Shadowhunters, all’uscita italiana di Signore delle Ombre manca solo un giorno (solo uno!) – e noi abbiamo una sorpresa per rendervi ancora più ansiosi, se possibile.
Grazie alla Mondadori, che ce l’ha concesso in esclusiva, abbiamo modo di mostrarvi il primo capitolo italiano ufficiale del romanzo. 🙂 Leggetelo e fateci sapere che ve ne sembra! Noi siamo sicure che lo adorerete, comunque. 😉
PS: in caso un capitolo solo non vi bastasse, vi ricordiamo di aver tradotto, a suo tempo, le prime cinquanta pagine del libro. Le trovate cliccando qui.
Per un ermo ed oscuro cammino
che solo è battuto da angeli malvagi –
dove un Eidolon regna, che ha nome Notte,
assiso altero su un nero trono,
son ritornato, non è molto, a questi luoghi,
da un’ultima e tetra Thule –
da una strana, selvaggia contrada
che, altissima, si stende
fuori dallo Spazio – fuor dal Tempo.
Valli senza fondo, sconfinate acque,
voragini e caverne, titaniche foreste
e forme che a nessuno mai si disvelano
per le rugiade che vi gocciolano intorno,
montagne che strapiombano per sempre
dentro mari senza lidi;
mari anelanti senza mai sosta,
che si slanciano verso cieli di fuoco;
laghi che continuamente distendono le loro solitarie
acque – deserte e morte –
le loro immobili acque – immobili e gelide
per le nevi del giglio che vi si specchia.
Presso quei laghi che così distendono
le loro solitarie acque – solitarie e morte –
le loro tristi acque, tristi e gelide
per le nevi del giglio che vi si specchia –
presso quelle montagne – presso il fiume
che sussurra sommesso, sussurra in eterno –
presso quei grigi boschi – presso la palude
dove s’accampano il rospo e il ramarro –
presso stagni e lugubri laghetti dove dimorano i vampiri –
presso ogni più sconsacrato luogo –
in ogni più mesto recesso incontra il viandante, con sgomento,
segrete memorie del passato –
forme in funerei ammanti che gemono
e sospirano mentre gli passano accanto –
ombre d’antichi amici in bianche stole,
da gran tempo consegnati alla terra ed al cielo.
Ma per colui i cui affanni son legione
questa è una placida, amabile contrada –
per colui che solitario erra nell’ombra,
oh, è questo un Eldorado!
E il viandante che talvolta vi passa
non può, né osa, apertamente osservarla:
sempre restano perciò irrivelati i suoi
misteri all’occhio umano che non si serri;
tale è del monarca il volere, che non consente
di sollevar le frangiate palpebre.
Il dolente che qui s’attarda solo può guardare
attraverso annebbiati vetri.
Per un ermo ed oscuro cammino –
che solo è battuto da angeli malvagi –
dove regna un Eidolon che ha per nome notte,
assiso altero su un nero trono,
ho vagato ed errato, qui ritornando infine
da quella mia ultima e tetra Thule.
Kit aveva scoperto solo di recente cosa fosse un mazzafrusto, e adesso sopra la testa gli pendeva una sfilza intera di esemplari lucenti, affilati e mortali.
Non aveva mai visto niente di simile all’armeria dell’Istituto di Los Angeles. Le pareti e i pavimenti erano di granito bianco-argento, materiale di cui erano fatte anche le isole che si ergevano a intervalli per tutta la stanza; sembrava di stare nella galleria delle armi di un museo. C’erano staffe e mazze, bastoni da passeggio di ingegnosa fattura, collane, stivali e giacche imbottite che celavano lame piatte e sottili adatte a pugnalare o essere lanciate; stelle del mattino da cui spuntavano aculei tremendi, balestre di ogni forma e dimensione.
Le isole di granito erano ricoperte da pile di strumenti scintillanti scolpiti nell’adamas, la sostanza simile a quarzo che gli Shadowhunters estraevano dalle miniere e che solo loro sapevano trasformare in spade, lame e stilo. Kit, tuttavia, si sentiva più attratto dallo scaffale dei pugnali.
Non che gli interessasse in modo particolare imparare a usarne uno: la sua curiosità non andava oltre quella che probabilmente nutriva la maggior parte degli adolescenti nei confronti delle armi letali, e in ogni caso lui avrebbe preferito una mitragliatrice o un lanciafiamme. Ma con quelle else intarsiate d’oro, argento e incastonate di pietre preziose – zaffiri blu, rubini cabochon, disegni luccicanti di spine incisi nel platino e diamanti neri – i pugnali erano vere opere d’arte.
Gli venivano in mente almeno tre persone che, al Mercato delle Ombre, avrebbero potuto acquistarli per una bella sommetta e senza fare domande.
Quattro, forse.
Si tolse il giubbotto di jeans che aveva indosso – non sapeva a quale dei Blackthorn fosse appartenuto, in origine; il mattino dopo essere arrivato in Istituto si era svegliato e aveva trovato ai piedi del letto un mucchio di vestiti freschi di bucato – e al suo posto ne mise uno imbottito. Si vide riflesso nello specchio in fondo alla stanza: capelli biondi scompigliati, gli ultimi lividi in via di guarigione sulla pelle chiara. Aprì la cerniera della tasca interna e iniziò a riempirla di pugnali nei loro foderi, scegliendo quelli con le else più belle.
