Buongiorno, Shadowhunters!
Per rendere un po’ più interessante questo primo lunedì post-SoBH (che potete recuperare completo cliccando qui), abbiamo pensato di portarvi un regalino: la nostra traduzione del prologo e del primo capitolo di “Chain of Thorns”.
Vi ricordiamo che il libro uscirà ufficialmente in lingua originale il 31 gennaio 2023, e che una data per l’Italia non è stata ancora confermata (vi terremo aggiornati!); questo “assaggio” del libro era stato caricato a settembre dall’editore americano, ma c’è voluto un po’ perché la nostra traduzione fosse ultimata e revisionata.
Buona lettura! ;P Mandateci i vostri commenti, siamo curiose di leggerli!
Per Emily e Jed. Sono felice che siate finalmente riusciti a sposarvi.
Dobbiamo imparare a tollerare ciò che non possiamo eludere;
la nostra esistenza, così come l’armonia del mondo, è fatta di contrasti –
di toni diversi, di dolcezza e rigorosità, di ciò che è tagliente e ciò che è liscio,
di allegria e solennità: un musicista che venisse colpito solo da parte di
queste cose, che mai sarebbe in grado di fare?
Dev’essere in grado di far uso di tutti, e mischiarli insieme;
e così noi dovremmo unire il bene e il male che sono
consustanziali alla nostra stessa vita; non potremmo infatti
sopravvivere senza questa mescolanza, e non esiste parte
che sia meno necessaria delle altre.
— Michel de Montaigne, Saggi
In seguito, James sarebbe riuscito a ricordare solo il suono del vento. Un grido metallico, simile a un coltello strisciato lungo una scheggia di vetro, che al di sotto celava un latrato carico di disperazione e fame.
Percorreva una strada lunga e impervia: sembrava che prima di lui nessuno ci fosse passato, perché il terreno era privo di segni. Il cielo che lo sovrastava era altrettanto vuoto. James non avrebbe saputo dire se fosse giorno o notte, inverno o estate. Davanti a lui c’era solo terreno brullo e marrone, e in alto un cielo del colore del manto stradale.
Fu a quel punto che lo udì. Il vento che si levava, che spargeva foglie morte e frammenti di ghiaia intorno alle sue caviglie. Con l’aumentare della sua intensità, il suono che produceva bastava quasi a nascondere lo scalpiccio in avvicinamento di piedi in marcia.
James si voltò di scatto per guardare alle sue spalle. Vortici di sabbia si sollevavano in aria, lì dove li aveva catturati il vento. La polvere gli faceva bruciare gli occhi. A procedere a passo spedito attraverso la tempesta di sabbia c’erano una dozzina – anzi, no, un centinaio, più di un centinaio – di figure oscure. Non erano umane, questo gli risultava evidente; sebbene non stessero propriamente volando, sembravano far parte di quel vento tumultuoso, con ombre simili ad ali a ripiegarsi intorno a loro.
Il vento ululava nelle orecchie di James mentre lo superavano dall’alto, un groviglio di creature ombrose che si lasciavano alle spalle non soltanto brividi fisici, ma anche un senso di fredda minaccia. Intessuta nel suono del loro passaggio, attraverso tutto quel rumore, giunse una voce sussurrata, come un filo che si intreccia in un telaio.
“Si svegliano,” disse Belial. “Lo senti, nipote? Si svegliano.”
James si raddrizzò di scatto, a corto di fiato. Non riusciva a respirare. Si conquistò a fatica una via di uscita in mezzo a tutta la sabbia e le ombre, salvo poi ritrovarsi in una camera poco familiare. Chiuse gli occhi, poi li aprì di nuovo. No, non poco familiare: sapeva dove si trovava. Era nella stanza della locanda che divideva con suo padre. Will stava dormendo nell’altro letto; Magnus si trovava da qualche parte lungo il corridoio.
Scivolò fuori dal letto, trasalendo quando i suoi piedi nudi entrarono in contatto con il pavimento gelido. Attraversò in silenzio la stanza per raggiungere la finestra, dove si mise a osservare i campi innevati che ricoprivano tutto il terreno circostante, rischiarati dalla luce lunare.
Sogni. Gli davano il terrore: da che aveva memoria, Belial li aveva sempre usati per raggiungerlo. Nei sogni aveva visto i tetri regni demoniaci; nei sogni aveva visto Belial uccidere. Persino adesso non gli riusciva di determinare quand’è che un sogno fosse solo un sogno, e quando invece rappresentava un’orribile forma di comunicazione.
Il mondo in bianco e nero all’esterno della finestra non rifletteva altro che la desolazione dell’inverno. Si trovavano nei pressi del fiume Tamar, attualmente congelato; avevano deciso di fermarsi lì la sera prima, quando la nevicata si era fatta troppo fitta perché potessero attraversarla con i cavalli. Non era stata una graziosa spolverata di fiocchi, né una burrasca caotica e tempestosa. Quella nevicata aveva una direzione e uno scopo: colpiva il terreno brullo di un marrone grigiastro formando un angolo terribilmente acuto, come una sorta di turbine infinito di frecce.
Benché non avesse fatto altro che sedere in carrozza per tutto il giorno, James si era sentito esausto. Era stato a stento in grado di buttar giù un po’ di zuppa calda, prima di raggiungere il piano superiore e crollare sul letto. Magnus e Will erano rimasti a parlare a bassa voce nella sala del locale, seduti su delle poltrone accanto al fuoco. James supponeva che avessero discusso di lui. Che lo facessero pure. Non gli importava.
Quella era la loro terza notte in viaggio da quando avevano lasciato Londra per cercare la sorella di James, Lucie, che si era allontanata insieme allo stregone Malcolm Fade e al corpo preservato di Jesse Blackthorn per ragioni ancora sconosciute. Beh, non del tutto note, almeno. James riusciva a immaginare quale azione stupida e nobile stesse cercando di fare Lucie; sapeva che Magnus e Will provavano il suo stesso terrore, benché nessuno di loro avesse pronunciato la parola che temevano.
Negromanzia.
La cosa più importante, aveva sottolineato Magnus, era trovare Lucie quanto prima. Cosa più semplice a dirsi che a farsi. Magnus sapeva che Malcolm era in possesso di una casa in Cornovaglia, ma non conosceva precisamente la sua collocazione, e Malcolm aveva bloccato ogni tentativo di Tracciare i fuggitivi. Dunque i tre avevano dovuto affidarsi a un approccio un po’ più vecchio stile: si fermavano spesso, in prossimità delle varie bettole per Nascosti lungo il cammino. Magnus andava a parlare con gli abitanti del luogo, mentre James e Will erano costretti ad attendere in carrozza, per tener nascoste le loro identità Shadowhunter.
“Nessuno di loro mi dirà niente, se pensano che stia viaggiando con dei Nephilim,” aveva spiegato Magnus. “Il vostro momento arriverà quando giungeremo a casa di Malcolm e dovrete vedervela con lui e Lucie.”
Prima che James andasse a dormire, aveva detto a lui e Will che pensava di aver trovato la casa; ci sarebbero potuti arrivare facilmente in qualche ora la mattina successiva. Se non si fosse rivelato il posto giusto, avrebbero continuato il cammino.
