Shadowhunters, non ci speravo… ma sono riusciva a caricarvi il capitolo prima di dover salutare per un po’ il pc (che tornerà prestissimo, per fortuna – ma temevo davvero di dover rimandare tutto a domani/martedì).
Purtroppo NON ho avuto il tempo di fare una revisione come si deve, quindi se doveste trovare qualche refuso vi chiedo di perdonarmi D:, risolverò domani. Ma ci tenevo a caricare tutto questa sera.
Beh… buona lettura! ;D Poi fateci sapere che ve n’è parso, eh!
(E preparate un mucchio di fazzoletti. Vi serviranno.)
Le pire funerarie stavano ancora bruciando quando la processione svoltò e si diresse verso la città. Era consuetudine che il fumo si alzasse per tutta la notte, e che le famiglie si radunassero nella Piazza dell’Angelo per piangere insieme alle altre.
Non che Emma pensasse che i Blackthorn l’avrebbero fatto. Sarebbero restati a casa loro, vicini: erano rimasti troppo lontani, nel corso delle loro vite, per desiderare il conforto di Shadowhunters che conoscevano a stento.
Emma seguì la scia del resto del gruppo, sentendosi troppo vulnerabile per cercare di parlare di nuovo con Julian davanti alla sua famiglia. E poi, Julian teneva Tavvy per mano.
“Emma,” chiamò una voce dietro di lei. Emma si voltò e vide Jem Carstairs.
Jem. Emma era troppo sorpresa per parlare. In passato Jem era stato un Fratello Silente e, pur facendo parte dei Carstairs, era solo un lontanissimo parente di Emma, perché aveva più di un secolo. Il suo aspetto era quello di un ventiquattrenne, però, e al momento indossava dei jeans e un paio di scarpe rovinato. La sua camicia era bianca, ed Emma pensò che quella dovesse essere la sua unica concessione al bianco funebre degli Shadowhunters.
Jem non faceva più parte degli Shadowhunters, sebbene lo fosse stato a lungo, ed era tra i membri più famosi della famiglia Carstairs, insieme a sua cugina Cordelia.
“Jem,” sussurrò; non le andava di allertare nessuno degli altri partecipanti alla processione. “Grazie per essere venuto.”
“Voglio che tu sappia quanto mi dispiace,” le rispose lui. Era pallido e aveva l’aria tesa, ma non poteva essere per via del dolore per Livvy, no? L’aveva conosciuta a stento. “So che amavi Livia come una sorella.”
“Possiamo parlare?” gli chiese Emma all’improvviso. “Solo noi due?”
Jem annuì e indicò una piccola altura poco distante, in parte nascosta dagli alberi. Dopo aver sussurrato a Cristina di stare andando a parlare con Jem – “Quel Jem? Quello davvero molto vecchio? Che è sposato con una strega? Sul serio?” –, Emma lo raggiunse nel punto dove si era seduto sull’erba, in mezzo a un ammasso di vecchie pietre.
Rimasero per qualche istante seduti in silenzio, entrambi con lo sguardo sui Campi Imperituri. “Quando facevi parte dei Fratelli Silenti,” gli chiese Emma a un tratto, “bruciavi le persone?”
Jem la guardò. Aveva gli occhi estremamente scuri. “Aiutavo a dar fuoco alle pire,” le rispose. “Un uomo saggio che conoscevo una volta disse che non siamo in grado di capire la vita, e che dunque non possiamo sperare di comprendere la morte. Ho perso tante delle persone che amavo contro la morte, e la cosa non diventa più semplice, né lo diventa guardare le pire bruciare.”
“Siamo polvere e cenere,” disse Emma.
“Serviva a renderci tutti uguali,” fece Jem. “Veniamo tutti bruciati. Tutte le nostre ceneri vengono utilizzate per costruire la Città di Ossa.”
“Non i criminali,” ribatté Emma.
Jem aggrottò le sopracciglia. “Livia difficilmente poteva definirsi tale,” le rispose. “Né puoi farlo tu, ammesso che tu non stia pensando di commettere un crimine…?”
L’ho già fatto. Sono tremendamente innamorata del mio parabatai. Il desiderio di pronunciare quelle parole, di confessare il segreto a qualcuno – a Jem, nello specifico –, era come una pressione dietro gli occhi di Emma. Per impedirselo, Emma butto lì alla svelta: “Il tuo parabatai si è mai allontanato da te? Quando tu, sai, volevi parlare?”
“Le persone fanno cose strane quando sono in lutto,” le rispose gentilmente Jem. “Vi stavo osservando da lontano, prima. Ho visto quello che ha fatto Julian per suo fratello durante il funerale. So quanto ha sempre amato quei bambini. Nulla di ciò che dirà o farà, in questi primi giorni, i peggiori, indica chi realmente lui sia. Inoltre,” aggiunse con un lieve sorriso, “essere parabatai è complicato. Una volta ho colpito il mio parabatai in faccia.”