A un tratto la porta della sala delle armi si spalancò. Kit lasciò ricadere sullo scaffale il pugnale che stava per afferrare e si voltò di scatto. Era convinto che nessuno lo avesse visto sgattaiolare fuori dalla sua stanza, ma se c’era una cosa che aveva capito durante quel breve soggiorno in Istituto era che a Julian Blackthorn non sfuggiva niente, e i suoi fratelli non erano molto da meno.
Invece non si trattava di Julian. Sulla porta comparve un giovane uomo che Kit non aveva mai visto prima, benché il suo aspetto avesse qualcosa di familiare. Era alto, con i capelli biondi arruffati e la corporatura tipica degli Shadowhunters: spalle larghe, braccia muscolose, le linee nere dei Marchi runici con cui si proteggevano che gli sbucavano dal colletto e dai polsini della camicia.
Aveva gli occhi di un colore insolito, oro scuro. A un dito portava un pesante anello d’argento, come facevano tanti Shadowhunters. Lo guardò alzando un sopracciglio.
«Quindi ti piacciono le armi?» chiese.
«Non sono male.» Kit indietreggiò leggermente verso uno dei tavoli, sperando che i pugnali dentro la tasca interna non tintinnassero.
L’uomo si avvicinò allo scaffale dove Kit aveva frugato e prese il pugnale che l’altro aveva appena lasciato cadere. «Ottima scelta» disse. «Vedi la scritta sull’impugnatura?»
No, non la vedeva.
«È opera di uno dei discendenti di Wayland il Fabbro, colui che creò anche Durlindana e Cortana.» L’uomo si rigirò l’arma tra le dita prima di rimetterla al suo posto nello scaffale. «Niente di così straordinario quanto Cortana, però è uno di quei pugnali che ti tornano sempre in mano dopo che li hai lanciati. Comodo.»
Kit si schiarì la voce. «Deve valere un sacco.»
«Dubito che i Blackthorn abbiano intenzione di vendere» rispose l’altro, asciutto. «Comunque io sono Jace. Jace Herondale.»
L’uomo tacque. Sembrava in attesa di una reazione, cosa che Kit era deciso a non concedergli. Conosceva il cognome Herondale, ovviamente. Anzi, aveva l’impressione che nelle ultime due settimane non avessero fatto che ripetergli altro. Non per questo, tuttavia, voleva dare a quel tizio – a Jace – la soddisfazione di cui era evidentemente in cerca.
Jace, da parte sua, rimase impassibile di fronte al silenzio di Kit. «E tu sei Christopher Herondale.»
«Come fai a saperlo?» ribatté il ragazzo, mantenendo la voce atona e priva di entusiasmo. Detestava il cognome “Herondale”. Detestava quella parola.
«Caratteristiche di famiglia. Noi due ci assomigliamo. Anzi, tu assomigli ai ritratti di molti Herondale che ho visto.» Jace fece una pausa. «E poi Emma mi aveva mandato una tua foto con il cellulare.»
Emma. Emma Carstairs aveva salvato la vita a Kit. Da allora però non si erano parlati molto; dopo la morte di Malcolm Fade, Sommo Stregone di Los Angeles, tutto era precipitato nel caos. Nessuno aveva messo Kit in cima alla lista delle priorità, e lui aveva l’impressione che quella ragazza lo ritenesse ancora un bambino. «D’accordo. Sono Kit Herondale. La gente non fa che ripetermelo, ma per me non significa nulla.» Irrigidì la mascella. «Io sono un Rook. Kit Rook.»
«So cosa ti ha detto tuo padre, ma tu sei un Herondale. E significa qualcosa.»
«Cosa? Che cosa significa?»
Jace si appoggiò contro la parete della sala delle armi, appena sotto un’esposizione di pesanti claymore. Kit sperò che una di quelle spade gli cadesse in testa. «So che sei al corrente dell’esistenza degli Shadowhunters» rispose Jace. «In molti lo sono, soprattutto Nascosti e mondani con la Vista. Che è quello che pensavi di essere tu, dico bene?»
«Io non ho mai pensato di essere un… mondano.» Ma gli Shadowhunters non si rendevano davvero conto di come suonava quella parola nella loro bocca?
Jace lo ignorò. «Società e storia degli Shadowhunters non sono argomenti noti alla maggior parte di chi non è Nephilim. Il mondo degli Shadowhunters è fatto di famiglie, ognuna delle quali possiede un cognome a cui è molto legata e una storia che viene tramandata alla generazione successiva. Ci facciamo carico delle glorie e dei fardelli dei nostri nomi, del bene e del male compiuto dai nostri antenati, per tutto il corso della nostra vita. E cerchiamo di essere all’altezza di quei nomi, così che chi viene dopo di noi debba sopportare pesi meno gravosi.» Incrociò le braccia al petto. Aveva i polsi ricoperti di Marchi, e sul dorso della mano sinistra ce n’era uno che sembrava un occhio aperto. A Kit era parso di notare che quel disegno accumunasse tutti gli Shadowhunters. «Per noi il tuo cognome racchiude un significato profondo. Gli Herondale sono una famiglia che plasma il destino degli Shadowhunters da generazioni. Non siamo rimasti in molti, anzi, pensavano tutti che l’ultimo fossi io. Soltanto Jem e Tessa credevano nella tua esistenza. Ti hanno cercato per molto tempo.»
