di silenzio. Poi Alec emise un gemito disperato e si coprì il viso con le mani. “Ucciderò Magnus. Lo ammazzerò.”
“Non farlo. Tiene a te. Davvero. Ci credo,” gli disse Jace, riuscendo a far suonare la frase solo un pelino imbarazzante. “Capiscimi. Non voglio spingerti a far niente, ma forse ti andrebbe di…”
“Chiamare Magnus? Guarda, è una strada senza uscita; so che stai cercando di aiutarmi, ma…”
“…baciarmi?” finì Jace.
“Dove siamo?” sibilò Simon tra i denti.
“Alicante,” rispose Jace. “La Città di Vetro.” E, quando Simon si limitò a fissarlo, aggiunse con un tocco d’impazienza: “Siamo a Idris.” Si sporse leggermente fuori dalla finestra. “Guarda,” disse, indicando le torri, “quelle sono le torri demoniache. Sono fatte dello stesso materiale degli stili e delle spade angeliche. È un repellente per i demoni…”
“Perché mi hai portato qui?” domandò Simon, interrompendo la lezione di geografia locale di Jace.
Gli occhi di Jace incontrarono i suoi, e per un attimo ci fu qualcosa – un qualcosa quasi supplichevole –, in loro, e poi Jace disse, “Hai accettato. È per Clary.”
“Siamo qui,” annunciò bruscamente Sebastian – così bruscamente che Clary si chiese se non l’avesse davvero offeso in qualche modo – e scivolò giù dalla schiena del cavallo. Ma il suo volto, quando alzò lo sguardo verso di lei, era tutto sorrisi. “Abbiamo fatto un buon tempo,” commentò, legando le redini al ramo più basso di un albero vicino. “Migliore di quanto pensassi.”
Le fece capire con un gesto che poteva smontare, e, dopo un attimo di esitazione, Clary scivolò dal cavallo e finì tra le braccia di lui. “Scusami,” disse, mortificata. “Scusami – non avevo intenzione di afferrarti.”
Se stai leggendo questa lettera, significa che sono morto.
Mi aspetto di morire, se non oggi, comunque presto. So che Valentine mi ucciderà. Malgrado tutti i suoi discorsi sul fatto di volermi bene, sul desiderio di avere in me un braccio destro, sa che nutro dei dubbi. E lui è un uomo che non tollera i dubbi.
Non so come ti cresceranno. Non so cosa ti diranno di me. Non so nemmeno chi ti darà questa lettera. La affido ad Amatis, ma non posso sapere cosa riserva il futuro. Tutto ciò che so è che questa è la mia unica occasione per raccontarti di un uomo che potresti anche odiare
— Perché con te non posso farlo — fu la risposta di Jace. — Non posso parlarti, non posso stare con te, non posso nemmeno guardarti.
Jace non dimenticherà mai l’espressione sul viso di Clary dopo che aveva pronunciato quelle parole: uno sgomento improvviso, tramutatosi in pallido dolore. Non era la prima volta che la feriva. Ma mai perché lo aveva voluto, anche se gli era capitato di aggredirla ciecamente, come la volta in cui lei lo aveva sorpreso a baciare Aline e lui le aveva detto tutto quello che di più orribile gli fosse venuto in mente. Come se le parole, da sole, avessero il potere di farla scomparire e rimandarla in un luogo per lei sicuro. Aveva sempre messo la sicurezza di Clary al primo posto. Se così non fosse stato, ora niente di tutto questo starebbe accadendo. Jace si domanda se lei riesca a leggergli il terrore negli occhi, le schegge di quei sogni in cui lui la pugnalava, la soffocava, l’affogava, e poi si guardava le mani, grondanti del sangue di lei. Clary fa un passo indietro. C’è qualcosa sul suo viso, ma non è paura. È infinitamente peggio. Si gira, quasi inciampando per la fretta, e si precipita fuori dalla discoteca. Per un istante lui resta in piedi a osservarla. È esattamente quello che voleva, gli grida una parte del suo cervello. Allontanarla. Mandarla via per
salvarla. Ma il resto della sua mente sta guardando la porta che sbatte dietro di lei, constatando la definitiva rovina di tutti i suoi sogni. Un conto era spingerla fino a quel punto, un altro lasciare che fosse per sempre. Perché lui conosce Clary, e se lei ora se ne va, non tornerà mai più indietro.
Torna indietro.
— Dimmi di più disse — Alec, camminando avanti e indietro sul pavimento asfaltato della stazione abbandonata di City Hall.
— Ho bisogno di sapere.
Camille guardava il ragazzo di fronte a sé. Era adagiata sopra il divano scarlatto con cui aveva arredato il piccolo spazio; era rivestito di un velluto morbido, ma consumato in vari punti. Non certo il mobile più raffinato che avesse mai visto, e una stazione di transito sotto Manhattan non era esattamente all’altezza del suo monolocale a Parigi, della palazzina di Amsterdam o della grande tenuta sul fiume, vicino a San Pietroburgo, che ormai ricordava solo vagamente.
— Sapere di più a che proposito? — chiese, pur conoscendo perfettamente la risposta.
— Magnus — rispose Alec.
Clary si trovava nella stanza di Jace quando lui e Sebastian tornarono a casa. Aveva trovato davvero poche cose durante la sua ricerca. Non c’era nulla, nella stanza di Sebastian, che si potesse considerare interessante, eccezion fatta per alcuni libri scritti in latino; il latino di Clary, però, non era abbastanza buono perché potesse leggerli. Sulle pareti c’erano pagine che sembravano essere state strappate da qualche vecchia guida, illustrate con schizzi a penna bianchi e neri, ma non parevano collegate le une alle altre. Nel caminetto c’erano pezzi di cenere che dalla forma ricordavano brandelli di fotografie bruciate, ma quando Clary aveva cercato di prenderli in mano si erano sbriciolati.