James voleva disperatamente ritrovare Lucie. Non solo perché era preoccupato per lei – e lo era. Ma anche per via di tutte le altre cose che stavano succedendo nella sua vita. Tutto ciò che era stato costretto a mettere da parte, a cui si obbligava a non pensare, finché non avesse ritrovato sua sorella e avesse saputo che era al sicuro.
“James?” Una voce assonnata interruppe i suoi pensieri. James distolse lo sguardo dalla finestra e vide che suo padre si era seduto sul letto. “Jamie bach, qual è il problema?”
James lo guardò. Will aveva l’aria stanca, e la sua criniera di capelli neri era tutta scarmigliata. Le persone dicevano spesso a James che assomigliava al padre, cosa che lui sapeva essere un complimento. Per tutta la vita, suo padre gli era parso l’uomo più forte che lui conoscesse, quello più di sani principi, quello dall’amore più impetuoso. Will non dubitava di sé. No, James non era affatto come Will Herondale.
Appoggiò la schiena contro il vetro freddo della finestra e disse: “Un brutto sogno, nient’altro.”
“Mm.” L’espressione di Will era pensierosa. “Ne hai avuto uno anche la notte scorsa. E quella prima ancora. C’è qualcosa di cui vorresti parlare, Jamie?”
Per un istante, James immaginò di sfogarsi con suo padre. Raccontargli di Belial, Grace, il braccialetto, Cordelia, Lilith. Tutto quanto.
Ma quel pensiero non durò a lungo. Non riusciva a immaginare che reazione avrebbe avuto Will. Non riusciva a pensare di pronunciare quelle parole. Si era tenuto tutto dentro così a lungo da non sapere che fare se non continuare ad aggrapparvisi, a stringere più forte, proteggendosi nell’unico modo che conosceva.
“Sono solo preoccupato per Lucie,” disse. “Per ciò in cui potrebbe essersi cacciata.”
L’espressione di Will mutò – a James parve quasi di cogliere una scintilla di delusione sul volto di suo padre, benché fosse difficile esserne certi in quella semioscurità. “Allora torna a letto,” gli suggerì Will. “È probabile che la troveremo domani, ha detto Magnus, e faremmo meglio a essere riposati. Potrebbe non essere contenta di vederci.”
La mia Parigi è una terra in cui i giorni di tramonto
si fondono in violente notti di nero e oro; dove, potrebbe darsi, il fiore
dell’alba è freddo: ah, ma quelle notti d’oro, e le vie profumate!
— Arthur Symons, “Parigi”
Le piastrelle dorate scintillavano sotto l’illuminazione di quel magnifico lampadario, che spargeva ovunque gocce di luce come se fossero fiocchi di neve scrollati dal ramo di un albero. La musica era bassa e dolce, e si alzava di tono a mano a mano che James lasciava la folla dei ballerini per porgere la mano a Cordelia.
“Balla con me,” le disse. Era splendido nella sua redingote nera, con il colore cupo degli abiti ad accentuare l’oro dei suoi occhi, la forma affilata degli zigomi. Qualche ciocca di capelli neri gli copriva la fronte. “Sei bellissima, Daisy.”
Cordelia gli prese la mano. Voltò il capo mentre lui la conduceva in pista, e colse di sfuggita il loro riflesso nello specchio sulla parete opposta della sala da ballo: James, in nero, e al suo fianco lei, con un audace abito di velluto rosso rubino. James la guardava – no – il suo sguardo attraversava la sala, rivolto verso una ragazza pallida con un vestito avorio, i capelli del colore dei petali delle rose bianco crema, che lo osservava di rimando.
Grace.
“Cordelia!” La voce di Matthew le fece aprire gli occhi di scatto. Stordita, Cordelia poggiò momentaneamente una mano contro la parete del camerino, per sostenersi. Quel sogno a occhi aperti – o forse incubo a occhi aperti? Non si era di certo rivelato granché piacevole – era stato terribilmente intenso. “Madame Beausoleil vorrebbe sapere se hai bisogno di aiuto. Ovviamente,” aggiunse, la voce carica di malizia, “ti verrei in aiuto io stesso, ma sarebbe considerato scandaloso.”
Cordelia sorrise. Gli uomini in genere non accompagnavano neanche le proprie mogli o sorelle nelle botteghe delle sarte. Quando ci erano stati per la prima volta, due giorni prima, Matthew aveva schierato il Sorriso e incantato Madame Beausoleil al punto da ottenere il permesso di restare in negozio con Cordelia. “Non parla francese,” si era giustificato, mentendo, “e avrà bisogno della mia assistenza.”
Permettergli di restare in negozio, però, era una cosa. Consentirgli di entrare nel camerino di prova in cui Cordelia aveva appena finito di infilarsi un abito di velluto rosso spaventosamente alla moda, però, sarebbe effettivamente stato un affront et un scandale! – soprattutto in una bottega esclusiva come quella di Madame Beausoleil.
Cordelia gli rispose che andava tutto bene, ma dopo un attimo qualcuno bussò alla porta, e una delle modistes entrò nel camerino brandendo un gancio di ausilio per bottoni. Si avventò sul retro del vestito di Cordelia senza aver bisogno di istruzioni; ci era chiaramente abituata, e spinse e tirò Cordelia come se fosse un manichino imbottito. Un momento dopo – con l’abito allacciato, il petto sollevato e le gonne sistemate – Cordelia fu trasferita nella stanza principale del salone della sarta.
Somigliava un po’ a una caramella, tutta celeste e oro come un uovo di Pasqua mondano. Nel corso della loro prima visita, Cordelia era rimasta sia sorpresa che stranamente affascinata nel vedere come esponevano i loro articoli: modelle – alte, magre e di un biondo chimico – passeggiavano su e giù per la stanza, indossando intorno al collo dei fiocchi neri numerati per segnalare che stavano mettendo in mostra uno stile ben preciso. Dietro una porta con tendine di pizzo, c’era un gran numero di stoffe tra cui scegliere: sete, velluti, raso e organza. Cordelia, messa di fronte a quel tesoro, aveva silenziosamente ringraziato Anna per averla indottrinata sulla moda: aveva allontanato il pizzo e i colori pastello ed era rapidamente passata a selezionare ciò che sapeva che le avrebbe donato. In appena un paio di giorni, la sarta aveva preparato il suo ordine, e ora erano tornati in negozio per provare i prodotti finiti.
E se l’espressione comparsa sul volto di Matthew ne era indicazione, allora Cordelia aveva scelto bene. Si era sistemato su una sedia dorata a strisce bianche e nere, con un libro – lo scandalosamente audace Claudine à Paris – aperto sul ginocchio. Mentre Cordelia lasciava il camerino per andare a guardarsi nello specchio a tre facce, Matthew alzò lo sguardo, e gli occhi verdi gli si scurirono.
“Sei bellissima.”
Per un attimo, Cordelia quasi chiuse gli occhi. Sei bellissima, Daisy. Non avrebbe pensato a James, però. Non in quel momento. Non quando Matthew si stava comportando in modo così gentile, e le stava prestando il denaro per acquistare quegli abiti (era fuggita da Londra con ciò che aveva indosso, e smaniava dalla voglia di mettersi qualcosa di pulito). Avevano fatto entrambi delle promesse, del resto – Matthew, che non avrebbe ecceduto nel bere mentre si trovavano a Parigi; Cordelia, che non si sarebbe punita con gli oscuri ricordi dei suoi fallimenti: di Lucie, di suo padre, del suo matrimonio. E da quando erano arrivati, Matthew non aveva neanche toccato un bicchiere di vino o una bottiglia.