Jem e Tessa. Insieme a Emma, avevano aiutato Kit a scappare dai demoni che avevano ucciso suo padre. E gli avevano raccontato una storia: la storia di un Herondale che aveva tradito i suoi amici ed era fuggito per iniziare una nuova vita lontano dagli altri Nephilim. Una nuova vita e una nuova stirpe.
«Ho sentito parlare di Tobias Herondale. Sono il discendente di un gran codardo, quindi.»
«Nessuno è perfetto» rispose Jace. «Non tutti i membri di una famiglia possono essere straordinari. Ma quando rivedrai Tessa, perché succederà, lei potrà raccontarti di Will Herondale. E di James Herondale. E del sottoscritto, ovviamente» aggiunse con modestia. «Tra gli Shadowhunters godo di una certa fama. Non per metterti in soggezione, eh.»
«Non mi sento in soggezione» ribatté Kit, chiedendosi se quel tizio facesse sul serio. Mentre parlava, un luccichio nel suo sguardo lasciava intuire una certa ironia, però non avrebbe saputo dirlo con certezza. «Ho voglia di essere lasciato solo.»
«So che sono un bel po’ di informazioni da digerire» gli disse Jace sporgendosi per dargli una pacca sulla schiena. «Ma io e Clary saremo qui, tutte le volte che avrai bisogno di…»
La pacca sulla schiena spostò uno dei pugnali nella tasca interna di Kit. L’arma cadde fragorosamente a terra fra lui e Jace, ammiccando dal pavimento di granito come un occhio accusatore.
«Bene» fece Jace, interrompendo il silenzio che seguì. «Quindi stavi rubando delle armi.»
Sapendo che sarebbe stato inutile negare l’evidenza, Kit tacque.
«Ok. Senti, lo so che tuo padre era un imbroglione, ma tu ora sei uno Shadowhunter e… Aspetta, cos’altro hai in quel giubbotto?» Jace fece qualcosa di complicato con lo stivale sinistro e il pugnale, da terra, volò in aria; lo agguantò con agilità, e i rubini dell’elsa si accesero di riflessi lucenti. «Toglitelo.»
In silenzio, Kit si sfilò il giubbotto e lo gettò sul tavolo; Jace lo voltò e aprì la tasca interna. Rimasero entrambi muti a fissare lo scintillio delle lame e delle pietre preziose.
«Quindi stavi pensando di andartene, ho capito bene?»
«Perché dovrei rimanere?!» esplose Kit. Sapeva che non era il caso, ma non poteva fare altrimenti. Era davvero troppo. La morte di suo padre, il suo odio per l’Istituto, la spocchia dei Nephilim, la loro pretesa che accettasse un cognome che non gli interessava e di cui non voleva interessarsi. «Io qui non c’entro nulla. Potete raccontarmi tutto quello che vi pare sul mio cognome, ma per me non significa niente. Io sono il figlio di Johnny Rook. È tutta la vita che cerco di diventare come lui, non come voi. Io di voi non ho bisogno. Di nessuno. Tutto quello che mi serve sono un po’ di soldi per iniziare, così potrò aprire un banco tutto mio al Mercato delle Ombre.»
Lo sguardo dorato di Jace si assottigliò e, per la prima volta, sotto quella facciata di arrogante sarcasmo Kit vide lo scintillio di un’intelligenza acuta. «Per vendere cosa? Tuo padre vendeva informazioni. Gli ci sono voluti anni, e tanta magia cattiva, per crearsi quella rete di contatti. Vuoi venderti l’anima così, per poter tirare a campare ai margini del Mondo Invisibile? E cosa mi dici di ciò che ha ucciso tuo padre? Tu lo hai visto morire, giusto?»
«Demoni…»
«Già, ma qualcuno li ha mandati. Il Guardiano potrà anche essere morto, ma questo non significa che non ti stiano cercando. Hai quindici anni. Forse penserai anche di voler morire, ma fidati: non è così.»
Kit deglutì. Cercò di immaginarsi dietro una bancarella al Mercato delle Ombre, come aveva fatto negli ultimi giorni. La verità, però, era che lui al Mercato era sempre stato al sicuro grazie a suo padre. Perché la gente temeva Johnny Rook. Cosa gli sarebbe successo, laggiù, senza la sua protezione?
«Ma io non sono uno Shadowhunter» disse. Si guardò attorno nella stanza: milioni di armi, pile di adamas, tenute, armature e cinturoni. Era assurdo. Lui non era un ninja. «Non saprei nemmeno da che parte iniziare per diventarlo.»
«Datti un’altra settimana» lo incoraggiò Jace. «Un’altra settimana qui all’Istituto. Concediti una possibilità. Emma mi ha raccontato di come hai combattuto contro quei demoni che hanno ucciso tuo padre. Solo uno Shadowhunter avrebbe potuto farlo.»