“Hai fatto cosa?”
“Quello che ho detto.” Jem sembrava divertito dal suo stupore. “Ho colpito il mio parabatai – lo amavo più di quanto abbia mai amato chiunque altro al mondo eccetto Tessa, e l’ho colpito in faccia perché il mio cuore si stava spezzando. Ho difficilmente il diritto di giudicare gli altri.”
“Tessa!” esclamò Emma, sentendosi improvvisamente una maleducata per non aver chiesto prima di lei. “Dov’è?”
La mano di Jem si strinse a pugno in mezzo all’erba. “Nel Labirinto a Spirale insieme a Catarina Loss, alla disperata ricerca di una cura. Tutti gli stregoni si stanno ammalando. Tessa sembra protetta dal suo sangue Shadowhunter. Ma tutti gli stregoni più antichi, che hanno utilizzato più magia, e più magia potente, si stanno ammalando per primi.”
“Magnus,” disse Emma. “È molto antico e potente, non è vero? E usa un sacco di magia?”
Jem annuì cupamente.
“Quanto sa Tessa di tutta questa faccenda?” chiese Emma. “L’hanno capita?”
“Tessa pensa che sia connessa agli omicidi che ha commesso Malcolm insieme ai Seguaci del Guardiano,” rispose Jem. Emma lo fissò. Tutta quella storia sembrava a un migliaio di mondi di distanza. “Ha utilizzato le linee di prateria per alimentare la sua magia negromantica – se le linee si sono avvelenate, potrebbero star portando quel veleno a tutti gli stregoni che le utilizzando.”
“Gli stregoni non potrebbero semplicemente non usarle?”
“Ci sono solo una manciata di fonti di potere,” le rispose Jem. “Le linee di prateria sono la più semplice. Molti stregoni hanno smesso di utilizzarle, ma questo significa che stanno esaurendo velocemente i loro poteri, e anche questo è dannoso.” Le rivolse un sorriso poco convincente. “Tessa risolverà tutto,” le rispose. “Ha trovato Kit – troverà anche la soluzione per questo problema. Mi preoccupi di più tu in questo momento. Sembri smunta e tesa…”
“Sono stata costretta a vedere Livvy morire,” lo interruppe Emma. “Hai mai visto qualcuno che amavi morire?”
“Sì,” rispose Jem.
Era quello il problema delle persone molto vecchie, pensò Emma. Raramente potevi dire di aver sperimentato qualcosa che loro non avessero provato.
“E adesso Horace Dearborn è diventato l’Inquisitore,” aggiunse. “È come se non ci fosse più alcuna speranza.”
“C’è sempre una speranza,” disse Jem. “E, sebbene io non possa restare al tuo fianco, poiché devo tornare da Tessa, sarò a un messaggio di fuoco di distanza. Mandami una lettera e arriverò, non importa quanto possa essere distante.” La cinse con un braccio e la tenne stretta per qualche istante. “Prenditi cura di te, mèi mei [NdT: sorellina].”
“Che significa?” domandò Emma. Ma Jem era già scomparso tra gli alberi, svelto come quando era arrivato.
Kit era in piedi a osservare il fumo che si alzava in lontananza attraverso la finestra della camera che divideva con Ty.
Almeno, pensava di dividerla con Ty. Il suo borsone era lì, gettato in un angolo, e nessuno si era preso la briga di dirgli se dovesse o meno andare in un’altra stanza. Quella mattina si era vestito in bagno, e uscendo aveva trovato Ty intento a sfilarsi la maglietta dalla testa. I suoi Marchi sembravano neri in modo insolito, probabilmente perché aveva la pelle pallidissima. Sembrava così delicato – Kit era stato costretto a distogliere lo sguardo dalla forma delle sue scapole, dalla fragilità della sua colonna vertebrale. Come poteva avere quell’aspetto ed essere abbastanza forte da combattere i demoni?
Al momento Ty era al piano di sotto, insieme al resto della sua famiglia. Le persone tendevano a cucinare, dopo la morte di qualcuno, e gli Shadowhunters non facevano eccezione. Qualcuno probabilmente stava cucinando uno stufato. Uno stufato demoniaco. Kit si appoggiò contro il vetro fresco della finestra.
C’era stato un tempo in cui sarebbe potuto scappare, pensò Kit. Sarebbe potuto fuggire, lasciandosi alle spalle gli Shadowhunters, e svanire nel mondo sotterraneo dei Mercati delle Ombre. Sarebbe potuto diventare come suo padre, parte di nessun mondo, esistendo nel mezzo.