Mettendo da parte la malinconia, gli sorrise e poi rivolse la sua attenzione allo specchio. Sembrava quasi un’estranea ai suoi stessi occhi. L’abito era stato fatto su misura: la scollatura si abbassava in modo molto audace, mentre la gonna le si stringeva in vita prima di farsi più larga, come lo stelo e i petali di un giglio. Le maniche erano corte e con ruches, e le scoprivano le braccia. Le rune risaltavano nere e marcate contro la sua pelle marrone chiaro, anche se c’era un incanto a evitare che gli occhi dei mondani li notassero.
Madame Beausoleil, che gestiva un salone su Rue de la Paix, dove si trovavano i sarti più famosi del mondo – la House of Worth, Jeanne Paquin –, secondo Matthew aveva una certa familiarità con il Mondo Nascosto. “Hypatia Vex non fa acquisti da nessun’altra parte,” aveva rivelato a Cordelia a colazione. Il passato della Madame era avvolto in un fitto mistero, cosa che Cordelia trovava molto francese da parte sua.
Sotto l’abito c’era ben poco – sembrava che in Francia la moda richiedesse che i vestiti sfiorassero la forma del corpo. Sottili corsetti venivano inseriti nella stoffa del corpetto. L’abito di Cordelia le si raccoglieva sul petto in una coccarda di fiori di seta; la gonna si allargava sul fondo, con un’increspatura di pizzo dorato. Il retro scendeva molto in profondità, mostrando la curva della sua colonna vertebrale. Era un’opera d’arte, quel vestito, cosa che disse alla Madame (in inglese, con Matthew che traduceva) quando la donna le si avvicinò con un puntaspilli in mano per controllare il risultato del suo lavoro.
Madame Beausoleil ridacchiò. “Il mio compito è molto semplice,” rispose. “Devo solo valorizzare l’enorme bellezza che vostra moglie già possiede di natura.”
“Oh, lei non è mia moglie,” ribatté Matthew, con un luccichio negli occhi verdi. Non c’era nulla che amasse di più di un’aria di scandalo. Cordelia gli rivolse una smorfia.
Dal canto suo, Madame ebbe il merito di non battere neanche ciglio – ma forse dipendeva solo dal fatto che si trovavano il Francia. “Alors,” riprese. “È raro per me poter preparare un abito per una bellezza così naturale e insolita. Qui la moda è tutta per le bionde, le bionde, ma una bionda non può indossare un colore del genere. È sangue e fuoco, troppo intenso per pelli e capelli pallidi. Loro sono adatte al pizzo e alle tinte pastello, ma Miss…?”
“Miss Carstairs,” disse Cordelia.
“Miss Carstairs ha scelto alla perfezione in base ai suoi colori. Quando entrerete in una stanza, mademoiselle, sembrerete la fiamma di una candela, e attirerete a voi gli sguardi come se fossero falene.”
Miss Carstairs. Cordelia non era rimasta a lungo Mrs. Cordelia Herondale. Sapeva di non doversi sentire affezionata a quel nome. La feriva perderlo, ma si disse con fermezza che si trattava di autocommiserazione. Era una Carstairs, una Jahanshah. Nelle vene le scorreva il sangue di Rostam. Avrebbe indossato abiti di fiamme, se voleva.
“Un vestito così merita delle decorazioni,” aggiunse Madame in tono pensieroso. “Una collana d’oro e rubini. Quella che indossate è una graziosa chincaglieria, ma decisamente troppo piccina.” Diede un colpetto al piccolo ciondolo d’oro al collo di Cordelia. Un minuscolo globo su una catenella dorata.
Era stato un dono di James. Cordelia sapeva che avrebbe dovuto rimuoverlo, ma non era ancora pronta. Per quale motivo, le sembrava un gesto più definitivo dello sfregiare la sua runa matrimoniale.
“Le comprerei volentieri dei rubini, se me lo permettesse,” rispose Matthew. “Ahimè, si rifiuta.”
Madame sembrò perplessa. Se Cordelia era l’amante di Matthew, come aveva chiaramente dedotto, allora perché rifiutava delle collane? Diede un colpetto alla spalla di Cordelia, compatendola per il suo terribile senso per gli affari. “Ci sono delle gioiellerie meravigliose, a Rue de la Paix,” disse. “Forse guardando le loro vetrine cambierete idea.”
“Forse,” concesse Cordelia, combattendo l’impulso di fare la linguaccia a Matthew. “Per il momento, devo concentrarmi sugli abiti. Come vi ha spiegato il mio amico, la mia valigia è stata smarrita durante il viaggio. Sarebbe possibile far recapitare questi abiti a Le Meurice entro questa sera?”
“Ma certo, ma certo.” Madame annuì e andò a sistemarsi dietro al bancone dalla parte opposta della stanza, dove prese a fare calcoli con una matita su un certificato di vendita.
“Adesso pensa che io sia la tua amante,” fece notare Cordelia a Matthew, portandosi le mani sui fianchi.
Lui scrollò le spalle. “Siamo a Parigi. Le amanti sono più comuni dei croissant o di quelle tazzine da caffè inutilmente piccole.”
Cordelia sbuffò, dirigendosi di nuovo nel camerino. Si sforzò di non pensare al costo degli abiti che aveva ordinato – quello di velluto rosso per le serate fredde, e poi altri quattro: un vestito da passeggio a strisce bianche e nere con un cappotto in tinta; uno in raso smeraldo con decorazioni color eau de Nil; un abito da sera piuttosto audace, in raso nero; e in ultimo uno di seta color caffè, decorato con un fiocco d’oro. Anna sarebbe rimasta molto soddisfatta, ma Cordelia avrebbe dovuto dare fondo a tutti i suoi risparmi per ripagare Matthew. Lui si era offerto di accollarsi tutta la spesa, sottolineando che non gli avrebbe creato alcun problema – sembrava che i nonni dal lato paterno avessero lasciato a Henry una grande somma di denaro –, ma Cordelia non poteva permettersi di accettare. Aveva già preso abbastanza a Matthew.
Dopo essersi rimessa il suo vecchio vestito, raggiunse di nuovo Matthew nel salone. Lui aveva già pagato, e Madame aveva confermato che i vestiti sarebbero stati recapitati entro quella sera stessa. Una delle modelle rivolse un occhiolino a Matthew, mentre lui lasciava il negozio con Cordelia per reimmettersi nelle strade affollate di Parigi.
Era una giornata limpida, con un cielo azzurro – a differenza di Londra, quell’inverno a Parigi non aveva nevicato, e le strade erano sì fresche, ma luminose. Cordelia accettò con piacere di tornare a piedi in hotel, anziché fermare un fiacre (l’equivalente parigino di una carrozza pubblica londinese). Matthew, con il libro infilato nella tasca del suo soprabito, stava ancora parlando dell’abito rosso.
“Molto semplicemente brillerai, nei cabaret.” Sembrava chiaramente pensare di aver ottenuto un successo. “Nessuno guarderà le ballerine. Beh, a voler essere del tutto onesti, le ballerine saranno dipinte di rosso brillante e indosseranno finte corna da diavolo, quindi potrebbero comunque attirare un po’ di attenzione.”