Kit se ne ricordava a malapena, ma sapeva che era successo davvero. Aveva sentito il corpo assumere il controllo. Aveva lottato e, in un certo senso, strano e recondito, gli era piaciuto.
«È questo ciò che sei. Uno Shadowhunter. Sei in parte angelo. Il sangue degli angeli scorre nelle tue vene. Sei un Herondale. Cosa che, a proposito, non significa solo appartenere a una famiglia che si contraddistingue per la bellezza mozzafiato, ma anche per avere un sacco di proprietà di valore, tra cui una grande casa signorile a Londra e una tenuta a Idris, di cui probabilmente una parte è anche tua. Dico giusto per dire, nel caso dovesse interessarti.»
Kit guardò l’anello alla mano sinistra di Jace. Era d’argento, pesante, e aveva l’aria antica. Oltre che preziosa. «Ti sto ascoltando.»
«Ti chiedo solo di provare per una settimana. Dopotutto…» Jace fece un gran sorriso «gli Herondale non sanno resistere a una sfida.»
«Un demone Teuthida?» stava dicendo Julian al telefono, aggrottando le sopracciglia. «È una specie di calamaro, giusto?»
La risposta non fu chiara. Emma riconosceva la voce di Ty all’altro capo, ma non ne distingueva le parole.
«Sì, siamo al molo» proseguì Julian. «Ancora non abbiamo visto niente, però siamo appena arrivati. È un vero peccato che non abbiano dei parcheggi riservati agli Shadowhunters…»
Emma si guardò attorno, con la mente concentrata solo per metà sulla voce di Julian. Il sole era appena tramontato. Aveva sempre amato il molo di Santa Monica, sin da quando era bambina e i suoi genitori la portavano lì per giocare a hockey da tavolo e salire sull’antica giostra. Adorava le schifezze che si potevano mangiare – hamburger e milk shake, cozze fritte e colorati lecca lecca giganti – e il Pacific Park, decadente parco divertimenti sito proprio in fondo al molo, con vista sull’oceano.
Nel corso degli anni i mondani avevano investito milioni di dollari per rimetterlo a nuovo e trasformarlo in un’attrazione turistica. Ora il Pacific Park era pieno di giostre nuove e lucenti; anche i vecchi banchetti che vendevano churros erano spariti, rimpiazzati da gelato artigianale e piatti di aragoste. Ma le tavole di legno sotto i piedi di Emma erano ancora quelle contorte e consumate da anni di sole e salsedine. L’aria sapeva come allora di zucchero e alghe. La giostra con i cavalli continuava a diffondere la sua musica meccanica tutto attorno. C’erano ancora i giochi a moneta con cui potevi vincere un gigantesco panda di peluche, come pure gli angoli bui sotto il molo dove si riunivano mondani sfaccendati e, a volte, cose più sinistre.
Questo significava essere uno Shadowhunter, pensò Emma guardando verso l’enorme ruota panoramica decorata da tanti LED luccicanti. Lungo il molo si estendeva una fila di mondani impazienti di salire; oltre le ringhiere, l’acqua blu scuro si colorava di bianco nei punti in cui le onde si infrangevano. Gli Shadowhunters vedevano il bello delle creazioni dei mondani – le luci della ruota panoramica che si riflettevano sulla superficie dell’oceano brillavano così intense che era come se qualcuno avesse acceso sott’acqua dei fuochi d’artificio rossi, azzurri, verdi, viola e oro – però ne vedevano anche il lato oscuro, il pericolo e il marcio.
«Cosa c’è che non va?» le chiese Julian. Si era fatto scivolare il telefono in tasca, dentro la giacca della tenuta. Il vento, che sul molo non mancava mai e saliva incessantemente dall’oceano portando con sé profumo di salsedine e luoghi lontani, gli sollevava le morbide onde dei capelli castani, facendo sì che gli baciassero le guance e le tempie.
Brutti pensieri, avrebbe voluto rispondergli Emma, però non poteva. Una volta Julian era la persona alla quale poteva dire tutto. Ora era quella a cui non poteva dire niente.
Evitò il suo sguardo. «Dove sono Mark e Cristina?»
«Laggiù» indicò lui. «Al lancio degli anelli.»
Emma seguì lo sguardo di Julian verso lo stand in cui le persone facevano a gara per vedere chi riusciva a lanciare un anello di plastica attorno al collo di una delle bottiglie allineate, una dozzina circa. Cercò di non sentirsi troppo superiore di fronte al fatto che, a quanto pareva, per i mondani quello fosse un compito difficile.
Mark, il fratellastro di Julian, aveva in mano tre anelli. Cristina, con i capelli scuri raccolti in uno chignon ordinato, gli stava accanto ridendo e sgranocchiando popcorn dolce. Mark lanciò gli anelli, tutti e tre insieme; volarono ognuno in una direzione diversa e atterrarono attorno al collo di una bottiglia.
Julian sospirò. «Quando si dice non farsi notare…»
Dai mondani davanti allo stand si levò un misto di tripudio e versi increduli. Per fortuna non erano in molti, e Mark riuscì a ritirare il premio, qualcosa contenuto in un sacchetto di plastica, defilandosi senza troppo clamore.