Nel riflesso della finestra di vetro, Kit vide la porta della stanza da letto aprirsi, e Ty entrare. Indossava ancora il suo vestito da funerale, ma si era tolto la giacca, e portava solo una t-shirt nera a maniche lunghe. E Kit realizzò che era troppo tardi per scappare, che adesso gli importava di quelle persone, e di Ty in particolare.
“Sono felice che tu sia qui.” Ty si sedette sul letto e iniziò a slacciarsi le scarpe. “Volevo parlarti.”
La porta era ancora leggermente socchiusa, e Kit riusciva a sentire delle voci provenienti dalla cucina al piano di sotto. Quelle di Helen, Dru, Emma, Julian. Diana era tornata a casa sua. Apparentemente, abitava in un negozio di armi, o qualcosa del genere. Era andata a prendere un qualche tipo di strumento che riteneva in grado di togliere le schegge dalle mani sanguinanti di Julian.
Le mani di Ty erano a posto, ma si era messo dei guanti comunque. Kit aveva visto quelle di Julian quando era andato a sciacquarle nel lavandino, e sembrava quasi che un proiettile sharpnel gli fosse esploso tra i palmi. Emma era rimasta lì vicino, preoccupata, ma Julian le aveva detto di non volere un iratze, che la runa avrebbe soltanto curato la pelle, chiudendola sopra i pezzetti di legno. Aveva usato un tono così piatto da risultare a stento riconoscibile, per Kit.
“So come potrebbe suonare,” disse Kit, voltandosi in modo da avere la schiena premuta contro il vetro freddo. Ty si era tutto ingobbito, e Kit notò una scintilla dorata intorno al suo collo. “Ma non ti stai comportando come mi ero aspettato.”
Ty calciò via gli stivali. “Perché mi sono arrampicato sulla pira?”
“No, quella diciamo che è stata la cosa che hai fatto che più mi aspettavo,” rispose Kit. “Solo…”
“L’ho fatto per recuperare questa,” spiegò Ty, e si portò una mano alla gola. Kit riconobbe la catena d’oro e il sottile disco di metallo a lei attaccato: il ciondolo di Livvy, quello che le aveva dato una mano a mettersi prima dell’incontro del Consiglio. Ricordò vividamente di aver spostato i suoi capelli di lato mentre agganciava la catenella, e l’odore del suo profumo. Gli si rimestò lo stomaco.
“La collana di Livvy,” disse. “Intendo, ha senso. Solo che pensavo che avresti…”
“Pianto?” Ty non sembrava arrabbiato, ma l’intensità nei suoi occhi grigi era diventata più profonda. Stringeva ancora il pendente. “Ci si aspetta che tutti piangano. Ma è perché hanno accettato la morte di Livvy. Io no, però. Non la accetto.”
“Cosa?”
“La riporterò indietro,” disse Ty.
Kit si mise pesantemente a sedere sul davanzale. “E come pensi di farlo?”
Ty lasciò andare la collana e tirò fuori il cellulare dalla tasca. “Erano nel telefono di Julian,” disse. “Le ha scattate mentre era in biblioteca con Annabel. Sono foto delle pagine del Volume Nero della Morte.” Guardò Kit con un’espressione preoccupata. “Verresti a sederti accanto a me, in modo da poterle guardare?”
Kit avrebbe voluto dirgli di no; non ci riusciva. Avrebbe voluto che tutto quello non stesse accadendo, ma stava succedendo. Quando si sedette sul letto accanto a Ty, il materasso si abbassò, e Kit si scontrò accidentalmente con il gomito di Ty. La pelle di Ty era bollente, come se avesse la febbre.
Non era mai venuto in mente a Kit che Ty potesse star mentendo o che si stesse sbagliando, e davvero non sembrava star facendo nessuna delle due cose. Dopo aver passato quindici anni insieme a Johnny Rook, Kit sapeva parecchio bene come fossero fatti i libri di magia malvagia, e questo qui sembrava decisamente cattivo. C’erano degli incantesimi ammucchiati in una grafia fittissima sui bordi delle pagine, insieme a degli schizzi inquietanti di cadaveri che strisciavano fuori dalla tomba, volti che urlavano e scheletri anneriti.
Ty non stava osservando le foto come se fossero inquietanti, però; le guardava come se fossero il Santo Graal. “Questo è il libro di incantesimi per riportare in vita i morti più potente che sia mai esistito,” disse. “Ecco perché non era importante che bruciassero il corpo di Livvy. Con incantesimi del genere, sarà possibile riportarla in vita in ogni caso, non importa cosa le sia successo, non importa per quanto tempo…” Si interruppe con un respiro tremante. “Ma non voglio aspettare. Voglio cominciare non appena torneremo a Los Angeles.”
