Shadowhunters, come certamente saprete se ci seguite in pagina e/o su Twitter, ieri sono state rivelate le prime cinquanta pagine di Lord of Shadows. Ben due capitoli e mezzo!
…e noi ve le abbiamo tradotte. Sì, tutte e cinquanta.
Tecnicamente *tossicchia*, una parte del primo capitolo ve l’avevamo già tradotta tempo fa, quindi abbiamo pensato che non avesse senso ritradurre tutto quel pezzo da capo. XD Abbiamo però modificato i pezzettini che nella versione definitiva solo diversi (qualche parola in meno, una frasetta in più, ecc).
Il resto è tutto inedito, e vi chiediamo cortesemente di NON PRELEVARE NIENTE, soprattutto NON la traduzione per intero. Se volete citare una frasetta o due sui social, okay, ma TAGGATECI (trovate quasi tutti i link ai nostri social in fondo al sito. Btw, se non sapete come taggarci, un generico “Shadowhunters.it” può bastare. Ma se ci taggate come si deve potremo vedere i vostri messaggi e mipiacizzarli/rispondere! ;D).
Per favore. Traduzioni di questo tipo portano via persino più tempo del solito, e se dovessimo continuare a vederle girare potremmo seriamente decidere di non farne più. 🙁
Condividere il post per intero è semplicissimo, ed è un ottimo modo per supportare il nostro lavoro. <3
Chiusa la parentesi da rompiscatole… Buona lettura! Fateci sapere che ne pensate qui nei commenti o sui nostri social – ma ricordate di segnalare gli spoiler! :*
PS: no, non è stata ancora annunciata la data d’uscita italiana. Sappiamo solo che arriverà dopo l’estate. Vi terremo aggiornati, promesso. 🙂
Kit aveva scoperto solo di recente cosa fosse un mazzafrusto, e adesso ce n’era un’intera rastrelliera che gli pendeva sopra la testa, scintillante e affilata e mortale.
Non aveva mai visto nulla di simile all’armeria dell’Istituto di Los Angeles, prima. I muri e i pavimenti erano di granito bianco-argenteo, e c’erano isole di granito disposte a intervalli regolari per la stanza; rendevano il tutto simile alla mostra di armi e armature di un museo. C’erano verghe e mazze, bastoni da passeggio abilmente decorati, collane, stivali e giacche imbottite che nascondevano lame sottili e piatte fatte per pugnalare ed essere lanciate. Mazze chiodate ricoperte di spuntoni terribili e balestre di ogni tipo e dimensione.
Le isole di granito stesse erano ricoperte da pile di strumenti scintillanti che erano stati ricavati dall’adamas, la sostanza simile al quarzo che gli Shadowhunters estraevano dalla terra e che solo loro erano in grado di trasformare in spade e lame e stili. Per Kit era più interessante lo scaffale su cui erano stipati i pugnali.
Non è che desiderasse particolarmente imparare come usarli – non provava niente più del generale interesse che sentono la maggior parte degli adolescenti nei confronti delle armi mortali, e in ogni caso avrebbe preferito una mitragliatrice o un lanciafiamme. Ma i pugnali erano delle meraviglie con impugnature intarsiate ricoperte di oro, argento e gemme preziose – zaffiri blu, rubini cabochon, motivi scintillanti di spine incisi nel platino e tra i diamanti neri.
Riusciva a pensare ad almeno tre persone diverse che li avrebbero pagati un sacco e senza fare domande, al Mercato delle Ombre.
Forse quattro.
Kit si tolse la giacca di jeans che indossava – non sapeva a quale Blackthorn fosse originariamente appartenuta; la mattina dopo essere arrivato all’Istituto si era svegliato con una pila di vestiti appena lavati accanto al letto – e si mise una di quelle imbottite. Si intravide nello specchio che si trovava nell’angolo più distante della stanza. Capelli biondi scarmigliati, l’ultimo residuo dei lividi sulla pelle pallida. Aprì la cerniera della tasca interna della giacca e cominciò a riempirla di pugnali nella loro fodera, preferendo quelli con le impugnature più particolari.
La porta della stanza si aprì. Kit lasciò ricadere il pugnale che aveva preso in mano e si affrettò a voltarsi. Pensava di essere riuscito a lasciare la sua camera da letto senza essere notato, ma se c’era una cosa che aveva realizzato durante il suo breve soggiorno all’Istituto era che Julian Blackthorn si accorgeva di tutto, e che i suoi fratelli non erano tanto diversi.
Quello sulla porta non era Julian, però. Si trattava di un giovane uomo che Kit non aveva mai visto prima, anche se aveva un’aria familiare. Era alto, con capelli biondi arruffati e una costituzione da Shadowhunter – spalle larghe, braccia muscolose, le linee nere dei Marchi runici che usavano per proteggersi che gli spuntavano da sotto al colletto e dalle maniche della maglia.
I suoi occhi erano di un insolito oro scuro. Portava un pesante anello d’argento su una mano, così come parecchi altri Shadowhunters. Guardò Kit inarcando un sopracciglio.
“Ti piacciono le armi, eh?” gli chiese.
“Sono okay.” Kit indietreggiò un pochino in direzione dei tavoli, pregando tra sé che i pugnali che portava nella tasca non tintinnassero.
L’uomo si avvicinò allo scaffale dove Kit aveva rovistato e prese in mano il pugnale che lui aveva lasciato cadere. “Ne hai scelto uno ottimo,” gli disse. “Vedi l’iscrizione sull’impugnatura?”
Kit non la vedeva.
“È stato fatto da uno dei discendenti di Wayland il Fabbro, che ha realizzato Durlindana e Cortana.” L’uomo si rigirò il pugnale tra le dita prima di rimetterlo sullo scaffale. “Non è straordinario quanto Cortana, ma pugnali come questo ti tornano sempre in mano dopo che li hai lanciati. È utile.”
Kit si schiarì la voce. “Deve valere un sacco,” disse.
“Dubito che i Blackthorn siano interessati a venderlo,” rispose l’uomo in tono asciutto. “Sono Jace, comunque. Jace Herondale.”
Si fermò. Sembrava che stesse aspettando una reazione, che Kit era deciso a non dargli. Conosceva il cognome Herondale, d’accordo. Erano due settimane che le persone non sembravano ripetergli altro. Ma questo non significava che Kit volesse dare all’uomo – Jace – la soddisfazione che stava così chiaramente cercando.
Jace non sembrò colpito dal silenzio di Kit. “E tu sei Christopher Herondale.”
“Come fai a saperlo?” chiese Kit, mantenendo il tono piatto e privo di entusiasmo. Odiava il cognome Herondale. Odiava quella parola.
“Somiglianza tra parenti,” rispose Jace. “Ci somigliamo. In effetti, somigli ai ritratti di un sacco di Herondale che ho visto.” Si fermò per un attimo. “E poi Emma mi ha mandato una tua foto sul telefono.”
Emma. Emma Carstairs aveva salvato la vita di Kit. Da quel giorno non avevano parlato granché, però – dopo la morte di Malcolm Fade, il Sommo Stregone di Los Angeles, tutto era diventato caotico. Kit non era stato la priorità di nessuno, e inoltre aveva la sensazione che Emma lo considerasse un bambino. “D’accordo. Sono Kit Herondale. Le persone continuano a ripetermelo, ma per me non significa nulla.” Kit serrò la mascella. “Io sono un Rook. Kit Rook.”
“So cosa ti ha detto tuo padre. Ma sei un Herondale. E significa qualcosa.”
“Che cosa? Che dovrebbe significare?” gli domandò Kit.
Jace si appoggiò contro il muro della stanza, proprio sotto a un’esposizione di pesanti spadoni scozzesi. Kit sperò che gliene cadesse uno in testa. “So che sei al corrente dell’esistenza degli Shadowhunters,” disse. “Lo sanno un sacco di persone, in particolare i Nascosti e i mondani con la Vista. Ed è questo che pensavi di essere, giusto?”
“Non ho mai pensato di essere un mondano,” ribatté Kit. Gli Shadowhunters non capivano quanto suonasse male quando usavano quella parola?
Jace lo ignorò, però. “La società e la storia degli Shadowhunters – queste non sono cose che la maggior parte dei non-Nephilim sanno. Il mondo degli Shadowhunters è fatto di famiglie, e ognuna ha un cognome di cui si prende cura. Ogni famiglia ha una storia che tramandiamo alle generazioni successive. Portiamo sulle spalle ogni gloria e peso dei nostri cognomi, del bene e del male che hanno fatto i nostri antenati, per tutta la vita. Cerchiamo di essere all’altezza dei nostri cognomi, così che quanti verranno dopo di noi dovranno sopportare un peso più leggero.” Incrociò le braccia sul petto. I suoi polsi erano ricoperti di Marchi; ce n’era uno che somigliava a un occhio aperto sulla sua mano sinistra. Kit aveva notato che tutti gli Shadowhunters sembravano averne uno. “Tra gli Shadowhunters, il tuo cognome è molto importante. Gli Herondale sono una famiglia che ha plasmato i destini degli Shadowhunters per generazioni. Di noi non ne restano molti – in effetti, tutti pensavano che io fossi l’ultimo. Solo Jem e Tessa credevano che tu esistessi. Ti hanno cercato a lungo.”
Jem e Tessa. Insieme a Emma, erano stati loro ad aiutare Kit a scappare dai demoni che avevano ucciso suo padre. E gli avevano raccontato una storia: la storia di un Herondale che aveva tradito i suoi amici ed era fuggito, cominciando una nuova vita lontano dagli altri Nephilim. Una nuova vita e una nuova discendenza.
“Ho sentito parlare di Tobias Herondale,” disse a Jace. “Quindi sono il discendente di un enorme codardo.”
“Tutte le persone hanno dei difetti,” rispose Jace. “Non tutti i membri della tua famiglia possono essere grandiosi. Ma quando vedrai di nuovo Tessa, e succederà, potrà raccontarti di Will Herondale. E di James Herondale. E di me, ovviamente,” aggiunse con modestia. “Tra gli Shadowhunters sono un pezzo grosso. Non lo dico per intimidirti.”
“Non mi sento intimidito,” rispose Kit, chiedendosi se quel tizio fosse reale. Mentre parlava, c’era una scintilla, negli occhi di Jace, che forse lasciava intendere che Kit non dovesse prendere sul serio tutto ciò che gli stava dicendo, ma non era facile esserne certi. “Sento di voler restare da solo.”
“So che è difficile da digerire,” disse Jace. Allungò un braccio per dare un colpetto sulla schiena di Kit. “Ma Clary e io staremo qui per tutto il tempo che ti servirà per…”
Il colpetto sulla schiena mosse uno dei pugnali nella tasca di Kit. Cadde sferragliando tra di loro, osservandoli dal pavimento di granito come un occhio accusatore.
“Bene” osservò Jace, spezzando il silenzio che si era creato. “Quindi stavi rubando delle armi.”
Kit, che sapeva quanto fosse inutile negare, non rispose.
“Okay, senti, so che tuo padre era un truffatore, ma ora sei uno Shadowhunter, e – aspetta, che altro c’è nella tua giacca?” chiese Jace. Fece un gesto complicato col suo stivale sinistro, che calciò il pugnale e lo fece volare in aria. Lo afferrò senza problemi; i rubini sull’impugnatura luccicarono. “Toglitela.”
In silenzio, Kit si sfilò la giacca e la gettò sul tavolo. Jace la voltò e aprì la tasca interna. Osservarono entrambi silenziosamente lo scintillio di lame e pietre preziose.
“Dunque,” disse Jace. “Progettavi di fuggire, suppongo.”
“Perché dovrei restare?” esplose Kit. Sapeva che non avrebbe dovuto, ma non riuscì a evitarlo – era troppo: la perdita di suo padre, l’odio che provava per l’Istituto, l’autocompiacimento dei Nephilim, la loro richiesta di accettare un cognome di cui non gli importava nulla e di cui non voleva che gli importasse. “Non c’entro nulla con questo posto. Puoi dirmi tutto quello che vuoi sul mio cognome, ma per me non significa niente. Sono il figlio di Johnny Rook. Mi sono addestrato tutta la vita per essere come mio padre, non come te. Non ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno di voi. Tutto ciò che mi serve sono dei soldi per avviarmi, in modo da poter avere il mio banco al Mercato delle Ombre.”