Le sorrise – il Sorriso, quello in grado di trasformare i più rigidi brontoloni in pezzi di burro e di far piangere anche uomini e donne molto forti. Cordelia stessa non ne era immune. Gli sorrise a sua volta.
“Vedi?” esclamò Matthew, agitando un braccio per indicare la vista di fronte a loro – l’ampio viale parigino, le colorate tende parasole dei negozi, i bar dove donne con splendidi cappelli e uomini in pantaloni straordinariamente a strisce si riscaldavano con tazze di densa cioccolata calda. “Ti avevo promesso che ti saresti divertita.”
Si stava divertendo? Cordelia se lo chiese. Forse sì. Fino ad allora, era perlopiù riuscita a non pensare a tutti i modi in cui aveva orribilmente deluso le persone che amava. E quello, dopotutto, era il fine ultimo del loro viaggio. Una volta che hai perso tutto, si disse, non c’era motivo di non abbracciare qualunque gioia, per quanto piccola, ti si parasse davanti. Non era questa, del resto, la filosofia di Matthew? Non era questa la ragione per cui era andata a Parigi con lui?
Una donna seduta in un bar nelle vicinanze, con indosso un cappello carico di piume di struzzo e rose di seta, guardò prima lui, poi lei, e sorrise – in un gesto di approvazione, pensò Cordelia, nei confronti di un giovane amore. Qualche mese prima, sarebbe arrossita; adesso, invece, si limitò a sorriderle. Che importava se le persone si facevano idee sbagliate su di lei? Qualunque ragazza sarebbe stata felice di avere Matthew come spasimante, quindi che i passanti pensassero pure quel che volevano. Era così che Matthew gestiva le cose, del resto – senza curarsi affatto dell’opinione altrui, essendo semplicemente se stesso, ed era sorprendente quanto questo atteggiamento gli permettesse di muoversi con facilità per il mondo.
Senza di lui, Cordelia dubitava che sarebbe riuscita a viaggiare fino a Parigi; non nello stato in cui si era trovata, almeno. Matthew li aveva condotti – con evidenti carenze di sonno, sbadigliando – dalla stazione dei treni al Le Meurice, dove si era mostrato tutto sorridente, solare e scherzoso con il fattorino. A guardalo, ci si sarebbe aspettati che la notte prima avesse riposato su un materasso di piume.
Erano rimasti a dormire fino a pomeriggio, quella prima notte (nelle due camere separate della suite di Matthew, che avevano un salottino in comune), e Cordelia aveva sognato di riversare tutti i suoi peccati sull’impiegato del Meurice. Vedete, mia madre sta per avere un bambino, e potrei non trovarmi lì quando succederà, perché sono troppo occupata a bighellonare con il migliore amico di mio marito. La mitologica spada Cortana mi apparteneva – forse la conoscete grazie a La Chanson de Roland? Sì, beh, mi sono rivelata indegna di brandirla, quindi l’ho data a mio fratello, il che, a proposito, lo mette potenzialmente in pericolo mortale per via di non uno, ma ben due demoni molto potenti. Sarei dovuta diventare la parabatai della mia più cara amica, ma ora non potrà più succedere. E mi sono concessa di pensare che l’uomo che amo potesse amare me, e non Grace Blackthorn, benché lui sia sempre stato franco e sincero circa i sentimenti che nutre per lei.
Dopo aver concluso, aveva alzato lo sguardo e visto che l’impiegato aveva il viso di Lilith, con gli occhi simili a un intreccio di serpenti neri che si dimenavano.
Perlomeno con me sei stata brava, cara, le aveva detto Lilith, e Cordelia si era svegliata cacciando un urlo che le era riecheggiato in testa per svariati minuti.
Quando al mattino si era risvegliata al suono della cameriera che spalancava le tende, aveva guardato con incanto la mattina luminosa al di fuori, e i tetti di Parigi che marciavano verso l’orizzonte come soldati obbedienti. In lontananza c’era la Torre Eiffel, che svettava ribelle contro il cielo blu tempesta. E nella camera accanto Matthew, in attesa che lei lo raggiungesse per un’avventura.
Nel corso dei suoi giorni successivi, avevano mangiato insieme – una volta al meraviglioso Le Train Bleu, all’interno di Gare de Lyon, che aveva impressionato Cordelia: davvero grazioso, come in una stanza fatta di zaffiri! –, erano andati a spasso per i parchi e avevano fatto spese: camicie e completi per Matthew da Charvet, dove Baudelaire e Verlaine avevano acquistato i loro abiti, e poi vestiti, scarpe e un cappotto per Cordelia. Si era fermata a un passo dal permettere che Matthew le acquistasse dei cappelli. Di certo, si era detta, doveva pur esserci un qualche limite. Lui aveva suggerito che quel limite fossero gli ombrelli, perché essenziali per un abito come si deve e utili anche come arma. Lei aveva ridacchiato, e poi si era stupita di quanto bello fosse ridere.
Tra tutte, però, la cosa forse più sorprendente era il fatto che Matthew aveva tenuto fede alla parola data: non aveva consumato una goccia di alcol. Stava persino resistendo davanti all’espressioni corrucciate che gli rivolgevano i camerieri quando declinava il vino durante i pasti. In base all’esperienza acquisita con l’alcolismo di suo padre, Cordelia si era aspettata che quella privazione lo facesse sentire male; al contrario, però, Matthew appariva lucido ed energico mentre la trascinava in giro per la zona centrale di Parigi, nei luoghi di interesse, al museo, ai monumenti, nei giardini. Tutto dava una sensazione molto matura e navigata, e sicuramente era proprio quello il punto. In passato Cordelia aveva potuto vedere Parigi solo in una macchia sfocata che le sfrecciava davanti agli occhi dal finestrino di una carrozza.
Rivolse un’occhiata a Matthew, pensando: Ha un’aria felice. Sinceramente, semplicemente felice. E se anche quel viaggio a Parigi non fosse stato una salvezza per lei, almeno poteva assicurarsi che lo fosse per Matthew.
Lui le prese il braccio per aiutarla a superare un punto rotto del marciapiede. Cordelia ripensò alla donna del bar, al modo in cui aveva sorriso loro, scambiandoli per una coppia. Se solo avesse saputo che Matthew non aveva neanche cercato di baciarla. Era stato il ritratto di un perfetto gentiluomo. Una o due volte, si erano dati la buonanotte nella suite dell’albergo, e a lei era parso di scorgere un qualcosa nei suoi occhi – ma forse era solo la sua immaginazione? Non sapeva con certezza cos’è che si fosse aspettata, né era sicura di come si sentisse riguardo a… beh, tutto.
“Mi sto divertendo,” disse a quel punto, ed era sincera. Sapeva di essere più felice, lì, di quanto lo sarebbe stata a Londra, dove avrebbe dovuto battere in ritirata a casa della sua famiglia, a Cornwall Gardens. Alastair si sarebbe sforzato di essere gentile, e sua madre sarebbe stata sconvolta e addolorata, e il peso di tentare di sopportare tutto le avrebbe fatto desiderare di morire.