“Malcolm non ha ucciso un sacco di gente per riportare in vita Annabel?” rispose Kit.
“La correlazione non implica causalità, Watson,” lo corresse Ty. “Il modo più semplice per fare della negromanzia è utilizzare l’energia della morte. Vita in cambio di morte, in pratica. Ma ci sono altre fonti di energia. Non ucciderei mai nessuno.” Fece una smorfia che probabilmente sarebbe dovuta risultare sdegnosa, ma in verità era soltanto tenera.
“Non credo che Livvy vorrebbe vederti fare della negromanzia,” disse Kit.
Ty posò il telefono. “Io non credo che Livvy vorrebbe essere morta.”
Le parole arrivarono a Kit come un pugno nello stomaco, ma prima che potesse rispondere si sentì del fracasso provenire dal piano di sotto. Corsero entrambi in cima alle scale, Ty coi piedi nei calzini, e guardarono la cucina.
L’amico spagnolo di Zara Dearborn, Manuel, si trovava lì, e su di sé portava l’uniforme degli ufficiali della Guardia e un ghigno. Stava alzando le spalle, e Kit si sporse per capire meglio di cosa stesse parlando. Vide Julian appoggiato contro al tavolo della cucina, il volto inespressivo. Gli altri erano sparpagliati per la stanza – Emma sembrava furiosa, e Cristina teneva una mano sul suo braccio, come per trattenerla.
“Sul serio?” esclamò furiosamente Helen. “E non potevate aspettare il giorno dopo il funerale di nostra sorella per trascinare Emma e Julian alla Guardia?”
Manuel fece spallucce, chiaramente indifferente. “Dev’essere ora,” rispose. “La Console insiste.”
“Che sta succedendo?” domandò Aline. “Stai parlando di mia madre, Manuel. Non chiederebbe mai di vederli senza avere una buona ragione.”
“Riguarda la Spada Mortale,” spiegò Manuel. “Vi sembra una ragione abbastanza buona?”
Ty tirò il braccio di Kit, allontanandolo dalle scale. Si spostarono nel corridoio di sopra: le voci della cucina si affievolirono, ma il tono restò pressante.
“Pensi che andranno?” chiese Kit.
“Emma e Jules? Devono. Lo chiede la Console,” rispose Ty. “Ma si tratta di lei, e non dell’Inquisitore, quindi andrà tutto bene.” Si sporse verso Kit, che aveva la schiena premuta contro il muro; odorava di falò. Kit si rese contro che probabilmente era per via della linfa del legno della pira, e il suo stomaco si rimestò di nuovo. “Posso farlo anche senza di te. Riportare in vita Livvy, intendo,” continuò Ty. “Ma non voglio. Sherlock non fa nulla senza Watson.”
“L’hai detto a qualcun altro?”
“No.” Ty si era tirato le maniche della camicia sulle mani, e stava giocherellando con la stoffa con le dita. “So che dev’essere un segreto. Alle persone non piacerebbe l’idea, ma quando Livvy tornerà in vita saranno così felici che non gli importerà.”
“Meglio chiedere il perdono che il permesso,” disse Kit, sentendosi disorientato.
“Sì.” Ty non stava guardando Kit direttamente – non lo faceva mai –, ma i suoi occhi si sollevarono con fare speranzoso; nella fioca luce del corridoio, il grigio nel suo sguardo era così pallido da somigliare a delle lacrime. Kit pensò a Ty addormentato; a come, dopo la morte di Livvy, avesse continuato a dormire per tutto il giorno e la notte, e al modo in cui lui stesso l’aveva osservato dormire, terrorizzato all’idea di ciò che sarebbe successo una volta che si fosse svegliato.
Tutti erano stati terrorizzati. Ty sarebbe andato a pezzi, avevano pensato. Kit ripensò a Julian, in piedi accanto a Ty che dormiva, una mano che accarezzava i capelli del fratello, e al modo in cui aveva pregato – Kit neanche sapeva che gli Shadowhunters potessero pregare, ma Julian l’aveva chiaramente fatto, in quel momento. Ty si sarebbe sbriciolato in un mondo senza la sorella, avevano pensato tutti; sarebbe diventato cenere, proprio come il corpo di Livvy.
E adesso Ty stava chiedendo a Kit di aiutarlo con questa cosa, gli stava dicendo che non voleva farla senza di lui: e se Kit gli avesse risposto di no, e Ty si fosse sgretolato sotto la pressione di cercare di farlo da solo? E se Kit gli avesse tolto la sua ultima speranza, e questo l’avesse fatto crollare?
“Hai bisogno di me?” gli chiese lentamente Kit.
Ty annuì. “Sì.”