Gli occhi dorati di Jace si strinsero, e per la prima volta Kit notò sotto alla facciata arrogante e giocosa una scintilla di acuta intelligenza. “Per vendere cosa? Tuo padre vendeva informazioni. Gli ci sono voluti anni e un sacco di brutta magia per crearsi tutte quelle connessioni. Vuoi venderti anche tu l’anima in quel modo, così da poterti guadagnare da vivere ai confini del Mondo Nascosto? E che mi dici di ciò che ha ucciso tuo padre? L’hai visto morire, no?”
“Demoni…”
“Sì, ma qualcuno li ha mandati. Il Guardiano può essere morto, ma questo non significa che nessuno ti stia cercando. Hai quindici anni. Magari pensi di voler morire, ma, credimi – non è così.”
Kit deglutì. Cercò di immaginarsi dietro a una bancarella del Mercato delle Ombre, nel modo in cui ci era stato durante gli scorsi anni. Ma la verità è che lui era stato al sicuro, lì, solo per via di suo padre. Perché le persone avevano paura di Johnny Rook. Che gli sarebbe successo al Mercato senza la protezione di suo padre?
“Ma non sono uno Shadowhunter,” disse. Guardò in giro per la stanza, osservò le milioni di armi, le pile di adamas, le divise e le parti delle armature e le cinture per le armi. Era ridicolo. Non era un ninja, lui. “Non saprei neanche dove cominciare per diventarne uno.”
“Datti un’altra settimana,” rispose Jace. “Un’altra settimana qui all’Istituto. Concediti una possibilità. Emma mi ha detto come hai combattuto i demoni che hanno ucciso tuo padre. Solo uno Shadowhunter ci sarebbe riuscito.”
Kit ricordava a stendo di aver combattuto i demoni nella casa di suo padre, ma sapeva di averlo fatto. Il suo corpo aveva preso il controllo, e lui aveva combattuto, e gli era anche, in un qualche modo piccolo, strano e nascosto, piaciuto.
“È questo che sei,” continuò Jace. “Sei uno Shadowhunter. Sei in parte angelo. Hai il sangue degli angeli nelle vene. Sei un Herondale. Il che, comunque, non significa solo che fai parte di una famiglia incredibilmente di bell’aspetto, ma vuole anche dire che sei membro di una famiglia che possiede un sacco di proprietà di valore, inclusa una casa di città a Londra e una villa a Idris, e di cui è probabile che tu abbia parzialmente diritto. Sai, se tu fossi interessato.”
Kit osservò l’anello al dito della mano sinistra di Jace. Era d’argento, pesante e dall’aria antica. E prezioso. “Ti ascolto.”
“Tutto ciò che ti sto dicendo è di aspettare una settimana. Dopotutto,” Jace ghignò, “gli Herondale non sanno resistere a una sfida.”
*
“Un demone Teuthida?” domandò Julian al telefono, aggrottando le sopracciglia. “In pratica un calamaro, giusto?”
La risposta le risultò incomprensibile: Emma riusciva a riconoscere la voce di Ty, ma non le sue parole.
“Sì, siamo al molo,” proseguì Julian. “Non abbiamo ancora visto nulla, ma siamo appena arrivati. È un peccato che non abbiano dei posti riservati per le macchine degli Shadowhunters, qui…”
Badando solo in parte alla voce di Julian, Emma si guardò intorno. Il sole era quasi tramontato. Aveva sempre amato il Molo di Santa Monica, sin da quando era una bambina e i suoi genitori la portavano lì per giocare a hockey da tavolo e cavalcare le giostre vecchio stile. Le piacevano il cibo spazzatura – gli hamburger e i milk-shake, le vongole fritte e gli enormi leccalecca attorcigliati – e il Pacific Park, il fatiscente parco divertimenti alla fine del molo, affacciato sull’Oceano Pacifico.
I mondani avevano speso milioni di dollari per rimodernare il pontile e trasformarlo in un’attrazione turistica, negli anni. Il Pacific Park era pieno di giostre nuove e scintillanti; i vecchi carrettini del churro erano spariti, sostituiti da gelati artigianali e piatti di aragoste. Ma le tavole di legno sotto ai piedi di Emma erano ancora deformate e logorate da anni di sole e sale. L’aria continuava a sapere di zucchero e alghe. Le giostre non avevano smesso di spargere in giro la loro musica meccanica. E c’erano ancora dei punti scuri sotto al molo, dove si radunavano mondani senza meta e, a volte, cose ancora più sinistre.
Era questa la particolarità degli Shadowhunters, pensò Emma, facendo scorrere lo sguardo per il pontile fino ad arrivare all’enorme ruota panoramica decorata con dei LED scintillanti. Una fila di mondani era impaziente di calarsi giù dal parapetto di legno; oltre la ringhiera le riusciva di osservare l’acqua blu diventare bianca nei punti in cui le onde si frangevano. Gli Shadowhunters vedevano la bellezza delle cose create dai mondani – le luci della ruota che si riflettevano sull’oceano in maniera così luminosa da dare l’impressione che qualcuno stesse facendo esplodere dei fuochi d’artificio sott’acqua: rosso, blu, verde, viola e oro –, ma erano in grado di notare anche l’oscurità, il pericolo e il marciume.
“Qual è il problema?” le domandò Julian. Aveva fatto scivolare il cellulare nella tasca della giacca della sua uniforme. Il vento – c’era sempre vento, sul molo, vento che soffiava senza tregua dall’oceano e odorava di sale e posti lontani – scompigliò le onde morbide dei suoi capelli castani, facendole baciare le guance e le tempie di Julian.
Pensieri oscuri, avrebbe voluto rispondere Emma. Non poteva, però. Un tempo Julian era stato la persona a cui poteva raccontare qualunque cosa. Adesso era quello a cui non poteva dire nulla.
Evitò il suo sguardo. “Dove sono Mark e Cristina?”
“Da quella parte.” Julian indicò un punto. “Vicino al lancio degli anelli.”
Emma seguì il suo sguardo fino allo stand vivacemente dipinto dove le persone facevano a gara per scoprire se sarebbero riuscite a lanciare un anello di plastica intorno al collo di una delle bottiglie allineate. Si sforzò di non provare un senso di superiorità, visto che i mondani sembravano trovarlo difficile.
Il fratellastro di Julian, Mark, stringeva tra le mani tre anelli di plastica. Cristina, i capelli scuri raccolti in uno stretto chignon, gli stava accanto mangiando del mais caramellato e ridacchiando. Mark lanciò gli anelli: tutti e tre insieme. Ognuno volteggiò in una direzione diversa e finì intorno al collo di una bottiglia.
Julian sospirò. “Diciamo pure addio al non dare nell’occhio.”
Un miscuglio di incitamenti e versi di sconcerto si alzò dal gruppo di mondani che circondava lo stand del lancio degli anelli. Per fortuna, non erano molti, e Mark riuscì a recuperare il suo premio – qualcosa in una busta di plastica – e scappare senza creare troppa confusione.
Si diresse verso di loro con Cristina al suo fianco. Le punte delle sue orecchie appuntite facevano capolino tra i suoi riccioli chiari, ma erano stati incantate in modo da non essere viste dai mondani. Mark era una mezza fatta, e il suo sangue Nascosto si mostrava nella delicatezza dei suoi tratti, nelle punte delle orecchie e nella spigolosità dei suoi occhi e degli zigomi.
“Quindi è un demone calamaro?” chiese Emma, principalmente per avere qualcosa con cui riempire il silenzio tra lei e Julian. C’erano un sacco di silenzi, tra loro, di recente. Erano passate solo due settimane dal momento in cui era cambiato tutto, ma riusciva ad avvertire la differenza in profondità, nelle ossa. Sentiva la distanza di Julian, anche se da quando gli aveva parlato di lei e Mark non era stato altro che scrupolosamente educato e gentile.
“Così pare,” rispose Julian. Mark e Cristina erano ora a portata d’orecchio; lei aveva terminato il suo mais caramellato e fissava il fondo della busta quasi con la speranza che se ne sarebbe comparso dell’altro. Emma riusciva a capirla. Mark, invece, aveva lo sguardo fisso sul suo premio. “Si arrampica sul fianco della banchina e afferra le persone – perlopiù bambini, chiunque si sporga oltre il bordo per fare una foto notturna. Sta diventando più coraggioso, però. Pare che qualcuno l’abbia avvistato all’interno dell’area giochi che si trova nei pressi dell’hockey da tavolo – quello è un pesce rosso?”
Mark sollevò la busta di plastica. All’interno, un piccolo pesce arancione nuotava in cerchio. “Questa è la pattuglia migliore che io abbia mai fatto,” disse. “Non ero mai stato ricompensato con un pesce.”
Emma sospirò dentro di sé. Mark aveva passato gli ultimi anni nella Caccia Selvaggia, il gruppo più anarchico e bestiale tra tutte le fate. Attraversavano il cielo in sella a ogni tipo di essere incantato – motociclette, cavalli, cervi, massicci cani ringhianti – e cercavano campi di battaglia, rubando gli oggetti di valore dai cadaveri e offrendoli come tributi alle Corti fatate.
Si stava riabituando bene a vivere con la sua famiglia Shadowhunters, ma a volte la vita normale sembrava ancora coglierlo alla sprovvista. Si rese conto che tutti lo stavano guardando e inarcò un sopracciglio. Pareva allarmato, e circondò le spalle di Emma con un braccio incerto, tenendo sollevata la busta con l’altra mano.
“Ho vinto un pesce per te, mia diletta,” le disse, e baciò la sua guancia.
Era un bacio dolce, gentile e morbido, e Mark aveva il suo solito odore: quello dell’aria gelida dell’esterno e delle robe verdi che crescono. E aveva assolutamente senso, pensò Emma, che Mark pensasse che tutti fossero sorpresi perché si aspettavano che desse a lei il suo premio. Dopotutto, era la sua ragazza.
Scambiò uno sguardo preoccupato con Cristina, che aveva sbarrato tantissimo gli occhi scuri. Julian sembrava sul punto di vomitare sangue. Quell’espressione durò solo per un attimo, prima che si imponesse di tornare indifferente, ma Emma si staccò da Mark rivolgendogli un sorriso di scuse.
“Non riuscirei mai a tenere in vita un pesce,” dichiarò. “Uccido le piante solo guardandole.”
“Sospetto che avrei il tuo stesso problema,” le rispose Mark, occhieggiando il pesce. “Che peccato – l’avrei chiamato Magnus, perché ha le scaglie scintillanti.”
A quel punto Cristina ridacchiò. Magnus Bane era il Sommo Stregone di Brooklyn, e aveva un debole per i glitter.
“Suppongo che farei meglio a liberarlo,” disse Mark. Prima che qualcuno potesse dirgli qualcosa, si avvicinò al parapetto del molo e fece cadere il contenuto della bustina, pesce e tutto il resto, nel mare.
“Qualcuno ha voglia di dirgli che i pesci rossi vivono nell’acqua dolce e non possono sopravvivere nell’oceano?” domandò lentamente Julian.
“Non proprio,” fece Cristina.
“Ha appena ucciso Magnus?” chiese Emma, ma, prima che Julian potesse risponderle, Mark si voltò di scatto.
Tutto il divertimento era sparito dal suo viso. “Ho appena visto qualcosa trascinare in acqua uno dei pali sotto al molo. Qualcosa di decisamente non umano.”
Emma sentì un leggero brivido correrle lungo la pelle. Era raro vedere i demoni che abitavano l’oceano risalire sulla superficie. A volte aveva incubi in cui l’oceano si rivoltava su se stesso e vomitava tutto il suo contenuto sulla spiaggia: esseri spinosi, tentacolari, melmosi e anneriti, parzialmente schiacciati dal peso dell’acqua.
Nel giro di qualche secondo ognuno aveva un’arma in mano – Emma stava brandendo la sua spada, Cortana, una lama dorata che le era stata data dai suoi genitori. Julian stringeva una spada angelica, e Cristina il suo coltello a farfalla.
“Da che parte è andato?” chiese Julian, teso.