Era molto meglio così. Aveva mandato un veloce messaggio alla sua famiglia attraverso il servizio di telegrafo dell’albergo, per dire loro che stava facendo spese per il suo guardaroba primaverile a Parigi, con Matthew a farle da chaperon. Sospettava che l’avrebbero trovato bizzarro, ma quantomeno, si sperava, non preoccupante.
“Sono solo curiosa,” aggiunse, mentre si avvicinavano all’hotel, con quella sua massiccia facciata, tutta balconi in ferro battuto e luci che scintillavano attraverso le finestre, gettando il proprio alone sulla strada gelida. “Hai detto che brillerò a un cabaret? Che cabaret, e quand’è che ci andremo?”
“In verità, questa sera,” le rispose Matthew, aprendo la porta dell’albergo per lei. “Viaggeremo insieme fino al cuore dell’Inferno. Sei preoccupata?”
“Assolutamente no. Sono solo contenta di aver scelto un abito rosso. Sarà in tema.”
Matthew rise, ma Cordelia non riuscì a non chiedersi: viaggiare insieme fino al cuore dell’Inferno? Che diamine intendeva?
***
Non trovarono Lucie, il giorno dopo.
La neve non era durata, quindi almeno le strade erano pulite. Balios e Xanthos arrancavano in mezzo alle spoglie pareti di siepi, formando con i respiri degli sbuffi bianchi nell’aria. Raggiunsero Lostwithiel, una piccola cittadina dell’entroterra, a metà giornata, e Magnus si diresse verso un pub chiamato Wolf’s Bane per fare domande. Ne uscì scuotendo il capo e, benché avessero comunque raggiunto l’indirizzo che gli era stato dato in precedenza, la casa non si rivelò altro che una fattoria abbandonata, con un vecchio tetto che stava crollando sotto il suo stesso peso.
“C’è un’altra opzione,” disse Magnus, risalendo in carrozza. Fiocchi di neve sottile, probabilmente caduti da quel che rimaneva del tetto, erano rimasti intrappolati nelle sue sopracciglia scure. “Nel corso del secolo scorso, un misterioso gentiluomo di Londra ha acquistato la vecchia cappella in rovina a Peak Rock, in un villaggio di pescatori chiamato Polperro. L’ha ristrutturata, ma ne esce di rado. Tra i Nascosti del posto gira voce che sia uno stregone – pare che ogni tanto di notte escano fiamme violacee dal camino.”
“Pensavo che lo stregone vivesse qui,” ribatté Will, indicando la fattoria carbonizzata.
“Non tutte le voci sono vere, Herondale, eppure vanno comunque investigate tutte,” rispose Magnus con serenità. “In ogni caso, dovremmo riuscire a raggiungere Polperro in qualche ora.”
James sospirò tra sé. Altre ore, ulteriore attesa. Più tempo per preoccuparsi – per Lucie, per Matthew e Daisy. Per il suo sogno.
Si svegliano.
“Allora dovrò intrattenervi con un racconto,” disse Will. “La storia della mia infernale cavalcata in sella a Balios, da Londra fino a Cadair Idris, in Galles. Tua madre, James, era scomparsa – rapita da quel furfante di Mortmain. Io sono saltato in groppa a Balios. ‘Se mi hai mai amato, Balios,’ ho urlato, ‘lascia ora che i tuoi zoccoli siano rapidi, e conducimi dalla mia cara Tessa prima che le venga fatto del male.’ Era una notte tempestosa, sebbene la tempesta che infuriava nel mio petto fosse anche più feroce di…”
“Non riesco a credere che tu non avessi ancora sentito questa storia, James,” commentò Magnus, in tono blando. I due si dividevano un lato della carrozza, dal momento che già nel corso del loro primo giorno di viaggio si era fatto evidente che Will avesse bisogno di una metà intera per il suo drammatico gesticolare.
Era davvero strano aver ascoltato racconti su Magnus per tutta la vita, e ritrovarsi ora a viaggiare a stretto contatto con lui. Ciò che James aveva scoperto su di lui, nel corso di quel viaggio, era che a dispetto dei suoi abiti elaborati e dell’aria teatrale, che avevano allarmato ben più di un locandiere, Magnus era una persona sorprendentemente calma e pratica.
“No, non avevo avuto occasione di ascoltarla,” rispose James. “Non da giovedì scorso.”
Evitò di aggiungere che, in realtà, trovava piuttosto confortante sentirla di nuovo. Era un racconto che veniva spesso ripetuto a lui e a Lucie, che da bambina l’aveva adorato – Will, che seguiva il suo cuore e correva a salvare la loro mamma, da cui in quel momento lui ancora non sapeva di essere amato a sua volta.
Appoggiò il capo contro il finestrino della carrozza. Lo scenario all’esterno aveva preso una svolta drammatica – strapiombi alla loro sinistra, e poi in basso il frastuono di schiuma battente, onde di un oceano grigio piombo che andavano a scontrarsi contro le rocce che allungavano le loro dita bitorzolute nel mare verde acqua. In lontananza, James vide una chiesa in cima a un promontorio, che si stagliava contro il cielo con quel suo campanile grigio che in quale modo appariva tremendamente solo, tremendamente rimosso da qualunque altra cosa.
La voce di suo padre era una dolce cantilena nelle sue orecchie; le parole di quel racconto suonavano familiari quanto una ninnananna. James non poté che pensare a Cordelia, che leggeva per lui da Ganjavi. Il suo poema preferito, sui tragici amanti Layla e Majnun. La voce di Cordelia, morbida quanto pelle di capretto. E quando la luna svelò le sue gote, un migliaio di cuori furono vinti: nessun orgoglio, nessuno scudo poté controllare il potete di lei. Il suo nome era Layla.
Cordelia gli sorrideva dall’altra parte del tavolo dello studio. Era stata preparata la scacchiera, e lei stringeva un cavaliere avorio nella sua graziosa mano. Il fuoco del camino le illuminava i capelli, un alone di fiamma e oro. “Gli scacchi sono un gioco persiano,” gli diceva. “Gioca con me, James.”
“Kheili knoshgeli,” le rispondeva lui. Le parole gli uscivano con facilità: erano le prime che aveva imparato a pronunciare in persiano, benché non le avesse mai dette a sua moglie, prima. Sei davvero bellissima.
Lei arrossiva. Le sue labbra rosse e piene tremavano. I suoi occhi erano così scuri da scintillare – erano serpenti neri, che si muovevano e dimenavano, scattando verso di lui coi loro denti…
“James! Svegliati!” La mano di Magnus era posata sulla sua spalla e lo scuoteva. James aprì gli occhi, sentendo i conati di vomito; si teneva un pugno premuto contro lo stomaco. Era ancora in carrozza, benché il cielo all’esterno si fosse scurito. Quanto tempo era trascorso? Aveva sognato. Sognato ancora. Questa volta, Cordelia era stata trascinata nei suoi incubi. Si lasciò sprofondare contro il cuscino imbottito, provando una sensazione di disgusto nello stomaco.
Guardò suo padre. Will lo osservava con un’espressione insolitamente austera, gli occhi di un blu davvero intenso. Gli disse: “James, devi dirci cosa c’è che non va.”
“Nulla.” James sentiva un retrogusto amaro in bocca. “Mi sono addormentato… un altro sogno… te l’ho detto, sono preoccupato per Lucie.”
“Stavi chiamando Cordelia,” rispose Will. “Non avevo mai sentito nessuno suonare come se provasse così tanto dolore. Jamie, devi parlarci.”