Tornò verso di loro con Cristina al suo fianco. Le sue orecchie appuntite facevano capolino tra ricci di capelli chiari, ma essendo coperto da un incantesimo i mondani non sarebbero riusciti a notarle. Mark era per metà fata, e il suo sangue di Nascosto traspariva dalla delicatezza dei suoi lineamenti, dalla punta aguzza delle orecchie e dal taglio spigoloso di occhi e zigomi.
«Quindi è un demone calamaro?» fece Emma, più che altro per poter riempire il silenzio tra sé e Julian. Uno dei tanti, in quei giorni. Erano passate solo due settimane da quando tutto era cambiato, eppure sentiva la differenza nel profondo, sin dentro le ossa. Percepiva la distanza di Julian, anche se lui si era sempre dimostrato scrupolosamente gentile e educato da quando gli aveva detto di lei e Mark.
«Così sembra» lo sentì rispondere. Mark e Cristina erano arrivati a portata d’orecchio; Cristina pescava dal suo cartoccio guardandone il fondo sconsolata, quasi sperando di veder comparire altro popcorn dolce. Emma la capiva. Mark, nel frattempo, fissava il suo premio. «Si arrampica su per il molo e cattura le persone, per lo più bambini, chiunque si sporga dai bordi per scattare una foto di sera. Però sta prendendo coraggio: pare che qualcuno lo abbia avvistato nella zona giochi, vicino all’hockey da tavolo. Scusa, ma quello è un pesce rosso?»
Mark sollevò il suo sacchetto di plastica. Dentro, un piccolo pesce arancione nuotava in circolo. «È il pattugliamento migliore che abbiamo mai fatto» disse. «Non avevo mai ricevuto in premio un pesce.»
Emma sospirò dentro di sé. Mark aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita con la Caccia Selvaggia, composta dai membri più anarchici e feroci di tutte le fate. Cavalcavano per il cielo a bordo di ogni genere di mezzo incantato – motociclette, cavalli, cervi, enormi cani rabbiosi – e setacciavano i campi di battaglia prendendo oggetti di valore dai cadaveri e offrendoli in tributo alle Corti delle Fate.
Si stava riabituando con successo a stare con la sua famiglia Shadowhunter, però c’erano ancora volte in cui la vita normale sembrava coglierlo alla sprovvista. In quel momento si accorse che tutti lo stavano fissando con le sopracciglia alzate, il che parve spaventarlo. Allora mise un braccio esitante attorno alle spalle di Emma tenendo il sacchetto con il pesce nell’altra mano.
«Ho vinto un pesce per te, mia bella» disse, dandole un bacio sulla guancia.
Fu un bacio dolce, tenero e delicato, e l’odore di Mark era quello di sempre: aria fredda, spazi aperti, cose verdi che crescevano. Ed era perfettamente logico, pensò Emma, se Mark aveva dedotto che tutti fossero stupiti perché si aspettavano che desse il suo premio a lei. Dopotutto, era la sua ragazza.
Scambiò uno sguardo preoccupato con Cristina, che aveva spalancato i suoi occhi scuri. Julian sembrava sul punto di vomitare sangue. Passò solo un rapido istante prima che ordinasse ai suoi lineamenti di tornare indifferenti, ma Emma si allontanò da Mark rivolgendogli un sorriso di scuse.
«Non sarei in grado di mantenerlo in vita» disse. «Faccio morire le piante solo a guardarle.»
«Sospetto che avrei lo stesso problema» le fece eco Mark, adocchiando il pesce. «Che peccato. Lo avrei chiamato Magnus, perché ha le squame scintillanti.»
Cristina rise. Magnus Bane era il Sommo Stregone di Brooklyn, e aveva un debole per tutto quello che luccicava.
«Forse è meglio se lo lascio libero» propose Mark. Prima che chiunque potesse dire qualcosa, si avvicinò alla ringhiera del molo e svuotò il sacchetto, acqua e pesce insieme, dentro l’oceano.
«Qualcuno se la sente di dirgli che i pesci rossi sono pesci d’acqua dolce, e non possono sopravvivere nell’oceano?» domandò Julian senza scomporsi.
«In realtà no» disse Cristina.
«Ha appena ucciso Magnus?» chiese Emma, ma prima che Julian potesse risponderle Mark si voltò di scatto.
Dalla faccia gli era sparita qualsiasi traccia di buonumore. «Ho appena visto qualcosa correre su per uno dei piloni sotto il molo. Qualcosa di molto poco umano.»
Emma sentì un brivido percorrerle la pelle. I demoni che avevano fatto dell’oceano la loro dimora non si vedevano quasi mai sulla terraferma. A volte faceva degli incubi in cui l’oceano si rivoltava su se stesso e vomitava il proprio contenuto sulla spiaggia: creature con spine e tentacoli, viscide e nerastre, mezze spappolate dal peso dell’acqua.
Nel giro di pochi secondi tutti gli Shadowhunters avevano impugnato un’arma: Emma la sua spada dorata, regalatale dai suoi genitori; Julian una spada angelica e Cristina il suo coltello a farfalla.