“Allora,” rispose Kit, già consapevole di star commettendo un errore enorme, “ti aiuterò.”
Faceva freddo alla Scholomance, persino durante l’estate. La scuola era stata ricavata all’interno del fianco di una montagna, con delle alte finestre che correvano lungo la facciata a strapiombo. Come i lampadari fatti di stregaluce presenti quasi in ogni stanza, fornivano sì luce, ma non calore. Il fresco del lago sottostante, profondo e oscuro sotto la luce della luna, sembrava essersi infiltrato nella pietra delle pareti e del pavimento per diffondersi nell’ambiente, ed era per questo che, persino all’inizio di settembre, Diego Rocio Rosales stava indossando un maglione pesante e una giacca, oltre ai jeans.
I polverosi candelabri da parete allungavano e assottigliavano la sua ombra, mentre Diego camminava a passo svelto attraverso il corridoio, diretto in libreria. Secondo lui, la Scholomance aveva urgentemente disegno di un aggiornamento. L’unica volta in cui suo fratello Jaime era passato a visitare la scuola, aveva detto che sembrava essere stata decorata da Dracula. Sfortunatamente, era la verità. C’erano un po’ ovunque lampadari di ferro (che facevano starnutire Kieran), candelabri da pareti di bronzo e a forma di drago, che stringevano delle stregaluci antiche, e caminetti di pietra cavernosi, con enormi statue di angeli che se ne stavano minacciosamente ai lati. I pasti comunitari si svolgevano intorno a un lungo tavolo che avrebbe potuto ospitare la popolazione del Belgio, sebbene al momento soggiornassero meno di venti persone nella scuola. Solo una manciata di studenti rimaneva a scuola d’estate, durante gli anni di studio, e la maggior parte dei docenti e degli studenti era o a casa o a Idris.
Il che rendeva molto più semplice di quanto previsto, per Diego, nascondere un principe delle fate. L’idea di tenere Kieran alla Scholomance l’aveva reso nervoso – Diego non era bravo a mentire, in genere, e lo sforzo di mantenere una “relazione” con Zara l’aveva già distrutto. Ma era stata Cristina a chiederglielo, e per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Era arrivato in fondo al corridoio, davanti alla porta della biblioteca. Molto tempo prima, l’uscio era stato decorato dalla scritta BIBLIOTECA in caratteri dorati; adesso tutto ciò che restava era il contorno delle lettere, e i cardini scricchiolarono come topi stressati quando Diego spinse la porta per aprirla.
La prima volta che era stato in biblioteca, aveva pensato che fosse uno scherzo. Era una stanza enorme, all’ultimo piano della Scholomance, lì dove il tetto era fatto di vetro spesso; la luce gli filtrava attraverso. Nel periodo in cui la scuola era rimasta deserta, le querce erano cresciute attraverso il pavimento, e nessuno aveva avuto né il tempo né il denaro per rimuoverle. Erano quindi rimaste, circondate dalla polvere delle rocce infrante, con le radici che spaccavano il pavimento e strisciavano attraverso le sedie e i tavoli. I rami si spandevano in alto, formando una tettoria sopra agli scaffali, ricoprendo le sedie e il pavimento di foglie cadute.
A volte Diego si chiedeva se a Kieran quel posto piacesse perché gli ricordava una foresta. Di certo era sul davanzale che passava la maggior parte del tempo, a volte intento a leggere mogiamente tutto ciò che poteva trovare nella sezione sulle fate. A volte formava una pila con i libri che gli sembravano accurati. Ogni giorno la pila si rivelava molto piccola.
Guardò Diego mentre entrava nella stanza. Aveva i capelli blu-nerastri; lo stesso colore del lago fuori dalla finestra. Aveva sistemato due libri nella pila accurata e ne stava leggendo un terzo: I Rituali di Accoppiamento degli Unseelie.
“Non conosco nessuno nella Terra delle Fate che abbia mai sposato una capra,” disse, irritato. “Né nella Corte Seelie né nella Unseelie.”
“Non prenderla sul personale,” rispose Diego. Tirò fuori una sedia e si sedette col volto in direzione di Kieran. Riusciva a vedere entrambi riflessi nella finestra. Kieran, se possibile, dal giorno in cui era arrivato a scuola era diventato ancora più magro, e i suoi polsi ossuti spuntavano dalle maniche dell’uniforme che gli era stata prestata. Gli abiti di Diego si erano rivelati troppo grandi per lui, quindi Rayan Muadabuchi si era offerto di prestarne qualcuno a Kieran – non era sembrato infastidito all’idea che Diego stesse nascondendo una fata in camera sua, ma non c’era niente che turbasse più di tanto la superficie della calma di Rayan. D’altro canto Divya, l’altra migliore amica di Diego, a scuola, sobbalzava nervosamente ogni volta che qualcuno affermava di star andando in biblioteca, sebbene Kieran fosse misteriosamente bravo a nascondersi.