“Verso la fine del molo,” rispose Mark; era stato l’unico a non tirar fuori un’arma, ma Emma sapeva quant’era veloce. Nella Caccia Selvaggia, il suo soprannome era stato “colpo d’elfo”, visto quanto rapido e preciso era con l’arco e le frecce o quando si trattava di lanciare un coltello. “Verso il parco divertimenti.”
“Andrò da quella parte,” disse Emma. “Cercherò di spingerlo giù dal bordo del pontile – Mark, Cristina, voi andate lì sotto, acchiappatelo se dovesse cercare di strisciare di nuovo in acqua.”
Ebbero a stento il tempo di annuire prima che Emma corresse via. Il vento le strattonava la treccia mentre si faceva strada tra la folla, diretta verso la fine del molo. Cortana era calda e solida tra le sue dita, e i suoi piedi volavano sulle tavole di legno curvate dal mare. Emma si sentiva libera; le preoccupazioni erano state messe da parte, e tutto nella sua mente e nel suo corpo era concentrato sulla missione.
Riusciva a sentire dei passi dietro di sé. Non aveva bisogno di controllare per sapere che si trattava di Jules. I suoi passi l’avevano seguita per tutti gli anni in cui era stata una Shadowhunter attiva. Il suo sangue era stato versato insieme a quello di lei. Le aveva salvato la vita, e lei l’aveva salvata a lui. Julian era parte del suo essere guerriero.
“Lì,” lo sentì dire, ma l’aveva già notata: una figura scura e ricurva che si arrampicava sulla struttura di supporto della ruota panoramica. Le carrozze continuavano a ruotargli intorno, e i passeggieri gridavano di gioia, inconsapevoli.
Emma raggiunse la coda per la ruota e iniziò a spingere per attraversare la folla. Lei e Julian si erano disegnati delle rune in grado di nasconderli, prima di raggiungere il molo, ed erano invisibili agli occhi dei mondani. Questo non significava che non potessero far sentire la propria presenza, però. I mondani in fila imprecavano e urlavano mentre Emma calpestava i loro piedi e li prendeva a gomitate.
Una carrozza era appena arrivata giù dondolando; una coppia – una ragazza che mangiava zucchero filato viola e il suo fidanzato allampanato e vestito di nero – era sul punto di salire. Guardando in alto, Emma vide uno sfavillio mentre il demone strisciava lungo la cima della ruota sospesa. Imprecando, Emma spinse via la coppia, quasi buttandola a terra, e balzò sulla carrozza. Era ottagonale, con una panca che correva tutto intorno alle pareti e un sacco di spazio per stare in piedi. Sentì delle urla di sorpresa mentre la carrozza si sollevava, portandola via dal caos che aveva creato, dalla coppia che era stata sul punto di salire sulla ruota e che adesso stava strillando contro al bigliettaio e dalle persone in fila dietro di loro che urlavano l’una contro l’altra.
La carrozza dondolò sotto ai suoi piedi mentre Julian atterrava al suo fianco. Jules allungò il collo. “L’hai visto?”
Emma strizzò gli occhi. L’aveva visto, ne era certa, ma sembrava essere svanito. Dalla sua angolazione, la ruota panoramica non era altro che un pasticcio di luci brillanti, raggi ruotanti e barre di ferro dipinte di bianco. Le due carrozze sotto di loro erano vuote; la fila doveva starsi ancora smistando.
Bene, pensò Emma. Meno gente saliva sulla ruota, meglio era.
“Ferma.” Sentì la mano di Julian sul braccio, le sue dita che la facevano voltare. Tutto il corpo di Emma si irrigidì. “Rune,” le disse, brusco, e lei notò che Julian stringeva lo stilo in pugno.
La loro carrozza stava ancora salendo. Emma riusciva a vedere la spiaggia sotto di loro, l’acqua scura che si riversava sulla sabbia, le colline di Palisades Park che si sollevavano sopra l’autostrada, incoronate da una frangia di alberi e piante.
Le stelle erano fioche, ma si scorgevano dietro le luci luminose del molo. Julian non le strinse il braccio rudemente o con gentilezza, ma con una sorta di distacco clinico. Lo girò, con lo stilo che tracciava dei rapidi movimenti lungo il polso di Emma, disegnandole rune di protezione, di velocità e di agilità e di precisione.
Emma non si avvicinava così tanto a Jules da una settimana. Si sentiva come se avesse le vertigini, un po’ ubriaca. Il capo di Julian si chinò, gli occhi fissi sul suo compito, ed Emma ne approfittò per assorbire quella vista.
Le luci della ruota erano diventate ambra e gialle; facevano diventare la pelle abbronzata di lui color oro. I capelli gli ricaddero sulla fronte in onde soffici e sciolte. Emma conosceva la morbidezza della pelle ai lati delle sue labbra, e la sensazione delle spalle di Julian sotto le sue dita, forti e dure e vibranti. Le sue ciglia erano lunghe e folte, così scure da sembrare di carbone; Emma quasi si aspettava che lasciassero sulle guance una scia di polvere nera, quando Julian le sbatteva.
Era bellissimo. Lo era sempre stato, ma lei se ne era accorta troppo tardi. E adesso se ne stava ritta con le mani lungo i fianchi e il corpo che le faceva male perché non poteva toccarlo. Non avrebbe potuto toccarlo mai più.
Julian finì ciò che stava facendo e ruotò lo stilo in modo che il manico fosse rivolto verso di lei. Emma lo prese senza fiatare mentre lui si scostava il colletto della maglia sotto alla giacca della divisa. La sua pelle, lì, era di una sfumatura più chiara rispetto al viso e alle mani abbronzati; c’erano più e più segni sbiaditi di quelle rune che aveva utilizzato ed erano svanite.
Emma dovette fare un passo nella sua direzione per marchiarlo. Le rune fiorirono sotto alla punta del suo stilo: agilità, visione notturna. La sua testa raggiungeva appena il mento di Julian. Gli stava fissando la gola, e lo notò deglutire.
“Dimmi solo,” fece lui. “Dimmi solo che ti rende felice. Che Mark ti rende felice.”
Emma sollevò il capo di scatto. Aveva terminato la runa; Julian si mosse per toglierle lo stilo dalle dita immobili. Per la prima volta dopo quelli che a lei erano parsi secoli, la stava guardando direttamente, con gli occhi resi blu scuro dai colori del cielo notturno e dal mare, che si spargevano tutt’intorno a loro mentre la ruota panoramica raggiungeva la sua cima.
“Sono felice, Jules,” gli rispose. Che avrebbe mai potuto cambiare una bugia in mezzo a tante altre? Non era mai stata il tipo di persona che mente con facilità, ma stava imparando. Quando in gioco c’era la salvezza delle persone che amava, aveva scoperto di saperlo fare. “Questo è – è più saggio, più sicuro per entrambi.”
La piega della bocca gentile di Julian si indurì. “Non è…”
Emma restò senza fiato. Dietro di lui era comparsa una sagoma che si contorceva – era del colore del petrolio, coi tentacoli a frange aggrappati a uno dei raggi della ruota. La sua bocca era spalancata, un cerchio perfetto contornato da denti.
“Jules!” urlò, e si scagliò fuori dalla carrozza, tenendosi a una delle sottili barre di metallo che correvano tra i raggi. Penzolando da una sola mano, lo colpì con Cortana mentre il demone si ritraeva. Il Teuthida ululò, spargendo icore; Emma cacciò un urlo quando il liquido le finì sul collo e le bruciò la pelle.
Un coltello trapassò il corpo tondo e rinforzato del demone. Tirandosi su uno dei raggi, Emma abbassò lo sguardo e vide Julian in bilico sull’orlo della carrozza, un’altra lama già in mano. Prese la mira, lasciò che il secondo coltello volasse via…
Atterrò sferragliando sul fondo di una carrozza vuota. Il Teuthida, incredibilmente veloce, era sparito. Grazie alla runa dell’udito che le aveva disegnato Julian, Emma riusciva a sentire lui che discendeva la ruota, e il groviglio di barre metalliche che componevano l’interno della giostra.
Rinfoderò Cortana e iniziò a calarsi giù per il raggio a cui era aggrappata, diretta verso il centro. Le luci LED viola e oro le esplodevano intorno.
Aveva le mani sporche di icore e sangue, e questo rendeva la sua discesa scivolosa. Benché fosse assurdo, la vista lì sopra era bellissima: il mare e la sabbia occupavano tutto lo spazio davanti a lei, come se stesse dondolando giù dal bordo del mondo.
Riusciva a sentire in bocca il sapore del sangue, e del sale. Sotto di lei poteva vedere Julian: era fuori dalla carrozza e si arrampicava su un raggio più in basso. Alzò lo sguardo e indicò qualcosa; Emma seguì la sua mano e vide il Teuthida quasi al centro della ruota.
I tentacoli si stavano stringendo intorno alla struttura, schiacciando il suo cuore. Emma era in grado di sentire i riverberi dentro le sue stesse ossa. Allungò il collo per scoprire cosa stesse facendo, e le si gelò il sangue – il centro della ruota panoramica era un bullone gigante, che teneva la giostra ancorata ai suoi supporti strutturali. Il Teuthida stava strattonando il bullone con l’intenzione di strapparlo. Se ci fosse riuscito, l’intera struttura si sarebbe staccata da ciò che la ancorava a terra e sarebbe rotolata per il molo come la ruota sconnessa di una bicicletta.
Emma non si illudeva che qualcuno sulla giostra, o nei suoi paraggi, sarebbe sopravvissuto. La ruota panoramica si sarebbe accartocciata su se stessa e poi sarebbe collassata, schiacciando tutte le persone al di sotto. I demoni si cibavano della distruzione, dell’energia della morte. Il Teuthida avrebbe fatto un banchetto.
La ruota panoramica oscillò. Il demone aveva i tentacoli stretti intorno al bullone di ferro e lo stava ruotando. Emma raddoppiò la sua velocità, ma era troppo distante dal centro. Julian era più vicino, ma lei sapeva benissimo quali armi avesse con sé: due coltelli già lanciati e delle spade angeliche, che erano troppo corte per permettergli di colpire il demone.
Alzò lo sguardo e la guardò mentre, allungato sulla barra di ferro, si ancorava ad essa con il braccio sinistro e tendeva l’altro verso di lei.
Emma seppe immediatamente e senza doverci riflettere cosa stava pensando Julian. Fece un respiro profondo e lasciò andare il suo appiglio.
Cadde verso di lui, allungando la propria mano per raggiungere la sua. Si aggrapparono ed Emma lo sentì sussultare mentre accoglieva il suo peso. Dondolò in avanti e poi verso il basso, la mano sinistra ancorata alla destra di Julian, e con le dita libere sfoderò Cortana. Il peso della sua caduta la spinse in avanti, dirigendola verso il centro della ruota.
Il Teuthida alzò la testa mentre Emma gli piombava addosso, e per la prima volta lei vide gli occhi del demone – erano ovali, con una patina protettiva riflettente che li ricopriva. Sembrò quasi che si allargassero come fanno quelli umani mentre lo colpiva con Cortana, affondando la spada nella testa del demone e poi attraverso il suo cervello.
I suoi tentacoli cedettero – un ultimo spasmo mentre il suo corpo scivolava via dalla lama e piombava al suolo sbattendo lungo i raggi della ruota. Raggiunse il fondo e rotolò via.
A Emma parve di sentire schizzi d’acqua in lontananza. Ma non c’era tempo per pensarci. Julian le stava stringendo la mano e la stava tirando su. Rinfoderò Cortana mentre lui la sollevava sul raggio su cui era steso, e così gli collassò parzialmente e goffamente addosso.
Julian le stava ancora tenendo la mano, respirando affannosamente. Il suo sguardo incontrò quello di Emma, solo per un secondo. Attorno a loro la ruota girava, portandoli giù verso il terreno. Emma riusciva a vedere la folla di mondani sulla spiaggia, il luccichio dell’acqua lungo la riva e addirittura una testa scura e una chiara che potevano essere Mark e Cristina…
“Buon lavoro di squadra,” disse alla fine Julian.
“Lo so,” rispose Emma. E lo sapeva davvero. Era questa la cosa peggiore: il fatto che lui avesse ragione, che loro due lavorassero ancora alla perfezione come parabatai. Come compagni di battaglia. Come una coppia di soldati che non sarebbero mai, mai potuti essere separati.