Magnus fece scorrere lo sguardo da James a Will. Teneva ancora la mano sulla spalla di James, appesantita da tutti quegli anelli. Disse: “Hai urlato anche un altro nome. E una parola. Una parola che mi rende piuttosto nervoso.”
No, pensò James. No. Fuori dal finestrino, il sole stava tramontando, e le fattorie ondulate, infilate in mezzo alle colline, brillavano di un rosso cupo. “Sono certo che fosse qualcosa di insensato.”
Magnus rispose: “Hai chiamato il nome di Lilith.” Rivolse a James un’occhiata piatta. “Si chiacchiera molto, nel Mondo Nascosto, di quanto accaduto di recente a Londra. Ciò che mi è stato raccontato non mi ha mai convinto del tutto. Ci sono anche voci sulla Madre dei Demoni. James, non devi raccontarci ciò che sai. Ma riusciremo comunque a mettere insieme i pezzi.” Guardò Will. “Beh, io sì; non posso fare promesse per tuo padre. È sempre stato lento.”
“Ma non ho mai indossato un berretto russo con dei paraorecchie di pelliccia,” ribatté Will, “a differenza di un individuo qui presente.”
“Sono stati commessi degli errori da entrambe le parti,” concesse Magnus. “James?”
“Non possiedo un berretto con i paraorecchie,” rispose.
I due uomini lo guardarono.
“Non posso raccontarvi tutto adesso,” spiegò James, e sentì il suo cuore saltare un battito: era la prima volta che ammetteva che ci fosse qualcosa da dire. “Non se dobbiamo ritrovare Lucie…”
Magnus scosse il capo. “Si è già fatto buio, sta cominciando a piovere e si dice che la strada che conduce da Chapel Hill fino a Peak Rook sia precaria. È più sicuro fermarci stanotte e andarci domattina.”
Will annuì; era evidente che lui e Magnus avessero discusso del piano da seguire mentre James era addormentato.
“Molto bene,” disse Magnus. “Ci fermeremo alla prossima locanda decente. Prenoterò per noi una stanza del pub, dove potremo parlare in privato. E, James: qualunque cosa sia, possiamo sistemarla.”
James ne dubitava fortemente, ma gli sembrò inutile farlo presente. Si mise quindi a guardare il sole che spariva attraverso il finestrino, infilando al contempo una mano in tasca. Lì c’erano ancora i guanti di Cordelia, quelli che aveva preso a casa loro, fatti di una pelle di capretto morbida quanto i petali dei fiori. Ne strinse uno con la mano.
***
In una piccola stanza bianca nei pressi dell’oceano, Lucie continuava a passare dal sonno alla veglia.
Quando si era risvegliata, la prima volta, in quello strano letto che odorava di paglia vecchia, aveva sentito una voce – la voce di Jesse – e si era sforzata di chiamarlo, per fargli sapere che era cosciente. Prima che riuscisse a farlo, però, un senso di sfinimento l’aveva schiacciata come una fredda onda grigia. Una spossatezza che mai prima di allora aveva provato o immaginato, profonda come la ferita inferta da un coltello. La debole presa che aveva sulla lucidità le era sfuggita, gettandola nell’oscurità della sua stessa mente, dove il tempo ondeggiava e sbandava come una nave durante la tempesta, e Lucie a stento riusciva a capire se fosse sveglia o addormentata.
Nei momenti di lucidità, era riuscita a mettere insieme qualche dettaglio. La stanza era piccola, dipinta di bianco; c’era un’unica finestra, attraverso la quale riusciva a vedere l’oceano con le sue onde che arrivavano e si ritiravano, un cupo grigio piombo screziato di bianco. E poteva anche sentirlo, l’oceano, o così le sembrava, ma quel frastuono distante spesso le giungeva misto ad altri suoni assai meno piacevoli, e dunque Lucie non riusciva a capire se la sua percezione fosse reale.
C’erano due persone che di quando in quando entravano nella stanza per controllarla. Una era Jesse. L’altra Malcolm, una figura molto più diffidente; in qualche modo Lucie sapeva che si trovavano nella sua dimora, quella in Cornovaglia, con all’esterno il mare cornico che si frangeva contro le rocce.
Ancora non era riuscita a parlare con nessuno dei due; quando ci provava, era come se la sua mente fosse in grado di formare le parole, ma il suo corpo non rispondesse ai comandi. Non riusciva neanche a contrarre un dito per attirare l’attenzione sul fatto che era cosciente, e ogni suo singolo sforzo la gettava di nuovo nell’oscurità.
Quelle tenebre non formavano solo l’interno della sua mente. Aveva creduto che fosse così, all’inizio – la familiare oscurità che precede il sonno portava i colori vividi dei sogni. Ma queste tenebre erano un luogo.
E in quel luogo non era da sola. Sebbene sembrasse un vuoto attraverso cui poteva fluttuare senza meta, Lucie riusciva ad avvertire la presenza di altri, non vivi, ma neanche morti: privi di corpo, con anime che vorticavano per il vuoto ma non si incontravano mai a vicenda, né si imbattevano in lei. Erano infelici, questi spiriti. Non capivano cosa stesse succedendo loro. Continuavano costantemente a lamentarsi: un pianto privo di parole, ma carico di dolore e tristezza, che Lucie poteva sentire farsi largo sotto la sua stessa pelle.
Sentì che qualcosa le accarezzava la guancia. Il gesto la riportò nel suo corpo. Era di nuovo nella camera bianca. Il tocco sulla guancia era della mano di Jesse; lo capì senza bisogno di aprire gli occhi, o di muoversi in risposta.
“Sta piangendo,” disse lui.
La sua voce. Adesso aveva un senso di profondità, una consistenza che era stata assente, mentre lui era un fantasma.
“Forse sta facendo un incubo.” La voce di Malcolm. “Jesse, sta bene. Ha usato buona parte della sua energia per riportarti indietro. Ha bisogno di riposare.”
“Non capisci… è proprio perché mi ha riportato indietro.” La voce di Jesse gli si inceppò in gola. “Se non dovesse riprendersi… non potrei mai perdonarmelo.”
“Questo suo dono. Quest’abilità di oltrepassare il velo che divide i vivi dai morti. La possiede da tutta la vita. Non è colpa tua; non è colpa di nessuno, se non di Belial.” Malcolm sospirò. “Sappiamo così poco sui regni dell’ombra oltre la fine di tutto. E lei ha oltrepassato alquanto il loro limite, per riportati qui. Le ci sta volendo del tempo per tornare.”
“E se fosse intrappolata in un luogo tremendo?” Di nuovo quel tocco leggero: la mano di Jesse che le prendeva a coppa il viso. Lucie voleva disperatamente voltare la guancia verso il suo palmo; lo voleva da star male. “E se avesse bisogno di essere tirata fuori da me, in qualche modo?”
Quando Malcolm parlò di nuovo, la sua voce aveva un suono molto più gentile. “Sono passati due giorni. Se per domani non dovesse essere sveglia, posso cercare di raggiungerla con la magia. Investigherò, ammesso che tu, nel frattempo, la smetta di startene lì accanto a lei ad agitarti. Se davvero desideri renderti utile, puoi andare al villaggio e portarci alcune cose di cui abbiamo bisogno…”
La sua voce esitò, svanendo poi nel silenzio più assoluto. Lucie era tornata nel posto oscuro. Riusciva a sentire Jesse, la sua voce come un sussurro lontano, udibile a stento. “Lucie, se puoi sentirmi… sono qui. Mi sto prendendo cura di te.”