Divya e Rayan erano le uniche persone a cui Diego avesse detto di Kieran, principalmente perché erano gli unici due all’interno della Scholomance di cui attualmente si fidasse. C’era un unico insegnante nell’edificio – il professor Kaidou, che era coinvolto in un progetto di ricerca sulle proprietà magiche dell’acqua del Lago Lyn e difficilmente lasciava il suo studio – e, anche se in passato Diego si sarebbe fidato di un insegnante senza pensarci due volte, ormai non era più così.
“Hai sentito niente da Idris?” gli domandò Kieran, abbassando lo sguardo sul suo libro.
“Parli di Mark,” rispose Diego, “e lui non mi ha fatto sapere nulla. Non sono la sua persona preferita.”
Kieran alzò lo sguardo. “Sei quella di qualcuno?” In qualche modo riuscì a porre la domanda senza che sembrasse un insulto, ma semplicemente un’informazione che era interessato a conoscere.
Diego, che a volte si faceva la stessa domanda, non rispose.
“Pensavo che potessi aver sentito qualcosa da Cristina.” Kieran chiuse il libro, tenendo il segno con un dito. “Se lei stia bene, e Mark – pensavo che oggi ci fossero i funerali.”
“C’erano,” rispose Diego. Anche lui aveva pensato che forse avrebbe sentito Cristina; sapeva che era affezionata a Livia Blackthorn. “Ma per noi i funerali sono un momento molto impegnativo. C’è una grande cerimonia, e un sacco di persone vengono a visitarti e darti le condoglianze. È possibile che Cristina non abbia il tempo di contattarmi.”
Kieran sembrò addolorato. “Sembra fastidioso. Noi fate sappiamo lasciare quanti stanno portando il lutto da soli.”
“È un fastidio, ma allo stesso tempo non lo è,” gli rispose Diego. Pensò alla morte di suo nonno, a come la casa fosse stata piena della luce delle velas, delle candele che bruciavano in modo bellissimo. A come i visitatori fossero venuti e avessero portato in dono del cibo, che poi avevano mangiato e bevuto insieme, raccontandosi ricordi sul nonno. Ovunque c’erano delle calendule, e l’odore alla cannella dell’atole, e il suono delle risate.
A Diego sembrava freddo, e solitario, portare il lutto da soli. Ma le fate erano diverse.
Gli occhi di Kieran si affilarono, come se qualcosa sul volto di Diego avesse svelato i suoi pensieri. “C’è qualcosa in programma anche per me?” domandò. “Dove verrò mandato, quando il mio tempo qui sarà finito?”
“Pensavo che saresti voluto tornare a Los Angeles,” ribatté Diego, sorpreso.
Kieran scosse la testa. Alcune ciocche dei suoi capelli erano diventate bianche; il colore sembrava cambiare in base al suo umore. “No. Non tornerò dove c’è Mark.”
Diego rimase in silenzio – non aveva un piano. Cristina gli aveva chiesto di nascondere Kieran, ma non aveva mai specificato per quanto. Diego aveva desiderato farlo per lei, perché sapeva di doverglielo; aveva pensato a Zara – aveva ricordato la sofferenza sul volto di Cristina quando l’aveva incontrata per la prima volta.
Era stata colpa di Diego. Non le aveva parlato di Zara perché aveva disperatamente sperato che sarebbe successo qualcosa che l’avrebbe strappato al suo fidanzamento con lei prima che fosse necessario dirglielo. Erano stati i Dearborn a insistere per il contratto matrimoniale. Avevano minacciato di rivelare i segreti della famiglia Rocio Rosales, se Diego non avesse fatto qualcosa per dimostrare loro di essere stato onesto, quando aveva assicurato di non conoscere la posizione del fratello, e di non sapere dove fossero gli artefatti che aveva preso Jaime.
Non gli era mai chiesto se fosse innamorato di Zara, né se era stato chiesto a lei se amasse lui. Sembrava che per Zara essere fidanzata col figlio di una famiglia importante fosse una piuma sul cappello, ma in lei non c’era passione, se non nei confronti per le orribili idee supportate da suo padre.
Gli occhi di Kieran si spalancarono. “Quello cos’è?”
Quello era una luce brillante, simile a un fuoco fatuo, sulla spalla di Diego. Un messaggio di fuoco. Diego lo afferrò e la carta si srotolò nella sua mano: riconobbe immediatamente la scrittura. “Cristina,” disse. “È un messaggio di Cristina.”