*
Mark e Cristina li stavano aspettando sotto il pontile. Mark si era tolto le scarpe ed era parzialmente entrato in acqua. Cristina stava riponendo il suo coltello a farfalla. Ai suoi piedi c’era una macchia di sabbia melmosa che si stava asciugando.
“Avete visto la cosa-calamaro cadere dalla ruota?” chiese Emma mentre lei e Julian raggiungevano gli altri.
Cristina annuì. “È caduto nell’acqua bassa. Non era completamente morto, quindi Mark l’ha riportato a riva e l’abbiamo finito.” Diede un calcio alla sabbia di fronte a lei. “Era parecchio disgustoso, e Mark si è coperto di melma.”
“Io ho dell’icore addosso,” disse Emma guardandosi l’equipaggiamento macchiato. “Era davvero un demone incasinato.”
“Sei comunque bellissima,” commentò Mark con un sorriso galante.
Emma gli sorrise in risposta, per quanto le riuscisse. Era incredibilmente grata a Mark, che stava recitando la sua parte senza lamentarsi, sebbene dovesse per forza trovarlo strano. Secondo Cristina, Mark stava ricavando qualcosa da tutta quella faccenda, ma Emma non riusciva ad immaginare cosa. Non è che a Mark piacesse mentire – aveva passato così tanti anni tra le fate, incapaci di dire bugie, da trovarlo innaturale.
Julian si era allontanato e parlava sottovoce al telefono. Mark uscì dall’acqua e infilò i piedi bagnati negli stivali. Né lui né Cristina erano completamente incantati, ed Emma notò gli sguardi dei passanti mondani mentre lui le si avvicinava – perché era alto, e bello, e perché aveva degli occhi che brillavano più luminosi delle luci della ruota panoramica. E perché uno dei suoi occhi era blu e l’altro era dorato.
E perché c’era qualcosa, in lui, qualcosa di indefinitamente strano, una traccia del selvaggio delle terre delle fate che non mancava mai di ricordare a Emma spazi immensi privi di ostacoli, libertà e assenza di regole. Sono un ragazzo sperduto, sembravano dire i suoi occhi. Trovami.
Raggiunta Emma, alzò la mano per scostarle una ciocca di capelli. Un’onda di sentimenti la attraversò – tristezza ed esaltazione, il desiderio di qualcosa, sebbene non sapesse cosa.
“Era Diana,” disse Julian, e anche senza guardarlo Emma poteva immaginare l’espressone sul suo volto – serietà, premura, un’attenta considerazione di qualsiasi fosse la situazione. “Jace e Clary sono arrivati con un messaggio dal Console. Stanno tenendo una riunione all’Istituto, e ci vogliono lì ora.”
Tutti e quattro andarono direttamente in libreria, senza passare a cambiarsi. Solo dopo essere entrati nella stanza e aver realizzato che lei, Mark, Cristina e Julian erano completamente ricoperti di appiccicoso icore demoniaco, Emma si fermò a chiedersi se non sarebbe stato meglio fermarsi a fare una doccia.
Il soffitto della libreria era stato danneggiato due settimane prima e riparato in fretta: il lucernario di vetro colorato era stato rimpiazzato con del semplice vetro resistente, e il soffitto intricatamente decorato era ora ricoperto con un pannello di legno di sorbo selvatico con delle rune intagliate.
Il legno del sorbo selvatico fungeva da protezione: non permetteva alla magia nera di entrare. Aveva anche un effetto sulle fate, però – Emma vide Mark sussultare e guardare di traverso il soffitto mentre entravano nella stanza. Una volta le aveva rivelato che stare vicino a troppo sorbo lo faceva sentire come se la sua pelle fosse ricoperta di minuscole scintille di fuoco. Emma si domandò che effetto dovesse avere sulle fate complete.
“Mi fa piacere vedere che ce l’avete fatta,” disse Diana. Era seduta al capo di uno dei lunghi tavoli della libreria, i capelli legati in una crocchia elegante. Una spessa collana d’oro le scintillava contro la pelle scura. Il suo abito bianco e nero era, come al solito, inconfondibilmente privo di macchie e di grinze. Accanto a lei stava Diego Rocio Rosales, degno di nota per il Conclave perché era un Centurione perfettamente addestrato, e per i Blackthorn perché aveva il soprannome di Diego Il Perfetto. Era irritantemente perfetto – bello in maniera ridicola, un combattente spettacolare, intelligente e immancabilmente educato. Aveva anche rotto il cuore di Cristina prima che lei lasciasse il Messico, il che in circostanze normali avrebbe spinto Emma a progettare la sua morte, ma in questo caso non poteva perché due settimane prima lui e Cristina si erano rimessi insieme.
Diego lanciò un sorriso a Cristina; i suoi denti bianchi e perfetti scintillarono. La spilla dei Centurioni brillava sulla sua spalla, e sull’argento era ben visibile la scritta Primi Ordines. Non era soltanto un Centurione; era uno dei membri della Prima Compagnia, i migliori tra gli studenti che si erano diplomati alla Scholomance. Perché, ovvio, lui era perfetto.
Tra di loro sedevano due figure molto familiari, per Emma: Jace Herondale e Clary Fairchild, i capi dell’Istituto di New York, anche se quando Emma li aveva incontrati per la prima volta erano adolescenti della stessa età che lei aveva adesso. Jace era tutto una scarmigliata bellezza dorata, sembrava essere cresciuto graziosamente. Clary aveva i capelli rossi, dei cocciuti occhi verdi e un viso delicato che poteva trarre in inganno. Aveva una volontà di ferro, cosa che Emma sapeva benissimo.
Clary saltò in piedi, il viso che si illuminava, mentre Jace si lasciava sprofondare nella sedia con un sorriso. “Siete tornati!” urlò lei, correndo da Emma. Indossava dei jeans e una logora maglietta su cui c’era scritto MADE IN BROOKLYN, e che doveva essere appartenuta, un tempo, al suo migliore amico Simon. Aveva un’aria utilizzata e morbida, esattamente come il genere di maglietta che Emma spesso rubava a Julian e si rifiutava di restituirgli. “Com’è andata col demone calamaro?”
A Emma fu impedito di rispondere dall’abbraccio soffocante di Clary.
“Benissimo,” rispose Mark. “Davvero benissimo. Sono così pieni di liquido, i calamari.”
La cosa sembrava davvero fargli piacere.
Clary lasciò andare Emma e aggrottò la fronte davanti a tutto quell’icore, all’acqua marina e a una bava non meglio indentificata che si erano trasferiti sulla sua maglietta. “Capisco che intendi.”
“Io vi darò il bentornati da qui,” disse Jace, salutando con la mano. “C’è un disturbante olezzo di calamari che si diffonde dalla vostra direzione.”
Si sentì una risatina, che venne soffocata molto rapidamente. Emma alzò lo sguardo e vide delle gambe che penzolavano tra la ringhiera della galleria al piano superiore. Con un pizzico di divertimento, riconobbe i lunghi arti di Ty e le calze decorate di Livvy. Erano appollaiati sul livello della galleria perfetto per ascoltare di nascosto – non riusciva neanche a contare il numero di riunioni di Andrew Blackthorn che lei e Julian avevano spiato, da bambini, saziandosi della conoscenza e del senso di importanza che portava presenziare a un incontro del Conclave.
Lanciò un’occhiata a Julian, osservandolo registrare la presenza di Ty e Livvy, e avvertendo l’esatto istante in cui decise, così come lei, di non dire niente a riguardo. L’intero processo le fu chiaro dall’arricciarsi del suo sorriso – era strano quanto Julian diventasse trasparente, per lei, nei momenti in cui abbassava la guardia, e quanto poco riuscisse a capire dei suoi pensieri quando decideva di nasconderli.
Cristina andò da Diego, toccandogli gentilmente la spalla con una mano. Lui le baciò il polso. Emma vide Mark che li osservava, l’espressione illeggibile. Mark le aveva parlato di tante cose, durante le due settimane precedenti, ma non di Cristina. Mai di Cristina.
“Dunque, a quanti demoni marini siamo?” chiese Diana. “In totale?” Fece cenno a tutti di sedersi intorno al tavolo. Lo fecero, schiacciandosi un pochino, Emma accanto a Mark, ma dalla parte opposta rispetto a Julian. Fu lui a rispondere a Diana, calmo come se non stesse colando icore sul pavimento ben lucidato.
“Un paio di demoni più piccoli durante la scorsa settimana,” disse, “ma è normale, quando c’è una tempesta. Finiscono sulla spiaggia. Abbiamo fatto delle pattuglie; gli Ashdown ne hanno fatte altre più a sud. Penso che li abbiamo eliminati tutti.”
“Questo è stato il primo davvero grande,” aggiunse Emma. “Voglio dire, ne ho visti sono alcuni così grossi, in passato. In genere non escono fuori dall’oceano.”
Jace e Clary si scambiarono un’occhiata.
“C’è qualcosa che dovremmo sapere?” domandò Emma. “State collezionando enormi demoni marini per decorare l’Istituto o qualcosa del genere?”
Jace si sporse in avanti, il gomito poggiato sul tavolo. Aveva un’espressione calma, da gatto, e i suoi occhi ambrati erano illeggibili. Clary una volta aveva detto che quando si erano incontrati per la prima volta le era sembrato un leone. Emma riusciva a capire il perché: i leoni sembravano calmissimi e quasi pigri, finché poi non scattavano. “Forse dovremmo parlare del perché siamo qui,” disse Jace.
“Pensavo foste qui per via di Kit,” rispose Julian. “Perché è un Herondale e via dicendo.”
Al piano di sopra si sentirono un fruscio e un leggero mormorare. Ty aveva dormito davanti alla porta di Kit, durante le notti precedenti: un atteggiamento strano che nessuno aveva commentato. Emma immaginava che Ty trovasse Kit insolito e interessante, così come a volte trovava insolite e interessanti le api e le lucertole.
“In parte,” spiegò Jace. “Siamo appena tornati da un incontro del Consiglio a Idris. È per questo che ci abbiamo messo così tanto per raggiungervi, anche se quando ho sentito di Kit ho desiderato arrivare qui il prima possibile.” Si sedette di nuovo e gettò un braccio lungo lo schienale della sedia. “Non vi sorprenderà sapere che si è parlato un sacco della situazione di Malcolm.”
“Vuoi dire, la situazione in cui il Sommo Stregone di Los Angeles si è rivelato un killer preso da furia omicida e un negromante?” chiese Julian. C’erano diverse implicazioni nella sua voce: che il Conclave non avesse sospettato di Malcolm, che avesse approvato la sua nomina a Sommo Stregone, che non avesse fatto nulla per fermare gli omicidi che stavano venendo commessi. Erano stati i Blackthorn a farlo.
Si sentì un’altra risatina dal piano di sopra. Diana tossì per nascondere un sorriso. “Scusate,” disse a Jace e Clary. “Penso che potremmo avere dei topi.”
“Io non ho sentito nulla,” rispose Jace.
“Siamo solo sorpresi che il Consiglio sia finito così alla svelta,” commentò Emma. “Pensavamo di dover testimoniare. Riguardo Malcolm, e tutto ciò che è successo.”
Emma e i Blackthorn avevano già dovuto testimoniare davanti al Consiglio, in passato. Anni prima, dopo la Guerra Oscura. Non era un’esperienza che Emma era ansiosa di ripetere, ma sarebbe stata un’occasione per raccontare la loro versione della storia. Per spiegare perché avevano lavorato in collaborazione con le fate, contraddicendo direttamente le Leggi della Pace Fredda. Perché avevano indagato sul Sommo Stregone di Los Angeles, Malcolm Fade, senza dire nulla al Conclave; cosa avevano fatto quando avevano scoperto che era colpevole di crimini atroci.
Perché Emma l’aveva ucciso.
“L’avete già detto a Robert – all’Inquisitore,” rispose Clary. “Vi crede. Ha testimoniato in vostro favore.”
Julian inarcò un sopracciglio. Robert Lightwood, l’Inquisitore del Conclave, non era il genere di uomo caldo e amichevole. Gli avevano rivelato ciò che era successo perché erano stati costretti, ma non era il genere di persona che immaginavi potesse farti un favore.