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Sono dentro.
Le parole di Clary risuonarono nella testa di Simon, chiare come una campana, nel preciso istante in cui lui aprì gli occhi. Era disteso sul letto nella camera degli ospiti di Magnus, le lenzuola gettate in un angolo, a piedi nudi; Isabelle se n’era andata. Si mise a sedere, massaggiandosi le tempie, e pensò in risposta: Dentro dove?
Simon? La sua voce era debole, stava svanendo, come se lei stesse camminando lontano da lui. Si tirò su.
Clary?
Maia li stava aspettando al McCarren Park, in uno dei sentieri stretti ricoperto dagli scheletri delle foglie cadute. Indossava una giacca di pelle grigia e un cappello rosa chiaro tirato sulle orecchie, da cui i capelli selvaggiamente ricci sfuggivano creando un alone castano dorato. Accennò un saluto quando cominciarono ad avvicinarsi a lei, e le prime parole che pronunciò furono: “Avete sentito di Luke?”
Annuirono tutti – Simon aveva raccontato a Isabelle e Jordan tutto ciò che sapeva in metro – e Maia finì col camminare accanto a Jordan mentre attraversavano il parco; erano un quartetto in movimento. Jordan teneva le mani in tasca e stava parlando a bassa voce con Maia, lupo a lupo. Simon lanciò un’occhiata a Isabelle, che gli camminava silenziosamente accanto.
Il debole sole novembrino era venuto fuori da dietro alle nuvole e donava un riflesso rossastro ai suoi capelli. Isabelle sapeva dello shampoo alla mela di Simon e di Shadowhunter. “Dunque,” le disse. “Vuoi che ti chieda perché la scorsa notte eri svenuta nel mio letto, quando sono arrivato a casa, o no?”
Clary non sapeva per quanto tempo se ne fosse rimasta seduta sui gradini d’ingresso di Luke, quando il sole cominciò a sorgere. Si levò dietro la casa di lui, col cielo che diventava rosa scuro; il fiume era una striscia blu acciaio. Clary stava tremando – tremava da così tanto tempo che tutto il suo corpo sembrava essersi contratto in un unico forte brivido di freddo. Aveva usato due rune per riscaldarsi, ma non le erano servite; aveva la sensazione che quel tremito fosse psicologico quanto tutto il resto. Sarebbe venuto? Se dentro di sé era ancora tanto Jace quanto pensava lei, allora sì; quando le aveva detto che sarebbe tornato per lei, intendeva dire il prima possibile. Jace era impaziente. Ma non gli piacevano i giochetti.
[QUI il seguito.]
La legge degli Stregoni era parecchio chiara, a riguardo: potevi amare un mortale, era accettabile, ma non spettava a te interferire con la sua mortalità. Ci voleva del tempo per abituarsi a una regola del genere… di norma finché non ti rendevi conto che essere immortale era meno un dono e più un peso.
Magnus lasciò cadere la tabacchiera sulla scrivania e prese il telefono, digitando il pulsante di chiamata rapida associato al numero di Alec. Quando Alec rispose, sembrava sia tormentato che speranzoso: “Magnus? Hai trovato qualcosa?”
“Che sta succedendo?” Era Jace, che era riuscito a farsi largo tra la calca di ballerini. Altra roba luccicante gli si era incollata d’addosso, gocce d’argento attaccate all’oro dei suoi capelli. “Clary?”
“Scusami,” disse lei rimettendosi in piedi. “Mi sono persa tra la folla.”
“Ho notato,” replicò Jace. “Un secondo prima stavo ballando con te, quello dopo eri scomparsa e un licantropo molto insistente cercava di sbottonarmi i jeans.” Prese la mano di Clary, disegnandole lievemente dei cerchi sul polso con le dita. “Vuoi tornare a casa? O ballare ancora un po’?”
“Ballare ancora un po’,” gli rispose lei. “Va bene?”
“Andate pure.” Sebastian si allungò all’indietro, le mani poggiate sul bordo della fontana, il sorriso simile alla lama di un rasoio. “Non mi dispiace guardare.”
“Ti perdoniamo,” disse Jocelyn. Stava ancora piangendo in quel terribile modo senza suono, proprio come aveva fatto ogni anno in occasione del compleanno di Jonathan, quando stringeva la scatola con le sue iniziali e singhiozzava.
“No,” le rispose. “Non c’è perdono per ciò che ho fatto. So dove brucerò, una volta che sarò morto.”
Per un istante Jace si limitò a guardarla con stupore, le labbra leggermente dischiuse; Clary si sentì arrossire. La stava osservando come se fosse la prima stella a essere mai spuntata in cielo, un miracolo dipinto attraverso la faccia della terra a cui lui riusciva a stento a credere. Jace deglutì. “Lascia…” disse, e poi si interruppe. “Posso baciarti? Per favore?”
Anziché annuire, Clary si curvò per premere le sue labbra contro quelle di lui. Se il loro primo bacio in acqua era stato come un’esplosione, questo era un sole che diventa supernova. Un bacio duro, ardente, impetuoso, un morso al labbro inferiore di Clary e uno scontro di lingue e denti, entrambi premuti con forza l’uno contro l’altro, come se potessero avvicinarsi ancora di più. Erano incollati insieme, pelle e stoffa, un’inebriante mescolanza del freddo dell’acqua, del calore dei loro corpi e dello scivolio senza attrito della pelle bagnata.