Sono qui, si sforzò di dire. Riesco a sentirti. Ma come la volta prima, e quella prima ancora, le parole vennero inghiottite dall’oscurità, e Lucie cadde di nuovo nel vuoto.
***
“Chi è che è un grazioso uccellino?” domandò Ariadne Bridgestock.
Winston il pappagallo la guardò socchiudendo gli occhi. Non offrì alcun giudizio su chi fosse o meno un grazioso uccellino. Il suo obiettivo – Ariadne ne era certa – era la manciata di noci brasiliane che lei stringeva in mano.
“Pensavo che potessimo farci una chiacchierata,” gli disse lei, tentandolo con una noce. “I pappagalli dovrebbero parlare. Perché non mi chiedi com’è stata la mia giornata fino a ora?”
Winston la guardò in cagnesco. Era stato un dono dei suoi genitori, tanto tempo prima, quando Ariadne era giunta a Londra e aveva desiderato con tutto il cuore qualcosa di colorato per controbilanciare quello che per lei era il tetro grigiore della città. Winston aveva il corpo verde, la testa color prugna e un atteggiamento da furfante.
L’occhiata che le rivolse rese evidente che non ci sarebbe stata alcuna conversazione finché lei non gli avesse fornito una noce brasiliana. Superata in astuzia da un pappagallo, pensò Ariadne, e gli diede un premio attraverso le sbarre. Matthew Fairchild aveva un meraviglioso cane d’oro come animale domestico – e invece ecco qui lei, incastrata con un lunatico Lord Byron in forma di volatile.
Winston inghiottì la noce e poi protese una zampa artigliata, stringendola intorno a una delle sbarre della sua gabbia. “Grazioso uccellinò,” ridacchiò. “Grazioso uccellino.”
Passabile, decretò Ariadne. “La mia giornata è stata pessima, grazie per averlo chiesto,” gli disse, allungando a Winston un’altra noce attraverso le sbarre. “La casa è così vuota e solitaria. Mia madre non fa che vagare per casa con aria afflitta, preoccupandosi per mio padre. Manca da cinque giorni interi, ormai. E… non avrei mai creduto che mi sarebbe mancata Grace, ma quantomeno la sua presenza sarebbe stata di compagnia.”
Non citò Anna. Alcune faccende non erano fatti di Winston.
“Grace,” gracchiò lui. Diede un colpetto alle sbarre della gabbia con fare eloquente. “Città Silente.”
“Esatto,” mormorò Ariadne. Suo padre e Grace erano andati via la stessa notte: le loro partenze dovevano di certo essere connesse, sebbene Ariadne non sapesse con certezza in che modo. Suo padre si era precipitato alla Città di Adamante, con l’intenzione di interrogare Tatiana Blackthorn. Il giorno dopo, Ariadne e sua madre avevano scoperto che anche Grace era sparita: aveva impacchettato i suoi miseri averi ed era andata via nel cuore della notte. Solo a pranzo era giunto un messaggero con un biglietto di Charlotte, in cui le si informava che Grace era sotto custodia dei Fratelli Silenti, per discutere con loro dei crimini di sua madre.
La cosa aveva fatto delirare la madre di Ariadne per l’agitazione. “Oh, abbiamo inconsapevolmente offerto rifugio a una criminale sotto al nostro tetto!” Per tutta risposta, Ariadne aveva alzato gli occhi al cielo e sottolineato come Grace fosse andata dai Fratelli Silenti di sua spontanea volontà, e non fosse stata trascinata via da loro; inoltre, era Tatiana Blackthorn a essere una criminale. Tatiana aveva già causato tanti problemi e tanta sofferenza, e se Grace desiderava fornire ai Fratelli Silenti maggiori informazioni circa le sue attività illegali, beh, allora si stava comportando solo da brava cittadina.
Sapeva che era ridicolo sentire la mancanza di Grace. Si erano parlate di rado. Ma quel senso di solitudine era così intenso, pensò Ariadne, che avere qualcuno semplicemente lì l’avrebbe alleviato di certo. C’erano delle persone con cui desiderava sinceramente parlare, ovvio, ma si stava sforzando di non pensare a loro. Non erano propriamente amici suoi, del resto. Erano amici di Anna, e Anna…
Le sue fantasticherie vennero interrotte dal penetrante tintinnare del campanello. Notò che Winston si era addormentato, rimanendo appeso a testa in giù. Lasciò dunque frettolosamente cadere i resti delle noci dentro la sua ciotola e poi si sbrigò a lasciare la veranda per raggiungere l’ingresso, con la speranza che ci fossero novità.
Ma sua madre era riuscita a precederla. Ariadne si fermò per un attimo in cima alle scale, quando sentì la sua voce. “Salve, Console Fairchild. E Mr. Lightwood. Com’è gentile, da parte vostra, venire a trovarci.” Si interruppe. “Avete forse… notizie di Maurice?”
Ariadne sentì la paura nella voce di Flora Bridgestock, e la cosa la inchiodò lì sul posto. Quantomeno era dietro la curva della scalinata, fuori vista dalla porta. Se Charlotte Fairchild aveva portato notizie – cattive notizie –, sarebbe stata molto più propensa a condividerle in assenza di Ariadne.
Attese, stringendo il pilastro del pianerottolo, finché non sentì la voce gentile di Gideon Lightwood. “No, Flora. Non abbiamo sue notizie da quando è partito per l’Islanda. In effetti speravamo… beh, speravamo che ne avessi tu.”
“No,” rispose sua madre. Suonava remota, distante; Ariadne sapeva che si stava sforzando di non mostrare la sua paura. “Davo per scontato che se si fosse messo in contatto con qualcuno, quel qualcuno sarebbe stato l’ufficio del Console.”
Ci fu un silenzio imbarazzato. Ariadne, colta da un senso di vertigine, sospettava che Gideon e Charlotte stessero attivamente desiderando di non essere mai venuti a trovarle.
“Non avete ricevuto notizie dalla Cittadella?” domandò infine sua madre. “Dalle Sorelle di Ferro?”
“No,” ammise il Console. “Ma le Sorelle sono di natura reticente anche nel migliore dei casi. Tatiana è probabilmente un soggetto difficile da interrogare; è possibile che ritengano semplicemente che non ci siano ancora notizie.”
“Ma avete inviato loro dei messaggi,” disse Flora. “E non hanno risposto. Magari potreste sentire… l’Istituto di Reykjavík?” Ad Ariadne parve di sentire una nota di terrore scivolare attraverso i bastioni di educazione di sua madre. “So che non possiamo Tracciarlo per via dell’acqua, ma potrebbero farlo loro. Potrei darvi qualcosa di suo da inviare all’Istituto. Un fazzoletto, oppure…”
“Flora.” Il Console stava parlando con il suo tono di voce più cortese; Ariadne immaginò che a quel punto dovesse aver gentilmente preso per mano sua madre. “Questa è una missione della massima segretezza; Maurice sarebbe il primo a richiedere di non allarmare l’intero Conclave. Manderemo un secondo messaggio alla Cittadella e, se non dovessimo ricevere notizie, faremo partire una nostra investigazione. Te lo prometto.”