«Da che parte è andato?» chiese Julian.
«Verso la fine del molo» disse Mark. Era l’unico a non aver preso un’arma, ma Emma sapeva quanto fosse veloce. Il suo soprannome nella Caccia Selvaggia era “Freccia”, perché era rapido e preciso tanto con arco e freccia quanto con il lancio dei coltelli. «Verso il parco divertimenti.»
«Ci vado io» esordì Emma. «Cercate di spingerlo giù dal bordo del molo. Mark, Cristina, voi mettetevi sotto e cercate di prenderlo se cerca di tornare in acqua.»
Appena il tempo di annuire, ed Emma era schizzata via di corsa. Il vento le sferzava i capelli raccolti in una treccia mentre serpeggiava tra la folla verso il parco illuminato, in fondo al molo. Sentiva Cortana calda e solida dentro il palmo della mano, e i suoi piedi volavano sulle doghe di legno deformate dall’oceano. Si sentiva libera, le preoccupazioni accantonate, mente e corpo concentrati sul compito imminente.
Udiva dei passi dietro di sé, e non aveva bisogno di girarsi a guardare per sapere che erano di Jules. Erano gli stessi che l’avevano seguita durante tutti gli anni che aveva combattuto come Shadowhunter. Quando lei aveva perso sangue, l’aveva perso anche lui. Si erano salvati la vita a vicenda, e Julian faceva parte del suo io guerriero.
«Laggiù!» gli sentì esclamare, ma l’aveva già vista da sola: un’ombra scura, ricurva, che si arrampicava su per la struttura di sostegno della ruota panoramica. Le cabine continuavano a girarvi attorno, e gli ignari passeggeri strillavano di gioia.
Emma raggiunse la fila di persone in attesa di salire e iniziò a farsi largo. Lei e Julian si erano fatti delle rune dell’Incantesimo prima di arrivare al molo, e ora risultavano invisibili agli occhi mondani. Ciò non significava, tuttavia, che non potessero far sentire la loro presenza: la gente in coda si lagnò e imprecò mentre lei pestava piedi e assestava gomitate per arrivare davanti.
Una cabina stava scendendo proprio in quel momento, e una coppia formata da una ragazza che mangiava zucchero filato viola e dal suo fidanzato smilzo, vestito di nero, si preparava a salire. Emma alzò lo sguardo e colse un guizzo: il demone Teuthida era strisciato attorno alla cima del perno della ruota. Inveì, si fece largo oltre la coppia rischiando di buttarla a terra e saltò dentro la cabina. Di forma ottagonale, ospitava una panca che correva lungo il perimetro interno, lasciando molto spazio ai posti in piedi. Udì delle grida di sorpresa mentre la cabina saliva, allontanandola dalle scene di caos che aveva creato sotto di sé: la coppia a cui aveva rubato il posto se la stava prendendo con il bigliettaio, mentre le persone ancora in fila sbraitavano l’una contro l’altra.
Sentì la cabina oscillare sotto i piedi mentre Julian le atterrava accanto. Lui alzò la testa. «Lo vedi?»
Emma aguzzò lo sguardo. Certo che aveva visto quel demone, ne era sicura, eppure adesso sembrava svanito. Da quella prospettiva la ruota panoramica era un turbine di luci brillanti, raggi che giravano, sbarre dipinte di bianco. Le due cabinesotto lei e Julian erano vuote; probabilmente la fila doveva ancora ricomporsi.
Bene, pensò. Meno gente c’era sulla ruota, meglio era.
«Ferma.» Sentì sul braccio la mano di Julian che la invitava a voltarsi, e tutto il corpo le si irrigidì. «Rune» aggiunse lui brevemente, ed Emma si accorse che con l’altra mano stava impugnando il suo stilo.
La loro cabina continuava a salire. Sotto, Emma vedeva la spiaggia, acqua scura che si riversava sulla sabbia, e sopra la statale l’ascesa verticale delle colline del Palisades Park, coronate da un bordo di alberi e di verde.
Le stelle erano offuscate ma visibili dietro gli intensi bagliori artificiali del molo. Il modo in cui Julian le stava tenendo il braccio non era né brusco né dolce, ma piuttosto caratterizzato da una sorta di clinico distacco. Glielo girò e iniziò a muovere veloce lo stilo sul polso tracciando rune di Protezione, di Velocità, di Agilità e di Potenziamento dell’udito.
Era la prima volta da due settimane a quella parte che si trovavano così vicini. Le dava le vertigini, la faceva sentire brilla. Lui aveva la testa china, gli occhi concentrati sul disegno, e lei ne approfittò per assorbire la sua immagine.
Le luci della ruota si erano colorate di ambra e di giallo, spolverandogli d’oro la pelle abbronzata. I capelli gli ricadevano in onde sottili sulla fronte. Emma sapeva quanto fosse morbida la pelle ai lati di quella bocca, e anche quanto forti, possenti e vibranti fossero quelle spalle sotto le sue mani. Le ciglia di Julian erano lunghe e folte, così scure che sembravano disegnate a carboncino; lei si aspettava quasi che, al battito delle palpebre, qualche granello di polvere nera gli piovesse sugli zigomi.