Kieran scattò a sedere così velocemente che il libro cadde dal suo grembo e finì a terra. “Cristina? Cos’ha detto? Sta bene?”
Strano, pensò Diego; si era aspettato che Kieran chiedesse se Mark stava bene. Ma scacciò quasi immediatamente il pensiero, sostituito dalle parole che stava leggendo.
Con la sensazione di essere stato preso a calci nello stomaco, Diego porse il messaggio a Kieran, e guardò l’altro ragazzo impallidire mentre scopriva che Horace Dearborn era stato fatto Inquisitore.
“Questo è uno schiaffo in faccia a Mark,” commentò Kieran con la mano che gli tremava. “I Blackthorn avranno il cuore spezzato, così come Cristina. E quello è un uomo pericoloso. Un uomo mortale.” Alzò lo sguardo verso Diego, un occhio nero come la notte e uno grigio come una tempesta. “Che possiamo fare?”
Diego scosse il capo. “Chiaramente non capisco le persone,” disse, ripensando a Zara, a Jaime, a tutte le bugie che aveva raccontato e a come nessuna gli avesse fatto ottenere ciò che voleva, peggiorando soltanto le cose. “Nessuno dovrebbe mai chiedere a me come risolvere le cose.”
Mentre Kieran continuava a osservarlo, sbigottito, Diego nascose il viso tra le mani.
“So che queste parole devono sembrarvi vuote, al momento,” disse Jia, “ma mi dispiace tantissimo per Livia.”
“Hai ragione,” rispose Julian. “Lo sembrano.”
Era buio, fuori dalla finestra del Console, e le torri demoniache correvano lungo il profilo di Alicante come una fila di diamanti frastagliati. Emma si guardò intorno, ricordando l’ultima volta in cui era stata in quella stanza – aveva avuto dodici anni, ed era stata estremamente impressionata da quanto tutto fosse sfarzoso, con spessi tappeti sul pavimento e una scrivania di un mogano scintillante. Adesso lei, Julian e Diana erano tutti seduti su delle poltrone davanti alla scrivania di Jia. Diana aveva l’aria furiosa. Julian sembrava semplicemente assente.
“Questi ragazzi sono stanchi e pieni di dolore,” disse Diana. “Rispetto il tuo giudizio, Jia, ma bisognava farlo proprio adesso?”
Jia si premette le dita contro la fronte. “Sì,” rispose, “perché Horace Dearborn vuole interrogare Helen e Mark, e ogni altro Nascosto o mezzo-Nascosto ad Alicante. Magnus e Alec stanno già facendo i bagagli per andarsene stanotte con un Portale. Ho pensato che voleste far andare via anche Helen e Mark.”
“Vuole cosa?” Emma raddrizzò la schiena, indignata. “Non puoi lasciarglielo fare.”
“Non ho altra scelta. È stato eletto dalla maggioranza dei voti.” Jia aggrottò la fronte. “Interrogare le persone è ciò che fa l’Inquisitore – la decisione è sua discrezione.”
“Horace Dearborn non ha discrezione,” ribatté Diana.
“Ed è per questo che vi sto avvertendo in anticipo,” spiegò Jia. “Il mio consiglio è di far andare via Helen e Mark – e Aline, dal momento che non lascerà Helen – con un Portale per Los Angeles, stanotte.”
Ci fu silenzio per qualche istante. “Ti stai offrendo di mandare Helen a Los Angeles?” domandò alla fine Julian. “Non a Wrangel Island?”
“Sto suggerendo di far gestire momentaneamente l’Istituto di Los Angeles a Helen e Aline,” rispose Jia, ed Emma sentì che la sua bocca si stava spalancando. “In qualità di Console, questo rientra tra i miei poteri, e credo di poterlo far succedere ora, subito, mentre Dearborn è distratto.”
“Quindi stai dicendo che tutti dovremmo andarcene col Portale?” chiese Emma. “E Helen e Aline possono venire con noi? È stupendo, è…”
“Non sta parlando di tutti noi,” la interruppe Julian. Aveva entrambe le mani bendate. Si era tolto da solo la maggior parte delle schegge, con la punta di un coltello affilato, e sulle bende c’era del sangue. Non sembrava essersene accorto – Emma aveva sentito il dolore, mentre guardava la sua pelle tagliata dalla lama; Julian però non aveva mai titubato. “Sta dicendo che io, tu e Diana resteremo qui, a Idris.”
“Sei sempre stato intelligente, Julian,” commentò Jia; non sembrava ammirare granché quella qualità.
“Se Helen e Mark non sono qui, a venire interrogati saremo noi,” aggiunse Julian. “Non è vero?”
“No,” disse Diana in tono affilato. “Sono bambini.”
“Sì,” rispose Jia. “E una di loro ha rotto la Spada Mortale. L’altro ha portato Annabel Blackthorn ad Alicante.”