“Robert non è così male,” si inserì Jace. “Sul serio. Si è ammorbidito un sacco da quando è diventato nonno. E il punto è che il Conclave è meno interessato a voi di quanto non gli importi del Volume Nero.”
“Pare che nessuno si fosse reso conto che era qui nella libreria,” aggiunse Clary. “L’Istituto in Cornovaglia è famoso per la sua considerevole collezione di libri sulla magia nera – il Malleus Maleficarum originale, il Daemonatia. Pensavano tutti che fosse lì, ben sigillato.”
“I Blackthorn un tempo gestivano quell’Istituto,” fece Jules. “Forse mio padre l’ha portato con sé quando ha ricevuto l’incarico di quest’Istituto qui.” Sembrava preoccupato. “Anche se non so perché mai avrebbe dovuto volerlo.”
“Magari l’ha portato Arthur,” suggerì Cristina. “I libri antichi l’hanno sempre affascinato.”
Emma scosse il capo. “Non è possibile. Il libro doveva già essere qui quando Sebastian ha attaccato l’Istituto – prima che Arthur arrivasse.”
“Quanto del fatto che non ci abbiano voluto lì a testimoniare aveva a che fare con l’autorizzarmi o meno a restare?” domandò Mark.
“Qualcosina,” rispose Clary, incontrando il suo sguardo senza scomporsi. “Ma, Mark, non avremmo mai permesso che tornassi nella Caccia. Tutti si sarebbero rivoltati.”
Diego annuì. “Il Conclave ha deciso, e accettano che Mark resti qui con la sua famiglia. L’ordine originale proibiva solo agli Shadowhunters di cercarlo, ma è stato lui a venire da voi, quindi non ci sono state contravvenzioni.”
Mark annuì rigidamente. Diego Il Perfetto non era mai sembrato piacergli.
“E, credimi,” aggiunse Clary, “sono stati tutti molto felici di usare quella scappatoia. Credo che persino i più acerrimi nemici delle fate siano dispiaciuti per ciò che ha dovuto passare Mark.”
“Ma non per ciò che ha dovuto passare Helen?” domandò Julian. “Non hanno detto nulla circa il suo ritorno?”
“Nulla,” rispose Jace. “Mi dispiace. Non hanno voluto saperne.”
L’espressione di Mark si irrigidì. In quell’istante Emma poté vedere il guerriero dentro di lui, l’ombra oscura dei campi di battaglia che la Caccia Selvaggia inseguiva, colui che camminava attraverso i corpi dei morti.
“Continueremo a provare,” disse Diana. “Riaverti è una vittoria, Mark, e continueremo a inseguire anche quell’altro successo. Ma ora…”
“Che succede ora?” domandò Mark. “La crisi non è finita?”
“Siamo Shadowhunters,” ribatté Jace. “Per noi le crisi non finiscono mai.”
“Ora,” continuò Diana, “il Consiglio ha appena finito di discutere del fatto che sono stati avvistati degli enormi demoni marini in giro per tutta la costa della California. In numeri da record. Sono stati visti più volte durante la scorsa settimana che nella scorsa decade. Quel Teuthida che avete combattuto non era un’anomalia.”
“Pensiamo che dipenda dal fatto che il corpo di Malcolm e il Volume Nero siano ancora nell’oceano,” spiegò Clary. “E crediamo che potrebbe dipendere dagli incantesimi che Malcolm ha fatto in vita.”
“Ma gli incantesimi degli stregoni spariscono al momento della loro morte,” protestò Emma. Pensò a Kit. Le difese che Malcolm aveva collocato intorno a casa dei Rook erano sparite non appena lui era morto. I demoni l’avevano attaccata nel giro di qualche ora. “Siamo andati a casa sua, per cercare prove di ciò che stava facendo. Si era tutto disintegrato in un mucchio di scorie.”
Jace sparì sotto al tavolo. Un attimo dopo spuntò fuori stringendo Church, il gatto part-time dell’Istituto. Church dimenava le zampe e aveva un’espressione soddisfatta in viso. “È quello che abbiamo pensato anche noi,” disse, sistemandosi il micio in grembo. “Ma, apparentemente, stando a ciò che dice Magnus, ci sono degli incantesimi che possono essere creati in modo da attivarsi dopo la morte dello stregone.”
Emma osservò Church. Sapeva che il gatto un tempo aveva vissuto nell’Istituto di New York, ma le sembrava maleducato che mostrasse così apertamente le sue preferenze. Se ne stava steso sulla schiena in grembo a Jace, facendo le fusa a lui e ignorando lei.
“Come un allarme,” domandò Julian, “che scatta quando apri la porta?”
“Sì, ma in questo caso la porta aperta è la morte,” rispose Diana.
“Quindi la soluzione qual è?” chiese Emma.
“Probabilmente avremo bisogno del suo corpo per spegnere, diciamo così, l’incantesimo,” spiegò Jace. “E qualche suggerimento sul come abbia fatto non sarebbe male.”
“Le rovine della convergenza sono state analizzate con parecchia attenzione,” disse Clary. “Ma controlleremo casa di Malcolm, domani, tanto per stare sicuri.”
“Sono tutte macerie,” la avvertì Julian.
“Macerie che andranno ripulite alla svelta, prima che i mondani se ne accorgano,” disse Diana. “C’è un incantesimo a nasconderle, ma ha un effetto temporaneo. Il che significa che la zona resterà indisturbata solo per qualche altro giorno.”
“E non farà male dare un’ultima occhiata,” aggiunse Jace. “Soprattutto visto che Magnus ci ha dato qualche idea di quello che dovremmo effettivamente cercare.” Grattò le orecchie di Church, ma non aggiunse altro.
“Il Volume Nero è un potente oggetto negromantico,” disse Diego Il Perfetto. “Potrebbe causare problemi che non riusciamo neanche a immaginare. Il fatto che spinga i demoni che abitano gli angoli più profondi del mare ad arrampicarsi su per le spiagge significa che i mondani sono in pericoli – alcuni di loro sono già spariti dal Molo.”
“Quindi,” continuò Jace. “Un gruppo di Centurioni arriverà qui domani…”
“Centurioni?” Negli occhi di Julian lampeggiò un’ondata di panico, un’espressione di terrore e vulnerabilità che Emma immaginò di riuscire a vedere solo lei. Sparì quasi subito. “Perché?”
Centurioni. L’élite degli Shadowhunters: si allenavano alla Scholomance, una scuola scolpita nelle pareti rocciose dei Carpazi e circondata da un lago ghiacciato. Studiavano tradizioni esoteriche ed erano esperti di fate e Pace Fredda.
E anche, apparentemente, di demoni marini.
“È una fantastica notizia,” disse il Perfetto Diego. Era ovvio che l’avrebbe detto, pensò Emma. Toccò la spilla appuntata alla sua spalla con orgoglio. “Saranno in grado di trovare il corpo e il libro.”
“Speriamo,” disse Clary.
“Ma tu sei già qui, Clary,” disse Julian, con voce apparentemente gentile. “Tu e Jace – se faceste venire qui Simon e Isabelle e Alec e Magnus, scommetto che trovereste subito il cadavere.”
Non vuole estranei nei paraggi, pensò Emma. Gente che avrebbe ficcanasato negli affari dell’Istituto, e preteso di parlare con lo zio Arthur. Era riuscito a mantenere i segreti dell’Istituto nonostante tutto quello che era successo con Malcolm. E ora erano di nuovo minacciati da Centurioni vaganti.
“Io e Clary ci siamo solo fermati a fare un saluto,” disse Jace. “Non possiamo restare e aiutarvi con le ricerche, anche se ci piacerebbe. Siamo in missione per conto del Consiglio.”
“Che tipo di missione?” chiese Emma. Quale missione poteva essere più importante del recupero del Libro Nero, in modo da poter ripulire il casino fatto da Malcolm una volta per tutte?
Ma dallo sguardo che Jace e Clary si scambiarono, capì che c’era un mondo intero di cose più importanti là fuori, cose che non poteva neanche immaginare. Emma non riuscì a trattenere un moto di amarezza, il desiderio di essere giusto un pelino più grande, di poter essere come Jace e Clary, conoscere i loro segreti e i segreti del Consiglio.
“Mi dispiace,” disse Clary. “Non possiamo dirlo.”
“Perciò non sarete qui?” domandò Emma. “Mentre succede tutto questo, e il nostro Istituto viene invaso…”
“Emma,” disse Jace. “Sappiamo che siete abituati a stare isolati senza che nessuno vi disturbi. Ad avere solo Arthur a cui rispondere.”
Se soltanto avesse saputo. Ma era impossibile.
Continuò, “Ma lo scopo di un Istituto non è quello di centralizzare le attività del Conclave, ma di ospitare gli Shadowhunters che hanno bisogno di un alloggio in una città in cui non vivono. Ci sono cinquanta stanze qui che nessuno usa. Perciò, a meno che non ci sia una ragione pressante per cui non possano venire…”
Le parole restarono sospese nell’aria. Diego chinò lo sguardo sulle sue mani. Non sapeva tutta la verità su Arthur, ma Emma immaginava che lo sospettasse.
“Puoi dircelo,” sollecitò Clary. “Sarà un segreto.”
Ma non era un segreto che Emma potesse svelare. Si trattenne dal guardare Mark o Cristina, Diana o Julian, gli unici a quel tavolo a sapere la verità riguardo a chi guidava davvero l’Istituto. Una verità che dovevano nascondere ai Centurioni, che erano vincolati a riportarlo al Consiglio.
“Zio Arthur non è stato bene, come penso già sappiate,” disse Julian, con un gesto verso la poltrona vuota in cui normalmente sarebbe stato seduto il capo dell’Istituto. “Ero solo preoccupato che l’arrivo dei Centurioni potesse peggiorare le sue condizioni, ma considerata l’importanza della loro missione, faremo in modo che siano il più comodi possibile.”
“Sin dalla Guerra Oscura, Arthur è stato soggetto ad attacchi di emicrania e dolore delle sue vecchie ferite,” aggiunse Diana. “Sarò io la portavoce tra lui e i Centurioni finché non starà meglio.”
“Non c’è davvero nulla di cui preoccuparsi,” disse Diego. “Sono Centurioni – disciplinati, soldati ordinati. Non organizzeranno feste scatenate e non faranno richieste irragionevoli.” Mise un braccio sulle spalle di Cristina. “Sarò felice di presentarti alcuni dei miei amici.”
Cristina gli sorrise di rimando. Emma non poté evitare di guardare Mark, per vedere se stava osservando Cristina e Diego in quel particolare modo in cui li guardava spesso – un modo che non poteva non essere chiaro anche a Julian, eppure non lo era. Un giorno lo avrebbe notato, e allora ci sarebbero state delle domande scomode a cui rispondere.
Ma quel giorno non sarebbe stato oggi, perché qualche minuto prima Mark doveva essere uscito dalla biblioteca senza far rumore. Non c’era più.
*
Mark associava differenti stanze dell’Istituto con differenti sentimenti, molti dei quali erano fioriti dopo il suo ritorno. La libreria di sorbo lo rendeva teso. L’ingresso, dove aveva affrontato Sebastian Morgenstern moltissimi anni prima, gli faceva venire un formicolio sotto la pelle, e ribollire il sangue.
Nella sua camera si sentiva solo. Nella stanza dei gemelli, in quella di Dru o di Tavvy, poteva perdersi nel ritornare a essere il loro fratello maggiore. Nella stanza di Emma si sentiva al sicuro. Non gli era permesso di entrare nella camera di Cristina. Nella stanza di Julian si sentiva in colpa. E nella stanza dell’addestramento si sentiva uno Shadowhunter.
Si era diretto inconsapevolmente verso la stanza dell’addestramento quando aveva lasciato la biblioteca. Il modo in cui gli Shadowhunters nascondevano le loro emozioni faceva ancora troppo male a Mark. Come potevano sopportare un mondo in cui Helen era in esilio? Lui riusciva a stento a tollerarlo; sua sorella gli mancava ogni giorno di più. E nonostante tutto, lo avrebbero tutti guardati sorpresi se si fosse messo a urlare per il dolore o fosse caduto sulle sue ginocchia. Jules, lo sapeva, non voleva lì i Centurioni – ma la sua espressione non era cambiata per niente. Le Fate potevano usare trucchi e tranelli e complotti, ma non potevano nascondere il loro dolore.