Era bellissimo. Lo era sempre stato, ma se n’era accorta troppo tardi. E ora se ne stava lì con le mani lungo i fianchi e il corpo che le doleva per l’impossibilità di toccarlo. Non avrebbe potuto farlo mai più.
Julian concluse quello che stava facendo e girò lo stilo in modo da porgere l’impugnatura a lei, che l’afferrò senza dire una parola mentre lui si scostava il colletto della camicia, sotto la giacca della tenuta. Lì la sua pelle era di un tono più chiaro rispetto a quella abbronzata di viso e mani, oltre che segnata a più riprese dai deboli Marchi bianchi di rune utilizzate e sbiadite.
Per fargliene di nuovi dovette avvicinarsi di un passo. Sotto la punta dello stilo fiorirono rune di Agilità e di Visione notturna. Con la testa gli arrivava proprio a livello del mento; gli guardava dritto la gola, e lo vide deglutire.
«Dimmelo» le disse lui a un tratto. «Dimmi che lui ti rende felice. Che Mark ti rende felice.»
Emma alzò la testa di scatto. Aveva finito le rune, e lui le tolse lo stilo dalla mano immobile. Per la prima volta dopo quella che le era sembrata un’eternità, Julian la stava guardando in faccia, con gli occhi resi blu scuro dai colori notturni del cielo e dell’oceano, una distesa immensa attorno a loro mentre stavano per raggiungere il punto più alto del giro.
«Sono felice, Jules» gli rispose. Cos’era una bugia, in mezzo a tante altre? Non era mai stata brava a raccontarle, però stava imparando. Aveva scoperto che, quando c’era di mezzo l’incolumità delle persone a cui voleva bene, era in grado di mentire. «È… È più intelligente, più sicuro per tutti e due.»
La linea della bocca gentile di Julian si indurì. «Non è…»
Emma sussultò. Dietro di lui si stava innalzando, contorcendosi, una sagoma: era del colore di una chiazza di petrolio e, con i suoi tentacoli bordati di frange, si teneva aggrappata a un raggio della ruota. Aveva la bocca spalancata, un cerchio perfetto bordato di denti.
«Jules!» gridò, prima di lanciarsi giù dalla cabina e appendersi a una delle sottili sbarre che correvano tra un raggio e l’altro. Reggendosi con una mano sola, sferrò l’attacco con Cortana, colpendo il Teuthida mentre tentava di sovrastarla. La belva ululò, e dalla ferita le uscì un getto di icore; Emma gridò quando il liquido la investì sul collo, ustionandole la pelle.
In quell’istante un coltello penetrò il corpo rotondo e nervato del demone. Emma, che nel frattempo si era issata su un raggio, abbassò lo sguardo: Julian era in equilibrio sul bordo della cabina, con un altro coltello già pronto in mano; prese la mira guardandosi lungo il braccio, fece volare l’arma e…
Colpì con clangore il fondo di una cabina vuota. Il Teuthida si era tolto di mezzo a una velocità incredibile. Emma lo sentiva arrancare verso il basso, sull’intrico di sbarre di metallo che componevano l’interno della ruota.
Rinfoderò Cortana e iniziò a strisciare lungo il raggio su cui si trovava, scendendo verso il fondo della ruota in mezzo a un’esplosione di luci ora viola e dorate.
Aveva le mani sporche di icore e di sangue, cosa che rendeva la discesa scivolosa. Era assurdo, ma da quella posizione il panorama era stupendo: oceano e sabbia si allargavano davanti a lei in tutte le direzioni, come se fosse appesa al bordo stesso del mondo.
Sentiva in bocca il sapore del sangue e del sale. Sotto, Julian era fuori dalla cabina e si stava arrampicando lungo un raggio più basso. Alzò lo sguardo su di lei e indicò qualcosa; Emma seguì il suo dito e vide che il Teuthida era quasi al centro della ruota.
Vi si stava avviluppando attorno, sferzando il perno con i suoi tentacoli. Emma sentiva l’eco dei suoi colpi fin dentro le ossa. Allungò il collo per vedere che intenzioni avesse il demone e rimase di sasso: il perno centrale della ruota era un enorme bullone che ancorava l’intera struttura agli appositi sostegni, e il Teuthida stava tentando di svitarlo. Se ci fosse riuscito, questa si sarebbe staccata per poi rotolare giù per il molo, come una ruota di bicicletta allo sbando.
Emma non si faceva illusioni: sapeva che in quel caso nessuno, a bordo o anche solo nelle vicinanze, sarebbe sopravvissuto. La ruota avrebbe finito per accartocciarsi su se stessa, schiacciando ogni cosa sotto di sé. I demoni si nutrivano di distruzione, dell’energia della morte: per il Teuthida sarebbe stato un banchetto.
La ruota panoramica oscillò. Il demone teneva i tentacoli stretti attorno al bullone centrale e iniziava a girarlo. Emma raddoppio la velocità a cui si stava calando, ma era ancora troppo lontana dal perno. Julian si trovava più vicino, ma lei sapeva quali armi aveva con sé: due coltelli, già lanciati, e delle spade angeliche, troppo corte per poter raggiungere il demone.