“Ma non so come ha fatto a rompersi,” ribatté Emma. “Ho attaccato Annabel perché stava cercando di uccidermi. È stata autodifesa…”
“Le persone sono terrorizzate. E il terrore non è logico,” spiegò Jia. “Questo era assolutamente il momento peggiore perché la Spada Mortale si rompesse, un momento di seria instabilità, e l’alba di una possibile guerra con le fate. E dopo che il Re Unseelie ha strappato Annabel dalla Sala del Consiglio – non capite che siete stati voi a portarla qui?”
“Sono stato io.” La pelle intorno alla bocca di Julian era sbiancata. “Emma non c’entra niente.”
Emma sentì una debole scintilla di sollievo in mezzo al panico e all’oltraggio. Mi difende ancora.
Jia abbassò lo sguardo sulle sue mani. “Se dovessi mandarvi tutti a casa, ci sarebbe una rivolta. Se Dearborn avrà la possibilità di interrogare voi, allora l’attenzione del pubblico si sposterà. La Coorte mette in dubbio la vostra lealtà, principalmente per via di Helen e Mark.”
Julian rise in maniera amara. “Sospettano di noi per via di mio fratello e di mia sorella? Più per questo che per il fatto che io abbia portato quella cosa – che io abbia portato Annabel in città? E promesso che sarebbe andato tutto bene? Ma è il sangue di Mark e Helen a importare più di ogni altra cosa?”
“Il sangue è sempre importante, per il genere di persona peggiore,” rispose Jia, e nella sua voce c’era una rara amarezza. Si passò una mano sul viso. “Non vi sto chiedendo di stare dalla sua parte. Dio, non ve lo sto affatto domandando. Fategli solo capire che siete vittime di Annabel. Le persone che non fanno parte della Coorte provano molta compassione per voi per via di Livia – non potrà schierarsi troppo contro l’opinione pubblica.”
“Quindi questo che stiamo facendo è un balletto inutile?” domandò Emma. “Lasciamo che l’Inquisitore ci faccia delle domande, principalmente per fare spettacolo, e poi ce ne torniamo a casa?”
Jia sorrise cupamente. “Ora cominci a capire la politica.”
“Non hai paura di rendere Aline e Helen i capi dell’Istituto di Los Angeles? Viste le preoccupazioni della Coorte riguardo Helen?” chiese Diana.
“Lo sarà solo Aline, allora.” Julian guardò con fare risoluto Jia. “La figlia del Console. Helen non gestirà nulla.”
“Giusto,” approvò Jia, “e no, non mi piace. Ma questa potrebbe essere una possibilità per riaverle indietro in maniera permanente. È per questo che chiedo il vostro aiuto – l’aiuto di tutti e tre.”
“Verrò interrogata anche io?” C’era una nota di affilata tensione nella voce di Diana.
Jia scosse il capo. “Mi piacerebbe il tuo aiuto. Così come mi hai aiutato in passato con quei documenti.”
“Documenti?” ripeté Emma. “Come potrebbero mai dei documenti essere importanti, ora?”
Ma Diana sembrava aver capito il linguaggio segreto che stava utilizzando Jia. “Resterò, certo,” disse. “A patto che si capisca che sto aiutando te, e che i miei interessi non sono per niente vicini a quelli dell’Inquisitore.”
“Lo capisco,” confermò Jia. Un vale anche per me aleggiò nell’aria.
“Ma i bambini,” si inserì Emma. “Non possono tornare a Los Angeles senza di noi.” Si voltò verso Julian, aspettandosi che avrebbe detto che non poteva essere separato dai suoi fratelli più giovani. Che avevano bisogno di lui, che sarebbero dovuti restare a Idris.
“Helen può prendersi cura di tutti loro,” rispose Julian senza neanche guardarla. “Vuole farlo. Andrà tutto bene. È la loro sorella.”
“Allora è deciso,” affermò Jia, alzandosi. “Farete meglio a dire loro di preparare i bagagli – apriremo il Portale questa notte.”
Anche Julian sia alzò, scostandosi i capelli che gli erano caduti davanti agli occhi con una delle mani fasciate. Cosa diamine c’è di sbagliato in te?, si chiese Emma. C’era qualcosa, in Julian, che andava oltre ciò che poteva spiegarsi col lutto. Emma non si limitava a saperlo, lo sentiva, lì dove il suo legame parabatai le strattonava il cuore.
E più tardi quella notte, quando gli altri se ne fossero andati, avrebbe scoperto di che si trattava.
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Oh cazzarola…allora il libro inizia proprio dove è finito LoS, con Julian disperato e Ty svenuto. oh cielo, non ce la posso fare…
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