Era abbastanza per farlo dirigere verso lo scaffale delle armi, le mani che cercavano qualunque cosa gli permettesse di perdersi nell’allenamento. Una volta Diana possedeva un’armeria a Idris, e lì c’era sempre una vasta gamma di armi magnifiche con cui allenarsi: una machaera greca, con la sua lama affilata solo da una parte. C’erano spatha vichinghe, spade scozzesi da maneggiare con due mani e gli zweihander, e dei bokken giapponesi di legno che usavano solo per l’addestramento.
Pensò alle armi delle fate. La spada che aveva sguainato con la Caccia Selvaggia. Le fate non usavano oggetti fatti di ferro, perché armi e strumenti di ferro li facevano stare male. La spada che aveva brandito nella Caccia era fatta di corno, ed era leggera tra le sue mani. Leggera come i dardi elfici che aveva scagliato dal suo arco. Leggera come il vento sotto le zampe del suo destriero, come l’aria attorno a lui quando galoppava.
Sollevò una spada scozzese dal suo alloggio sul ripiano e la rigirò tra le sue mani. Sentiva che era fatta di acciaio – non propriamente ferro, ma una lega di ferro – anche se non aveva la stessa reazione al ferro che le fate purosangue avevano.
Era pesante tra le sue mani. Ma c’erano un sacco di cose che gli pesavano sulle spalle da quando era tornato a casa. Il peso delle aspettative. Il peso dell’amore che aveva per la sua famiglia.
Persino il peso di ciò che stava facendo con Emma. Si fidava di Emma. Non aveva dubbi sul fatto che stesse facendo la cosa giusta; se lei lo credeva, lui credeva a lei.
Ma non riusciva a mentire facilmente, e più di tutto odiava mentire alla sua famiglia.
“Mark?” Era Clary, seguita da Jace. L’incontro nella biblioteca doveva essere finito. Indossavano entrambi la tenuta da combattimento; i rossi capelli di Clary erano molto luminosi, come uno spruzzo di sangue contro i suoi abiti scuri.
“Sono qui,” disse Mark, riponendo la spada che stringeva tra le mani. La luna piena era alta, e una luce bianca filtrava dalle finestre. La luna tracciava un sentiero che somigliava a una strada sul mare da dove baciava l’orizzonte alle sponde della spiaggia.
Jace non aveva ancora detto niente; osservava Mark con i suoi occhi dorati socchiusi, come un falco. Mark non poté non ricordare i Clary e Jace che aveva incontrato poco dopo essere stato preso dalla Caccia. Era nascosto nei tunnel accanto alla Corte Seelie, quando si erano imbattuti in lui, e il suo cuore si era spezzato nel vederli. Shadowhunter che affrontavano i pericoli della terra delle Fate a testa alta. Non erano persi; non stavano fuggendo. Non avevano paura.
Si era chiesto se avrebbe mai avuto di nuovo quello stesso coraggio, quella mancanza di paura. Anche quando Jace gli aveva messo in mano una stregaluce, anche quando gli aveva detto, Mostra loro ciò di cui è fatto uno Shadowhunter, mostra loro che non hai paura, Mark era paralizzato dal terrore.
Non per se stesso. Per la sua famiglia. Come se la sarebbero cavata in un mondo in guerra, senza lui a proteggerli?
Sorprendentemente bene, era la risposta. Non avevano avuto bisogno di loro. C’era Jules.
Jace si sedette su una poltrona sotto la finestra. Era più grande di quando Mark lo aveva visto la prima volta, naturalmente. Più alto, con le spalle più larghe, ma sempre aggraziato. I pettegolezzi volevano che persino la Regina della Corte Seelie fosse stata affascinata dal suo aspetto e dalle sue maniere, e non erano molti gli umani che potessero dire di aver lasciato un’impressione nella nobiltà delle fate, neanche se Shadowhunters.
Anche se qualche volta lo facevano. Mark suppose che la sua stessa esistenza ne fosse prova. Sua madre, la Lady Nerissa della Corte Seelie, aveva amato suo padre, uno Shadowhunter.
“Julian non vuole che i Centurioni vengano qui,” disse Jace. “Non è vero?”
Mark li guardò entrambi con sospetto. “Non saprei.”
“Mark non ci dirà i segreti di suo fratello, Jace,” fece notare Clary. “Tu diresti quelli di Alec?”
La finestra dietro le spalle di Jace si ergeva alta e trasparente, così trasparente che Mark a volte immaginava di poter volare fuori di là. “Forse, se fosse per il suo bene,” rispose Jace.
Clary fece un verso poco elegante e pieno di dubbi. “Mark,” disse. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Abbiamo alcune domande riguardo alla terra delle fate e alle Corti – riguardo i loro confini – e non riusciamo a trovare risposte – non dal Labirinto Spirale, non dalla Scholomance.”
“E onestamente,” disse Jace, “non vorremmo che qualcuno capisse che stiamo facendo delle indagini, perché questa missione è segreta.”
“La vostra missione riguarda le fate?” tirò a indovinare Mark.
Entrambi annuirono.
Mark era stupito. Gli Shadowhunters non erano mai stati a loro agio nella Terra delle Fate, e dalla Pace Fredda le avevano evitate come si evita il veleno. “Perché?” Distolse velocemente la sua attenzione dallo spadone scozzese. “Si tratta di una missione di vendetta? Perché Iarlath e altri di loro hanno collaborato con Malcolm? O – a causa di quello che è successo a Emma?”
Emma aveva ancora bisogno di aiuto con le bende, a volte. Ogni volta che Mark guardava quelle linee rosse che le attraversavano la pelle provava nausea e senso di colpa. Erano come una ragnatela di fili insanguinati che lo tenevano legato alla bugia che stavano dicendo.
Gli occhi di Clary erano gentili. “Non vogliamo fare del male a nessuno,” disse. “Non si tratta di una vendetta. Si tratta solo di avere delle informazioni.”
“Pensate che io sia preoccupato per Kieran,” capì Mark. Il nome gli irritò nella gola come un pezzo di osso spezzato. Aveva amato Kieran, e Kieran lo aveva tradito ed era tornato alla Caccia, e ogni volta che Mark pensava a lui, gli sembrava di sanguinare da qualche parte. “Non sono,” disse, “preoccupato per Kieran.”
“Perciò non ti dispiacerà se gli parliamo,” disse Jace.
“In quel caso non sarei preoccupato per lui,” disse Mark. “Lo sarei per voi.”
Clary rise sommessamente. “Grazie, Mark.”
“È il figlio del Re della Corte Unseelie,” disse Mark. “Il Re ha cinquanta figli. Tutti loro mirano al trono. Il Re è stanco di loro. Doveva un favore a Gwyn, così gli ha regalato Kieran. Regalato, come una spada o un cane.”
“Per come l’ho capita io,” disse Jace, “Kieran è venuto da te e si è offerto di aiutarti, contro il volere delle fate. Si è messo in un grave pericolo pur di aiutarti.”
Mark supponeva di non dover essere sorpreso che Jace fosse a conoscenza di quel fatto. Emma confidava spesso in Clary. “Me lo doveva. È stato a causa sua che le persone che amo sono state ferite gravemente.”
“Comunque,” disse Jace, “c’è una qualche possibilità che si dimostri incline a rispondere alle nostre domande. Specialmente se potessimo dirgli che tu le hai approvate.”
Mark non disse nulla. Clary baciò Jace sulla guancia e gli mormorò qualcosa nell’orecchio prima di uscire dalla stanza. Jace la guardò andarsene, l’espressione addolcita per un momento. Mark provò una feroce invidia. Si chiedeva come sarebbe stato essere nella sua posizione per un momento: il modo in cui sembravano due metà di un tutto, con la giocosità gentile di Clary e la forza e il sarcasmo di Jace. Si chiese se lui e Kieran avessero mai dato quell’impressione. Se avrebbe mai dato quell’impressione con Cristina, se le cose fossero andate diversamente.
“Cosa vorresti chiedere a Kieran?” disse.
“Alcune domande riguardo alla Regina e al Re,” disse Jace. Notando il movimento impaziente di Mark aggiunse, “Ti dirò qualcosa, e ricorda che non dovrei dirti niente. Il Conclave mi taglierebbe la testa per questo.” Sospirò. “Sebastian Morgenstern ha lasciato un’arma in una delle Corti delle Fate,” disse. “Un’arma che potrebbe distruggerci tutti, distruggere tutti i Nephilim.”
“Cosa fa quest’arma?” chiese Mark.
“Non lo so. È parte di quello che dobbiamo scoprire. Ma sappiamo che è mortale.”
Mark annuì. “Penso che Kieran vi aiuterà,” disse. “E posso darvi una lista di nomi di fate che potrebbero essere amichevoli nei vostri confronti, perché non saranno molte. Non penso che sappiate quanto vi odiano. Se hanno un’arma spero che la troviate, perché non esiteranno ad usarla, e non avranno pietà per voi.”
Jace lo guardò attraverso le sue ciglia dorate che somigliavano a quelle di Kit. Il suo sguardo era attento e fermo. “Vuoi dire pietà per noi?” disse. “Sei uno di noi.”
“In realtà sembra dipendere dalle persone a cui chiedi,” disse Mark. “Hai carta e penna? Inizierò con i nomi…”
*
Era passato troppo tempo da quando lo zio Arthur aveva lasciato la stanza dell’attico dove dormiva, mangiava e lavorava. Julian arricciò il naso mentre saliva le scale con Diana – l’aria era più stantia del solito, rancida per il cibo vecchio e il sudore. Le ombre erano spesse. Arthur stesso era un’ombra, piegato sulla scrivania, una stregaluce che brillava in un piatto sul davanzale di fronte a lui. Non reagì alla presenza di Julian e di Dana.
“Arthur,” disse Diana, “dobbiamo parlarti.”
Arthur si voltò lentamente nella sua sedia. Julian sentì lo sguardo scivolare prima su Diana e poi su di lui. “Miss Wrayburn,” disse, infine. “Cosa posso fare per lei?”
Diana aveva accompagnato Julian nei viaggi in soffitta anche prima di allora, ma raramente. Ora che la verità era nota anche a Mark ed Emma, Julian riusciva a condividere con Diana quello che entrambi avevano sempre saputo ma di cui non avevano mai parlato.
Per anni, sin da quando ne aveva dodici, Julian aveva dovuto sopportare da solo la consapevolezza che suo zio fosse matto, con la mente che era stata spezzata durante la prigionia tra le fate. Aveva periodi di lucidità, aiutati dalla medicina che Malcolm Fade gli forniva, ma non duravano mai granché.
Se il Conclave avesse conosciuto la verità, avrebbe strappato Arthur dalla sua posizione di capo dell’Istituto in un attimo. E lui sarebbe molto probabilmente finito rinchiuso nel Basilias, col divieto di andarsene o avere visite. Durante la sua assenza, senza adulti Blackthorn a occuparsi dell’Istituto, i bambini sarebbero stati divisi, spediti all’Accademia a Idris e in giro per il mondo. La determinazione di Julian a non lasciare che succedesse aveva portato a cinque anni di segreti, cinque anni in cui Arthur era stato nascosto dal mondo, e il mondo da Arthur.
A volte Julian si chiedeva se stesse facendo la cosa giusta per suo zio. Ma importava davvero? In ogni caso, avrebbe protetto i suoi fratelli e le sue sorelle. Avrebbe sacrificato Arthur per loro, se necessario, e se a volte veniva svegliato nel mezzo della notte dalle conseguenze morali del suo gesto, nel panico e col fiatone, allora l’avrebbe sopportato.
Ricordò gli affilati occhi da fata di Kieran che lo fissavano: hai un cuore spietato.
Forse era vero. Al momento, il cuore di Julian sembrava morto, nel suo petto; una massa gonfia, priva di battito. Tutto gli sembrava succedere da una certa distanza – se sentiva addirittura come se stesse procedendo lentamente attraverso il mondo, come se si stesse facendo largo nell’acqua.