Alzando lo sguardo su di lei, distese il corpo lungo la sbarra metallica, la strinse con il braccio sinistro per ancorarvisi e allungò una mano.
Emma capì subito, senza bisogno di chiederselo, che cosa avesse intenzione di fare. Inspirò a fondo e lasciò la presa sul raggio.
Cadde giù, verso Julian, tendendo una mano per afferrare quella di lui. Si presero e si strinsero, e lei lo sentì trasalire mentre si faceva carico del suo peso. Si slanciò in avanti e verso il basso, la mano sinistra agganciata alla destra di lui, e con il braccio libero sguainò Cortana. La forza della caduta la proiettò in avanti, portandola verso il centro della ruota.
Il demone Teuthida alzò la testa mentre lei gli volava incontro e, per la prima volta, riuscì a vedergli gli occhi: ovali e ricoperti da una patina protettiva lucida, riflettente. Parvero quasi allargarsi come occhi umani quando slanciò la spada in avanti, abbassandogliela sul capo e conficcandogliela nel cervello.
La belva dimenò i tentacoli all’impazzata, un ultimo spasmo agonizzante mentre il suo corpo si liberava dalla lama e scivolava via, rotolando lungo uno dei raggi della ruota inclinati verso il basso. Arrivò in fondo e cadde giù.
Dal punto in cui si trovava, Emma ebbe l’impressione di aver sentito un tonfo e degli schizzi, ma non c’era tempo per porsi domande. La mano di Julian già stringeva la sua, e la tirava verso l’alto. Rimise con decisione Cortana nel fodero mentre lui la tirava su, sempre più su, fino al raggio su cui era sdraiato; a quel punto lei gli ricadde goffamente addosso per metà.
Julian le teneva ancora la mano e respirava forte. I loro sguardi si incrociarono, per un secondo appena. Intanto la ruota girava, riportandoli verso terra; Emma vedeva gruppi di mondani sulla spiaggia, il luccichio dell’acqua lungo la battigia, persino una chioma scura e una chiara che avrebbero potuto essere Mark e Cristina…
«Bel lavoro di squadra» sentì dire a Julian.
«Lo so.» E lo sapeva davvero. Era la cosa peggiore: il fatto che lui avesse ragione, che insieme funzionassero ancora alla perfezione come parabatai. Come compagni guerrieri. Come una coppia di soldati che mai, mai avrebbero potuto essere divisi.
Mark e Cristina li stavano aspettando sotto il molo. Lui si era tolto gli stivali ed era entrato fino ai polpacci nell’oceano; lei, intenta a riporre il coltello a farfalla, aveva davanti ai piedi una chiazza di sabbia vischiosa che andava asciugandosi.
«Hai visto quella specie di calamaro precipitare dalla ruota panoramica?» chiese Emma avvicinandosi a loro con Julian.
Cristina annuì. «È caduto nell’acqua bassa. Non era del tutto morto, perciò Mark l’ha trascinato sulla spiaggia e gli abbiamo dato il colpo di grazia.» Tirò un calcio alla sabbia davanti a sé. «È stato disgustoso, e Mark si è sporcato di viscidume.»
«Io di icore» disse Emma guardandosi la tenuta macchiata. «Proprio un demone schifoso.»
«Sei comunque molto bella» commentò Mark con un sorriso galante.
Emma ricambiò, nei limiti del possibile. Era incredibilmente grata a quel ragazzo, che stava interpretando la sua parte in quella storia senza mai lamentarsi, per quanto strana potesse trovarla.
Secondo Cristina, Mark ci stava guadagnando qualcosa da quella messinscena, ma Emma non riusciva a immaginare cosa. A lui mentire non piaceva: aveva trascorso così tanti anni tra le fate, incapaci di dire falsità, che lo trovava innaturale.
Julian si era allontanato da loro ed era di nuovo al telefono. Parlava a bassa voce. Mark uscì dall’acqua sollevando schizzi e infilò i piedi bagnati negli stivali. Né lui né Cristina erano completamente coperti dall’incantesimo, ed Emma notò le occhiate che i passanti mondani lanciavano a Mark mentre lui le andava incontro. Lo fissavano perché era alto, bello, con due occhi che brillavano più delle luci sulla ruota panoramica. E perché uno di quegli occhi era azzurro, e l’altro oro.
Non solo: in lui c’era un che di strano, di indefinito, una traccia della natura selvaggia propria del Regno delle Fate che a Emma ricordava immancabilmente spazi aperti, sconfinati, libertà e anarchia. Sembrava che il suo sguardo dicesse: Sono un ragazzo perduto. Trovami.
Quando la raggiunse, alzò una mano per scostarle una ciocca di capelli. A quel gesto lei si sentì attraversare da una strana sensazione, un misto di tristezza ed euforia, il desiderio di qualcosa, anche se non sapeva cosa.
«Era Diana» disse Julian. Anche senza guardarlo, sapeva già che faccia dovesse avere mentre parlava: seria, riflessiva, attenta a valutare qualsiasi situazione si fosse creata. «Sono arrivati Jace e Clary con un messaggio da parte del Console. Stanno per tenere una riunione in Istituto, e ci vogliono là adesso.»
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