Sua madre mormorò qualcosa in tono di assenso, ma Ariadne era preoccupata. Il Console e il suo consigliere più stretto non andavano a trovare qualcuno di persona solo perché smaniosi di ricevere delle notizie. C’era qualcosa che li preoccupava; qualcosa che non avevano menzionato a Flora.
Charlotte e Gideon si congedarono dopo aver fornito altre rassicurazioni. Una volta sentito chiudersi la porta, Ariadne scese le scale. Sua madre, che fino a quel momento era rimasta immobile sull’uscio, sobbalzò vedendola. Ariadne fece del suo meglio per dare l’impressione di essere appena arrivata.
“Ho sentito delle voci,” disse. “Era il Console, la persona che se n’è appena andata?”
Sua madre fece un vago cenno di assenso col capo, persa nei suoi pensieri. “E Gideon Lightwood. Volevano sapere se avessimo ricevuto un messaggio da tuo padre. E io che speravo che fossero venuti a dirmi che erano stati loro ad avere sue notizie.”
“Va tutto bene, mamma.” Ariadne prese le mani della madre tra le sue. “Sai com’è fatto. Starà attento e si prenderà il tempo che gli serve, e scoprirà tutto ciò che può.”
“Oh, lo so benissimo. Ma – è stata una sua idea mandare Tatiana alla Città di Adamante. Se qualcosa dovesse andare storto…”
“Il suo è stato un atto di pietà,” ribatté con fermezza Ariadne. “Non l’ha mandata nella Città Silente, dove di certo sarebbe diventata ancor più matta di quanto già non fosse.”
“Ma al tempo non sapevamo ancora ciò che sappiamo adesso,” rispose sua madre. “Se Tatiana Blackthorn dovesse avere qualcosa a che fare con l’attacco all’Istituto di Leviatano… allora quello non sarebbe il gesto di una donna folle che merita pietà. Sarebbe una vera e propria guerra contro i Nephilim. La mossa di un avversario pericoloso, alleato con i più grandi mali esistenti.”
“Era nella Città di Adamante, quando Leviatano ci ha attaccati,” le fece notare Ariadne. “Come potrebbe mai esserci riuscita senza farsi notare dalle Sorelle di Ferro? Non preoccuparti, mamma,” aggiunse. “Andrà tutto bene.”
Sua madre sospirò. “Ari,” disse, “sei cresciuta e diventata una ragazza così adorabile. Mi mancherai così tanto, quando un brav’uomo ti sceglierà e tu ci lascerai per sposarti.”
Ariadne fece un suono evasivo in risposta.
“Oh, lo so, con Charles è stata un’esperienza terribile,” continuò sua madre. “Col tempo troverai un uomo migliore.”
Fece un respiro profondo e sollevò le spalle e, non per la prima volta, Ariadne si ricordò che sua madre era una Shadowhunter come gli altri, e che affrontare le avversità faceva parte del suo lavoro. “Per l’Angelo,” esclamò la donna in tono vivace, “la vita continua, e non possiamo restare tutto il giorno qui all’ingresso a preoccuparci. Ho così tante cose da fare… la moglie dell’Inquisitore deve mantenere la casa mentre il padrone non c’è, e tutto il resto…”
Ariadne mormorò in assenso e diede alla madre un bacio sulla guancia, prima di tornarsene su per le scale. A metà del corridoio, oltrepassò la porta dello studio di suo padre, lievemente socchiusa. La aprì leggermente e sbirciò all’interno.
Lo studio era stato abbandonato in un allarmante stato di disordine. Se Ariadne aveva sperato che dare un’occhiata allo studio di Maurice Bridgestock l’avrebbe fatta sentire più vicina a lui, rimase delusa – la cosa, semmai, la preoccupò. Suo padre era un uomo scrupoloso e organizzato, e se ne vantava. Non tollerava la confusione. Ariadne sapeva che se n’era andato in fretta a furia, ma lo stato della camera le fece capire quanto effettivamente dovesse essere stato nel panico.
Quasi senza riflettere, si ritrovò a riordinare: a spingere la sedia sotto la scrivania, a liberare le tende nel punto in cui si erano piegate su una lampada, a portare le tazzine in corridoio perché la governante le trovasse. Di fronte alla griglia del caminetto c’era della cenere fredda; Ariadne raccolse la piccola scopa in ottone per spazzarle di nuovo nel focolare…
E si fermò.
C’era qualcosa di bianco che baluginava in mezzo alla cenere del camino. Riconobbe la precisa grafia in corsivo di suo padre su una pila di carta bruciacchiata. Si avvicinò maggiormente – che genere di note aveva sentito il bisogno di distruggere, prima di lasciare Londra?
Tirò fuori le carte dal caminetto, spazzando via la cenere, e poi cominciò a leggere. Mentre lo faceva, sentì una secchezza incredibile in gola, come se fosse sul punto di soffocare.
In cima alla prima pagina c’era scritto Herondale/Lightwood.
Continuare a leggere era un’ovvia trasgressione, ma ogni singola lettera del nome Lightwood le si bruciò sulle retine; non poteva distogliere lo sguardo. Se un qualche problema minacciava la famiglia di Anna, come poteva rifiutarsi di scoprirlo?
Le pagine erano etichettate con degli anni: 1896, 1892, 1900. Ariadne scorse i fogli e provò una sensazione di gelo alla nuca.
Suo padre non aveva scritto resoconti di denaro speso o guadagnato, bensì descrizioni di eventi. Eventi che coinvolgevano gli Herondale e i Lightwood.
No, non eventi. Errori. Sbagli. Peccati. Un resoconto di ogni azione degli Herondale e dei Lightwood che agli occhi di suo padre aveva causato problemi; ogni gesto che poteva essere considerato irresponsabile o avventato era stato annotato in quelle pagine.
12/3/01: G2.L manca all’incontro del Consiglio senza spiegazioni. CF arrabbiata.
6/9/98: WW a Waterloo dice che WH/TH hanno rifiutato un incontro, obbligandoli a interrompere il Mercato.
8/1/95: Capo dell’Istituto di Oslo rifiuta di incontrare TH, menzionando la sua Discendenza.
Ariadne si sentì nauseata. La maggior parte delle azioni citate erano insignificanti, minuscole o semplici dicerie; l’annotazione sul capo dell’Istituto di Oslo che si rifiutava di incontrare Tessa Herondale, una delle donne più gentili che Ariadne avesse mai conosciuto, era rivoltante. Era il capo dell’Istituto di Oslo quello che avrebbe meritato una strigliata; di contro, però, l’evento era stato qui riportato come se la colpa fosse degli Herondale.
Che cos’era tutto ciò? Che stava pensando suo padre?
In fondo alla pila c’era dell’altro. Uno strato di carta bianco crema. Non note, ma una lettera. Ariadne la tirò fuori dal cumulo, scorrendo sbigottita le parole.
“Ariadne?”
Svelta, infilò il messaggio nel corpetto del vestito, prima di alzarsi per guardare sua madre. Flora era in piedi sull’uscio, accigliata e con gli occhi socchiusi. Quando parlò, nella sua voce mancava completamente il calore della conversazione precedente. “Ariadne… che stai facendo?”
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