In ogni caso, lo sollevava avere Diana accanto. Arthur lo scambiava spesso per il suo defunto padre o per il nonno, ma Diana non faceva parte del suo passato, quindi lui sembrava obbligato a riconoscerla.
“La medicina che Malcolm preparava per te,” disse Diana. “Te ne ha mai parlato? Che c’era, dentro?”
Arthur scosse leggermente il capo. “Il ragazzo non lo sa?”
Julian sapeva che stava parlando di lui. “No,” rispose. “Malcolm non me ne ha mai parlato.”
Arthur aggrottò le sopracciglia. “Ci sono dei residui, qualche avanzo, da analizzare?”
“Ho usato tutto ciò che riuscivo a trovare due settimane fa.” Julian aveva drogato lo zio con un potente cocktail di medicine di Malcolm l’ultima volta che Jace, Clary e l’Inquisitore erano stati all’Istituto. Non aveva voluto rischiare che Arthur fosse qualcosa meno che stabile sui suoi piedi e quanto più lucido possibile.
Julian era abbastanza certo che Jace e Clary avrebbero nascosto la condizione di Arthur, se l’avessero scoperto. Ma era un peso ingiusto da caricare sulle loro spalle e, oltretutto – non si fidata dell’Inquisitore, Robert Lightwood. Non si fidava di lui sin da quando, cinque anni prima, Robert l’aveva obbligato a sopportare una prova tremenda con la Spada Mortale perché non credeva che Julian non avrebbe mentito.
“Non ne hai neanche un po’, Arthur?” domandò Diana. “Nascosta da qualche parte?”
Arthur scosse di nuovo il capo. Sotto la luce fioca della stregaluce, sembrava vecchio – molto più vecchio di quanto non fosse, coi capelli ingrigiti e gli occhi slavati come l’oceano di prima mattina. Il suo corpo, coperto da un’irregolare veste grigia, era magro, al punto che era possibile vedere le ossa delle sue spalle attraverso la stoffa. “Non sapevo che Malcolm si sarebbe rivelato così,” disse. Un omicida, un assassino, un traditore. “Inoltre, dipendevo dal ragazzo.” Si schiarì la voce. “Julian.”
“Neanche io sapevo di Malcolm,” rispose Julian. “Il punto è che stiamo per avere degli ospiti. Dei Centurioni.”
“Kentarchs,” mormorò Arthur, aprendo uno dei cassetti della sua scrivania come per cercare qualcosa al suo interno. “Ecco come li chiamavano nell’esercito bizantino. Ma un centurione era sempre il pilastro dell’armata. Comandava centinaia di uomini. Poteva comminare una punizione anche a un cittadino romano che generalmente era protetto dalla legge. I centurioni prevalevano sulla legge.”
Julian non sapeva con certezza quanto condividessero i centurioni romani originali e quelli della Scholomance. Ma sospettava di riuscire comunque a capire cosa volesse dire suo zio. “Giusto, quindi dovremo essere particolarmente attenti. Col modo in cui tu dovrai essere davanti a loro. Come dovrai comportarti.”
Arthur si portò le dita sulle tempie. “Sono così stanco,” mormorò. “Non potremmo… Se potessimo chiedere a Malcolm dell’altra medicina…”
“Malcolm è morto,” rispose Julian. A suo zio era stato detto, ma non sembrava aver assimilato il concetto. E questo era esattamente il tipo di errore che non poteva permettersi davanti agli estranei.
“Ci sono delle droghe mondane,” disse Diana dopo un attimo di esitazione.
“Ma il Conclave,” protestò Julian. “La punizione per aver cercato trattamenti medici mondani è…”
“So qual è,” rispose Diana in tono sorprendentemente duro. “Ma siamo disperati.”
“Ma non conosciamo le dosi o che pillole usare. Non sappiamo come i mondani trattino questo tipo di malattie.”
“Non sono malato.” Arthur sbatté con forza il cassetto della scrivania. “Le fate mi hanno spezzato la mente. L’ho sentita spezzarsi. Nessun mondano potrebbe capire o curare una cosa del genere.”
Diana scambiò un’occhiata preoccupata con Julian. “Beh, ci sono tante cose che potremmo fare. Ti lasceremo da solo, Arthur, e ne discuteremo tra noi. Sappiamo quant’è importante il tuo lavoro.”
“Sì,” mormorò lo zio di Julian. “Il mio lavoro…” E si piegò di nuovo sulle sue carte, dimenticando immediatamente sia Diana che Julian. Mentre seguiva Diana fuori dalla stanza, Julian non poté che chiedersi che genere di sollievo trovasse suo zio in quelle vecchie storie di dèi ed eroi, di un tempo antico del mondo, uno in cui coprirti le orecchie e rifiutarti di ascoltare il suono della musica delle sirene avrebbe potuto evitare che diventassi matto.
Ai piedi delle scale, Diana si voltò verso Julian e gli parlò a voce bassa. “Dovrai andare al Mercato delle Ombre, stanotte.”
“Che?” Julian era disorientato. Il Mercato delle Ombre era off-limits, per i Nephilim, ammesso che non fossero in missione, e sempre e comunque vietato per gli Shadowhunters minorenni. “Insieme a te?”
Diana scosse il capo. “Io non posso andarci.”
Julian non fece domande. Sapevano entrambi pur senza parlarne che Diana aveva dei segreti e che Julian non poteva farle pressioni a riguardo.
“Ma ci saranno degli stregoni,” disse lei. “Alcuni che non conosciamo, che resteranno in silenzio se pagati abbastanza. Stregoni che non conoscono il tuo viso. E le fate. Questa è una follia causata dalle fate, dopotutto, non uno stato naturale. Forse sanno come capovolgerla.” Restò in silenzio per un momento, meditabonda. “Porta Kit con te,” aggiunse. “Conosce il Mercato delle Ombre meglio di qualsiasi altra persona a cui potremmo chiederlo, e i Nascosti lì si fidano di lui.”
“È solo un bambino,” obiettò Julian. “E non esce dall’Istituto da quando è morto suo padre.” Da quando è stato ucciso, in verità. Fatto a pezzi davanti ai suoi occhi. “Per lui potrebbe essere difficile.”
“Dovrà abituarsi alle cose difficili,” rispose Diana, un’espressione durissima sul viso. “Adesso è uno Shadowhunter.”
Il fatto che ci fosse un traffico tremendo obbligò Julian e Kit a metterci un’ora per arrivare da Malibu alla parte vecchia di Pasadena. Per quando finalmente riuscirono a parcheggiare, Julian aveva un tremendo mal di testa, non aiutato dal fatto che Kit aveva a stento detto una parola sin da quando avevano lasciato l’Istituto.
Persino così tanto tempo dopo il tramonto, il cielo a ovest era sfumato da pennellate rosse e nere. Il vento soffiava da est, il che significava che persino nel centro della città ti riusciva di respirare il deserto: la sabbia e la ghiaia, i cactus e i coyote, il sapore bruciante della salvia.
Kit saltò giù dall’auto non appena Julian spense il motore, come se non ne potesse più di stargli vicino. Quando avevano oltrepassato l’uscita dell’autostrada che portava alla vecchia casa dei Rook, Kit gli aveva chiesto di poterci andare per recuperare qualcuno dei suoi vestiti. Julian gli aveva risposto di no, che non era sicuro, soprattutto non di notte. Kit l’aveva osservato come se Julian gli avesse appena conficcato un pugnale nella schiena.
Julian era abituato alle suppliche e ai bronci e a sentirsi dire che lo odiavano. Aveva quattro fratelli minori. Ma c’era qualcosa di specialmente artistico nell’occhiata di Kit. Lo intendeva sul serio.
Adesso, mentre Julian chiudeva l’auto, Kit sbuffò. “Sembri uno Shadowhunter.”
Julian lanciò un’occhiata ai suoi vestiti. Indossava dei jeans, gli stivali e una giacca sportiva vintage che gli aveva regalato Emma. Dal momento che le rune per celare alla vista non servivano a granché, al Mercato, si era dovuto limitare a tirar giù le maniche per coprire la runa della Vista sulla mano e a sollevare l’estremità del colletto per nascondere le estremità dei Marchi che altrimenti sarebbero fuoriusciti dalla maglietta.
“Che?” gli chiese. “Non puoi vedere nessun Marchio.”
“Non ce n’è bisogno,” rispose Kit con tono annoiato. “Sembri uno sbirro. Sembrate sempre tutti degli sbirri.”
Il mal di testa di Julian si intensificò. “E cosa suggerisci?”
“Lasciami andare da solo,” disse Kit. “Mi conoscono, si fidano di me. Risponderanno alle mie domande e mi venderanno ciò che voglio.” Allungò una mano. “Mi servirà del denaro, ovviamente.”
Julian lo guardò, sconvolto. “Non pensavi sul serio che avrebbe funzionato, vero?”
Kit scosse le spalle e lasciò ricadere il braccio. “Avrebbe potuto.”
Julian cominciò a camminare verso il vicolo che portava all’ingresso del Mercato delle Ombre. C’era stato solo una volta, anni prima, ma lo ricordava bene. Il Mercato delle Ombre era nato come conseguenza della Pace Fredda; era un modo per i Nascosti di fare affari lontani dalla luce dei riflettori delle nuove Leggi. “Dunque, fammi indovinare. Il tuo piano era di prendere dei soldi da me, fingere di andare al Mercato delle Ombre e poi saltare su un autobus diretto fuori città?”
“In verità, il mio piano era di prendere dei soldi da te, fingere di andare al Mercato e poi prendere la Metrolink,” rispose Kit. “Hanno dei treni che lasciano la città, ora. Un enorme miglioramento, lo so. Dovresti cercare di tenerti aggiornato riguardo questo genere di cose.”
Julian si chiese brevemente come avrebbe reagito Jace se avesse strangolato Kit. Pensò di esternare quel pensiero, ma avevano già raggiunto la fine del vicolo, lì dove era possibile notare un leggero scintillio nell’aria. Afferrò il braccio di Kit, in modo che entrambi oltrepassassero nello stesso momento.
Emersero dall’altra parte, dritti nel cuore del Mercato. La luce brillava intorno a loro, assorbendo le stelle sopra le loro teste. Persino la luna sembrava un guscio vuoto.
Julian stava ancora stringendo il braccio di Kit, che però non accennò a muoversi per correre via. Si guardava intorno con una malinconia che lo fece sembrare giovane – a volte per Julian era difficile ricordare che lui e Ty avevano la stessa età. I suoi occhi blu – chiari e del colore del cielo, senza gli accenni verdi che caratterizzava quelli dei Blackthorn – si spostarono per il Mercato, assorbendolo.
File di bancarelle erano illuminate da torce che rilasciavano luci dorate, blu e verde veleno. Tralicci di fiori più ricchi e dolcemente profumati dell’oleandro bianco o dei boccioli di jacaranda cadevano come una cascata tra i lati degli stalli. Bellissimi ragazzi e ragazze fatati ballavano al ritmo di una musica suonata da canne e tubi. C’erano ovunque voci che li incitavano a venire a comprare, venire a comprare. C’erano armi in mostra, e gioielli, e fiale di pozioni e polveri.
“Da questa parte,” disse Kit, sfilando il braccio dalla presa di Julian.
Julian lo seguì. Riusciva a sentire gli occhi puntati su di loro, e si chiese se Kit non avesse avuto ragione: sembrava un poliziotto, o il suo equivalente soprannaturale. Era uno Shadowhunter, lo era sempre stato. Non potevi celare la tua natura.
Avevano raggiunto uno degli angoli del Mercato, dove la luce era più fioca e si potevano vedere le linee bianche dipinte sull’asfalto che rivelavano che quel posto di mattina veniva usato come parcheggio.
Kit si mosse verso la bancarella più vicina, dove una fata sedeva davanti a un cartello che pubblicizzava letture del futuro e pozioni d’amore. La donna alzò lo sguardo e sorrise radiosa, mentre si avvicinavano.
“Kit!” esclamò. Indossava i residui di un abito bianco che risaltava sulla sua pelle blu chiara, e le sue orecchie a punta facevano capolino tra i capelli lavanda. Delle sottili catene d’oro e d’argento pendevano dal suo collo e dai polsi. Guardò Julian. “Che ci fa lui qui?”
“Il Nephilim è okay, Hyacinth,” disse Kit. “Garantisco io per lui. Vuole solo comprare della roba.”
“Non lo vogliono tutti?” mormorò lei. Lanciò un’occhiata scaltra a Julian. “Sei carino,” gli disse. “I tuoi occhi sono quasi dello stesso colore dei miei.”
Julian si avvicinò alla bancarella. Era in momenti come questi che avrebbe voluto essere bravo a flirtare. Ma non lo era. Non aveva mai provato in vita sua neanche una scintilla di desiderio nei confronti di una ragazza che non fosse Emma, quindi non aveva mai imparato a farlo.
“Sto cercando una pozione in grado di curare la follia di uno Shadowhunter,” spiegò. “O, almeno, capace di fermare i sintomi per un po’.”
“Che tipo di follia?”
“È stato tormentato dalle Corti,” rispose onestamente Julian. “La sua mente è stata spezzata dalle allucinazioni e dalle pozioni che l’hanno obbligato a prendere.”
“Uno Shadowhunter folle per colpa delle fate? Oddio,” fece lei, e il suo tono era scettico. Julian iniziò a spiegarle di zio Arthur senza citare il suo nome: solo la sua situazione e la sua condizione. Il fatto che i suoi momenti lucidi durassero pochissimo. Che a volte i suoi sbalzi d’umore lo rendevano freddo e crudele. Che riconosceva la sua famiglia solo a volte. Descrisse la pozione che Malcolm aveva preparato per Arthur, quando si fidavano ancora di lui e pensava che fosse loro amico.
Non che avesse citato Malcolm per nome.
Quando finì, la fata scosse il capo. “Dovresti chiederlo a uno stregone,” disse. “Se la vedono loro con gli Shadowhunters. Non io. Non desidero scontrarmi con le Corti o col Conclave.”
“Non c’è bisogno che qualcuno lo sappia,” rispose Julian. “Ti pagherò bene.”
“Bambino.” C’era una punta di pietà nella sua voce. “Pensi di poter nascondere dei segreti a tutto il Mondo Nascosto? Pensi che nel Mercato non giri la notizia della caduta del Guardiano e della morte di Johnny Rook? Che non si sappia che non abbiamo più un Sommo Stregone? La sparizione di Anselm Nightshade – sebbene fosse un uomo terribile…” Scosse il capo. “Non sareste mai dovuti venire qui,” concluse. “Non è sicuro per nessuno di voi.”
Kit parve confuso. “Intendi lui,” disse, indicando Julian con un cenno del capo. “Non è sicuro per lui.”
“Neanche per te, bambino,” rispose una voce roca dietro di loro.
Si voltarono entrambi. C’era un uomo basso, davanti a loro. Era pallido, dall’aria malaticcia. Indossava in vestito a tre pezzi di lana grigia, quindi probabilmente stava bollendo, lì sotto l’aria calda. I suoi capelli e la barba erano scuri e tagliati in maniera ordinata.
“Barnabas,” disse Kit, sbattendo le palpebre. Julian notò che Hyacinth indietreggiava leggermente nel suo banchetto. Una piccola folla si era radunata intorno a Barnabas.
L’uomo basso si avvicinò. “Barnabas Hale,” disse, allungando una mano. Non appena le sue dita si strinsero intorno a quelle di Julian, Julian si sentì irrigidire. Solo grazie all’affinità di Ty per le lucertole e i serpenti, e perché era stato lui a doverli portare più di una volta fuori dall’Istituto per lasciarli nel prato, riuscì a non tirar via la mano.
La pelle di Barnabas non era pallida: era una rete di piccole scaglie biancastre sovrapposte. I suoi occhi erano gialli, e guardavano Julian con divertimento, come se si aspettasse di vederlo strattonare via la mano. Le scaglie contro la pelle di Julian erano simili a sassolini lisci e freddi; non erano bavosi, ma davano la sensazione di doverlo essere. Julian mantenne la presa per qualche altro attimo prima di abbassare il braccio.
“Sei uno stregone,” disse.
“Non ho mai detto il contrario,” rispose Barnabas. “E tu sei uno Shadowhunter.”
Julian sospirò e rimise a posto le maniche. “Immagino che non servisse a granché tentare di nasconderlo.”
“A niente,” ribatté Barnabas. “La maggior parte di noi riconosce i Nephilim a vista e, oltretutto, il giovane signor Rook è l’argomento più chiacchierato del momento.” Voltò i suoi occhi dalle pupille a fessura verso Kit. “Mi spiace per tuo padre.”
Kit rispose con un lieve cenno del capo. “Barnabas possiede il Mercato delle Ombre. Almeno, la terra su cui si svolge è sua, e lui prende l’affitto per gli stalli.”
“Vero,” confermò Barnabas. “Quindi non avete problemi a credere che io sia serio quando vi dico di andare via.”
“Non causeremo problemi,” rispose Julian. “Siamo qui per fare affari.”
“I Nephilim non ‘fanno affari’ al Mercato delle Ombre,” disse Barnabas.
“Penso che scoprirai che non è così,” ribatté Julian. “Un mio amico ha comprato delle frecce, qui, non troppo tempo fa. È venuto fuori che erano avvelenate. Hai qualche idea in proposito?”
Barnabas gli conficcò un dito tozzo contro. “Ecco che intendevo,” disse. “Non puoi spegnerlo neanche volendo, questo tuo modo di pensare di poter fare le domande e decidere quali sono le regole.”
“Sono loro a fare le regole, in effetti,” disse Kit.
“Kit,” mormorò Julian. “Non mi stai aiutando.”
“Un mio amico è sparito, l’altro giorno,” fece Barnabas. “Malcom Fade. Hai qualche idea in proposito?”
Ci fu un leggero chiacchiericcio nella folla dietro di lui. Julian aprì e richiuse le mani che gli ciondolavano lungo i fianchi. Se fosse stato da solo, non si sarebbe preoccupato – sarebbe riuscito a fuggire dalla calca abbastanza facilmente, e sarebbe saltato in auto. Ma con Kit da proteggere sarebbe stato più complicato.
“Vedi?” domandò Barnabas. “Per ogni segreto che pensi di conoscere, noi ne sappiamo un altro. So cos’è successo a Malcolm.”
“Sai cos’ha fatto?” replicò Julian, moderando con attenzione il tono della voce. Malcolm era stato un assassino, un assassino di massa. Aveva ucciso dei Nascosti, oltre che dei mondani. Di sicuro non si potevano biasimare i Blackthorn per la sua morte. “Sai perché è successo?”
“Vedo solo un altro Nascosto morto per mano dei Nephilim. E anche Anselm Nightshade, imprigionato per una manciata di magia semplicissima. E poi che succederà?” Sputò sul terreno ai suoi piedi. “Magari un tempo tolleravo gli Shadowhunters che venivano al Mercato. Ero disposto a prendermi i loro soldi. Ma quel tempo è finito.” Lo sguardo dello stregone scattò su Kit. “Vai,” disse. “E prendi il tuo amico Nephilim con te.”
“Non è mio amico,” rispose Kit. “E non sono come loro, sono come te…”
Barnabas stava scuotendo il capo. Hyacinth li osservava, le mani blu sotto al mento, gli occhi spalancati.
“Sta arrivando un momento molto oscuro per gli Shadowhunters,” disse Barnabas. “Un momento terribile. Il loro potere verrà schiacciato, la loro forza gettata nella polvere, e il loro sangue scorrerà come acqua attraverso i letti dei fiumi di tutto il mondo.”
“Basta così,” fece Julian in tono affilato. “Smettila di cercare di spaventarlo.”
“Pagherete per la Pace Fredda,” continuò lo stregone. “L’oscurità sta arrivando, e tu sappi, Christopher Herondale, che faresti meglio a stare lontano dagli Istituti e dagli Shadowhunters. Nasconditi come faceva tuo padre, e come ha fatto suo padre prima di lui. Solo in quel modo sarai al sicuro.”
“Come fai a sapere chi sono?” domandò Kit. “Come conosci il mio vero cognome?”
Era la prima volta che Julian gli sentiva ammettere che Herondale era il suo vero cognome.
“Lo conoscono tutti,” rispose Barnabas. “Sono giorni che il Mercato non parla d’altro. Non hai notato che ti fissavano tutti, quando sei arrivato?”
Quindi non stavano fissando Julian. O, almeno, non solo lui. Non era granché confortante, però, pensò Julian, non quando Kit aveva quel genere di espressione sul viso.
“Pensavo di poter tornare qui,” disse Kit. “Gestire io lo stallo di mio padre. Lavorare nel Mercato.”
Una lingua biforcuta spuntò brevemente tra le labbra di Barnabas. “Se nasci Shadowhunter, sei sempre uno Shadowhunter,” fece. “Non puoi lavare via quel marchio dal tuo sangue. Te lo ripeto per l’ultima volta, ragazzo – lascia il Mercato. E non tornare.”
Kit indietreggiò, osservando dietro di lui – vedendo, forse per la prima volta, i visi che lo osservavano, perlopiù vuoti e poco amichevoli, in certi casi avidamente curiosi.
“Kit…” cominciò Julian, allungando una mano.
Ma Kit era scattato via.
Ci vollero solo un paio di istanti perché Julian lo raggiungesse – Kit non aveva davvero cercato di fuggire; si era soltanto spinto alla cieca tra la folla, senza alcuna destinazione. Si era fermato davanti a un grosso stallo che sembrava sul punto di venir spezzato in due.
Era solo un intrico di tavole, adesso. Sembrava che qualcuno l’avesse fatto a pezzi con le sue mani. C’erano pezzi frastagliati di legno sparsi sull’asfalto. Un’insegna pendeva di traverso sulla cima dello stallo, ricoperta in vernice dalle parole: IN PARTE SOPRANNATURALE? NON SEI SOLO. I SEGUACI DEL GUARDIANO VOGLIONO CHE TU TI ISCRIVA ALLA LOTTERIA DEL FAVORE! LASCIA CHE LA FORTUNA ENTRI NELLA TUA VITA!
“Il Guardiano,” disse Kit. “Era Malcolm Fade?”
Julian annuì.
“È stato lui a coinvolgere mio padre in tutta quella roba dei Seguaci e del Teatro di Mezzanotte,” fece Kit in tono quasi pensieroso. “È colpa di Malcolm se è morto.”
Julian non rispose. Johnny Rook non era stato un uomo modello, ma era il padre di Kit. Ne hai solo uno. E Kit non aveva torto.
Kit si mosse, a quel punto, picchiando il pugno nell’insegna con tutta la forza che aveva. Cadde sul terreno. Prima che Kit ritraesse la mano, sussultando, Julian scorse uno sprazzo dello Shadowhunter in lui. Se lo stregone non fosse stato già morto, Julian credeva sinceramente che Kit avrebbe ucciso Malcolm.
Una piccola folla li aveva seguiti dal banchetto di Hyacinth, e li osservava. Julian posò una mano sulla schiena di Kit, e lui non si mosse per allontanarlo.
“Andiamo,” disse Julian.
[…] PS: in caso un capitolo solo non vi bastasse, vi ricordiamo di aver tradotto, a suo tempo, le prime cinquanta pagine del libro. Le trovate cliccando qui. […]
Questi capitoli sono bellissimi e non vedo l’ora di leggere questo libro!!!!!!
[…] prese com’eravamo dalle cinquanta pagine di Lord of Shadows (che, ve lo ricordiamo, potete leggere in italiano cliccando qui), non ci eravamo rese conto di non avervi segnalato una notizia ghiottissima – e cioè che la […]
Oddiooooooooo sto morendo… che bello che bello che bello
Questa cosa però non ha fatto altro che accrescere la mia voglia di leggere quel dannato libro
OMMIODIOOOO!!! RAGAZZE, QUESTI CAPITOLI SONO SUPENDIIIIII!!!! LEGGERLI E’ STATO COME ENTRARE IN PARADISO!! NON VEDO L’ORA DI STRINGERE LORD OF SHADOWS FRA LE BRACCIAAAA!! (Oddio..suona un po’ male…io che stringo il Signore delle Ombre in un abbraccio passionale…Romantico..)
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